Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
Cchiu’ luntana mi staje
Cchiu’ vicino te sento
(Libero Bovio, Passione)
a J.
La poesia è un arte che abita il tempo. E che ne è abitata.
Quale che sia la sua storia, più o meno dal Quindicesimo secolo in avanti, i millenni precedenti l’hanno formata come arte dell’oralità e l’oralità abita il tempo (e fa risuonare lo spazio).
La poesia è, innanzi tutto, la sua durata, il suo realizzarsi, eseguirsi, performarsi nel tempo, attraverso le vibrazioni della voce del poeta, o di chi, in vece sua, la ‘recita’: troviere, trovatore, o giullare che sia.
Essa percorre il tempo, scorre dentro di esso; l’esistenza di figure come la dialefe, o la sinalefe, la dieresi e la sineresi, (essendo evidente che l’accorciamento, o l’allungamento a cui queste figure presiedono, non è certo di natura grafica, o segnica, ma piuttosto riguarda l’articolazione concreta dei segni, la loro esecuzione nel tempo, il loro ‘decorso’) è la prova inoppugnabile di quanto una poesia sia qualcosa che ha una durata nel tempo, un’esecuzione, un’azione agita con il corpo e con la mente, una disciplina della lingua e delle corde vocali, dei polmoni e del cuore, nel suo realizzarsi in un dato momento, con una certa velocità, con una durata, formalmente decisiva, che divide il suo nascere dallo spegnersi della voce che la esegue.
La poesia è un’arte che abita il suono. E che ne è abitata. La poesia è fatta di una materia precisa, quell’insieme di vibrazioni fisiche ed emissioni sonore che chiamiamo voce. La poesia si propaga. La poesia ha un corpo, corpo mutevole, che rimbalza e si infiltra, che penetra, fa eco, indica, si atteggia nello spazio, lo percorre, la poesia ha dita fatte di vocali e consonanti per battere e carezzare, per stringere e per allontanare, per catturare e per liberare, per coprire e per svelare.
Se per millenni la poesia è stata edificata sulle rime, ciò è accaduto per la sua natura squisitamente sonora e da questo punto di vista la rima e tutte le figure ad essa riconducibili (dall’allitterazione alla cobla capfinida) sono il corpo stesso della poesia, i suoi muscoli, i suoi polmoni, il suo fegato, il suo scheletro, e il suo cuore.
La poesia è un’arte che abita la voce, ne cavalca le onde (sonore), sta sulla loro cresta, sfrutta la loro energia, la loro ‘dinamica’, per trasformarla in una direzione, in un senso, in quello che la critica usa definire un ‘significato’.
La voce della poesia è esattamente la voce del poeta, mai il contrario...
Parlare di poesia muta, scorporata, puramente mentalistica è, dunque, fare un ossimoro. E’ ignorare la natura stessa della ‘funzione poetica’ (Jackobson) in cui i tratti sovra-segmentali assumono un’evidente significanza.
Parlare del corpo della poesia è invece la nostra necessità impellente. Quella che renderà di nuovo possibile il suo futuro, attraverso il riconoscimento della sue radici, l’auto-agnizione che le ridarà identità e dignità.
E’ la sua ‘durata’ il suo appartenere integralmente al tempo, al corpo, al luogo di chi la pronuncia, al suo ‘presente, il suo essere ‘atto’, che fa sì che essa possa ‘vincere di mille secoli il silenzio”; la poesia è una ‘materia’, una ‘concretezza’ (De Campos), prima che un segno, o un simbolo, e il suo dio è Efesto e non Apollo.
La poesia è un’arte che abita il ritmo. E che ne è abitata.
Bisogna eseguire una poesia, anche se la si legge a mente, bisogna agire i suoi accenti, battere il tempo di ogni stress. Solo così quella poesia vive, si svela, perché la poesia è un’arte dinamica e l’immobilità la uccide.
Il ritmo della poesia è il risultato dell’intreccio tra le ragioni della forma (e della storia) e quelle del respiro, tra la lentezza e il peso dei significati e la velocità e la leggerezza del suono che li trasporta.
La poesia è un’arte che abita la lingua. E che ne è abitata.
La poesia è fatta di parole e soprattutto delle loro reciproche relazioni. La poesia non inventa solo neologismi, ma neogrammatiche e neosintassi, essa stira la lingua, ne sfrutta tutte le possibilità, fa del fraintendimento, dell’ambiguità del codice, dell’errore, una via per scoprire scampoli di verità, non realizza i sogni, ma dando loro un nome, ci permette di immaginarli, non compie rivoluzioni, ma inventando nuove parole per la rabbia e per il desiderio, ci suggerisce, ogni giorno, che esse sono possibili, immaginabili.
Il compito del poeta è, perciò, far sì che le parole comunichino il più possibile, il meglio possibile, nel modo più imprevisto, profondo, il compito del poeta è ‘tenere in esercizio la lingua’, le parole (Pagliarani), o, se si preferisce, valorizzarne, scoprirne le ‘pieghe’ (Deleuze), dar loro una nuova forma in cui possano di nuovo riconoscersi e risuonare.
Durata, ritmo, suono, lingua: queste sono, a mio parere, le forme della poesia. Tutte le sue forme. Perché la poesia è un’arte plurale. La poesia non si scrive, essa si compone. A maggior ragione quando incontra altre arti, come la musica, rinnovando le sue più antiche radici, o altri media, come il video, le immagini, sperimentando sentieri ancora in buona misura inesplorati.
La poesia è un arte del corpo, tanto quanto della mente, e della sua semiotica concreta, non può in nessun caso essere ridotta all’esercizio di un codice muto, né può mai esserle precluso il dialogo con l’altro da sé, perché il dialogo con l’altro da sé è esattamente la ragione della sua stessa esistenza: essa pertiene tanto all’uso della lingua quanto a quello del respiro, tanto alla disciplina della parola quanto a quella della voce.
Essa è sempre se stessa, ma è sempre disposta a trasformarsi nell’altro, a fondersi, a cibarsi e ad essere fagocitata.
La poesia è un’arte che abita i segni. E che ne è abitata.
Quale che sia la sua storia, più o meno fino al Quindicesimo secolo, i secoli seguenti l’hanno, per l’appunto, irrimediabilmente ‘segnata’, infettata, ferita, colpita, mutata, l’hanno evoluta, fino al punto che le sue cicatrici sono oggi la forma della sua bellezza e della sua efficacia e dunque essa non è più, non può più essere suono, senza essere prima segno muto. Scrittura. Non può più essere pura oralità, anche se non potrà mai rinunciare ad essere ‘oratura’ (Hagege).
Ma il poeta, poi, scrive sempre ‘con le unghie’ (Haddad) e mai con la penna, il poeta legge sempre con le orecchie (e con la voce) e mai con gli occhi, il poeta immagina sempre con il corpo, e con il ritmo del respiro. La poesia è, insomma, etimologicamente, un ‘fare’.
Il suo andare a capo, nello scritto, è solo il simbolo di un movimento della voce, è l’insegna del ritmo, una notazione ‘temporale’, ma nulla di più. Certo non l’essenza del fare poetico.
La lettura poetica ad alta voce, perciò, non è mai un’interpretazione attoriale, ma piuttosto un’esecuzione, anzi una messa in atto, è una performance. Ma lo è da millenni. Da sempre.
Poesia performativa, multimediale, spoken word, hip hop poetry, jazz poetry, spoken music (come si dice oggi in certi ambienti letterari e musicali di New York, per i casi in cui la lettura ad alta voce si fonde con la musica), però, non solo sono definizioni insoddisfacenti (pleonastiche, o tautologiche, improprie, superficiali, parziali), ma anzi rischiano di indicare strade sbagliate.
Se mi ostino a negare ogni altra definizione per ciò che faccio, che non sia semplicemente quella di ‘poesia’, è proprio perché credo che la mutazione delle forme del fare poetico a cui stiamo assistendo non influisca sostanzialmente sulla sua natura e sulle sue caratteristiche.
Oppure, se davvero ci occorre un nome nuovo per tutto ciò, noi quel nome non l’abbiamo ancora trovato. Perché le cose esistono prima dei nomi, anche se poi quei nomi, che sono essi stessi ‘cose’, ne influenzano la natura e la percezione.
La critica attualmente legge (ed è in condizione di leggere) solo due delle forme della poesia: la lingua e, sia pur sotto forma di modello, sia pur trasformando spesso la prosodia in simulazione, affidandosi alla reticenza, quella del ritmo.
Sulle altre non può, non vuole e soprattutto non sa dare risposte. Essa è insomma, letteralmente, ‘critica letteraria’, ma non è ancora capace di essere ‘critica poetica’.
Ma questa sua ‘omertà’ è di grave danno alla possibilità della poesia di raggiungere i propri obiettivi: la poesia, senza la critica, è zoppa, rallenta, va a balzelloni. Ed è stupefacente che, pur di fronte all’evidenza di tante esperienze poetiche che nel mondo oggi intendono la poesia come un’arte della voce, del suono, del corpo, che la mescolano e la fanno interagire con altri media e altre arti, la critica non abbia ancora accettato la sfida di rinnovare radicalmente le sue categorie e i suoi strumenti di analisi e di giudizio. Ma che anzi spesso, almeno una parte di essa, preferisca arrestarsi al pregiudizio.
La poesia è un’arte che abita il mondo. E che ne è abitata. La poesia è un’arte che crea mondi a partire dal mondo. Dunque essa non può ignorare il mondo. La poesia è una dinamica di senso e significato messa in moto dall’energia dell’attrito del reale a contatto con i sogni, le speranze i dolori degli uomini.
La poesia è un’arte che abita il desiderio e la speranza. E che ne è abitata.
La poesia è ragione del sentimento e sentimento della ragione, è esercizio della speranza attraverso la lingua, anche quando essa articola la disperazione e l’orrore. Anzi soprattutto allora.
La poesia è il desiderio che non si appaga e che non smette di desiderare, la poesia è ciò che insegna la speranza, ciò che addestra gli uomini a sperare sempre meglio, a scoprire una ‘speranza concreta’(Bloch).
La poesia è un’arte che abita la politica e la storia. E che ne è abitata.
La poesia è, dunque, sempre politica perché il poeta senza la polis semplicemente non esiste, e non esiste il senso del suo dire, a meno di trasformare in soliloquio ciò che è strutturalmente dialogo, o, quanto meno, ventriloquio.
La poesia è sempre politica anche quando è poesia d’amore perché mai, come in amore, la politica si realizza, è necessaria, perché l’amore è relazione. La poesia è sempre politica, anche quando è puramente introspettiva, perché nessuna polis potrà vivere a lungo se essa non sarà formata da uomini che sappiano guardare dentro se stessi, tanto quanto sono capaci di leggere le contraddizioni in ciò che li circonda.
Ed essa lo è a maggior ragione quando si realizza in pubblico, quando, cioè, essa ritrova il circolo di una comunità, quando si situa tra la gente, quando il poeta, infine, restituisce al mondo ciò che al mondo ha rubato, per dargli un nuovo nome.
La poesia viva è, insomma, quella che vive già oggi per un pubblico che ancora ‘non c’è’ (Deleuze) ma che essa stessa, prima o poi, farà nascere. Perché la poesia, da sempre, ha nostalgia del futuro, ma colloca la sua speranza nel presente.
14 commenti a questo articolo
A mio modesto avviso... (appunti di poetica ragionevolmente sentimentali)
2009-03-10 19:55:39|di Lello Voce
@blepiro - hai ragione amico mio, forse ho allargato troppo i confini, ma è l’alzheimer della vecchiaia che, come al maggior mio machiavellico, in quel dell’Albergaccio, faceva venir voglia di vestire la toga curule solo quando dialogava con certi antenati, per il resto meglio ingaglioffirsi all’osteria. Ma questa è naturalmente anche una forma spiccata di ybris.
(ai miei giudizi su Walcott non dar peso, hai ragione tu, certamente, io, dopo 2 fugaci incontri personali, ho deciso di smettere di leggerlo. Montale aveva ragione a dire che i poeti è meglio non conoscerli mai di persona.Idiosincrasie stupide ovviamente. Dunque pensa a quante delusioni ho provocato io, in versi e di persona)
un saluto
Lello
A mio modesto avviso... (appunti di poetica ragionevolmente sentimentali)
2009-03-10 19:49:42|di Lello Voce
Nobile Signora, qui nelle nostre terre e anche nelle riserve Indiane Ella è stata, come al solito, troppo indulgente con i miei difetti. Ma non le nascondo che ciò mi ha fatto molto piacere. Grazie a Lei dunque
[u make my day, honey, in this sheet hole of world of pain and sorrow... hug u]
A mio modesto avviso... (appunti di poetica ragionevolmente sentimentali)
2009-03-10 03:00:36|di Chiara Daino
Appunti di poetica.
Tra i pochi [ sempre meno ] che comprendo, condivido - e chiedo: per crescere.
Grazie Lello
A mio modesto avviso... (appunti di poetica ragionevolmente sentimentali)
2009-03-09 11:51:15|di blepiro
caro lello, ti ringrazio dell’ospitalità.
Sulla questione della "critica poetica", a proposito di nuovi strumenti in realtà avevo qualcosa in mente, ma credo che tu abbia ragione quando dici che occorrono persone, tempo e mezzi.
Quello che dici a proposito della voce ’multipla’ è certamente condivisibile, ma, allora, dico io, quella cosa è ancora ’lirica’, che ha che fare con Rilke, o con La parola Innamorata? Insomma io credo che come non abbia più senso parlare di Avanguardia e Tradizione, anche l’opposizione lirica/epica abbia perso la sua efficacia.
Completamente d’accordo. Secondo me, questo superamento è già in atto.
Poi quando mi dici che su Walcott non riesci a entusiasmarti mi dispiace (per te ah ah)... se mi parli di Persio la cosa mi interessa. E’ un autore che non ho frequentato, sottovalutandolo, ma ha un risvolto etico e una forza nel dire che va nella direzione che avevo in mente. Non rientrava nella sfera degli esempi anche perché... ehm... ero interessato a vedere un percorso *recente*- e, certo, rispetto alla formazione della Terra o dell’Universo è recente, ma...
In fin dei conti, è un bel modo per allargare i confini :)
A mio modesto avviso... (appunti di poetica ragionevolmente sentimentali)
2009-03-08 15:13:36|di Lello Voce
@ blepiro- La mia poetica è la mia casa, e la mia casa è la tua casa. Benvenuto...
Deleuze è fondamentale per me, insieme a Bloch, sono loro, con Haroldo De Campos, gli auctores che sono dietro al mio inutile saggio qui su. Ed è presente ben oltre l’occorrenza segnalata, ad esempio era proprio a pourparler che pensavo in questo passaggio:
"La poesia è una dinamica di senso e significato messa in moto dall’energia dell’attrito del reale a contatto con i sogni, le speranze i dolori degli uomini."
Deleuze è, a mio parere, una finestra spalancata sul futuro. E dalla quella finestra dovremo guardare tutti per iniziare ad intravedere qualche scampolo di speranza, una ’spera’ di sole come si dice dalle mie parti. E certo il fatto decisivo non è ’comunicare’ ma resistere. Senza dubbio.
Sul fatto che stia nascendo una nuova critica, ho invece qualche dubbio. Ma non perchè i critici attuali siano cattivi, piuttosto perchè mancano letteralmente gli ’strumenti’ le ’categorie’ di analisi e dunque ogni ’giudizio’ diviene, giocoforza, apodittico, influenzato dal ’gusto’, che con l’arte e con la critica ha poco a che fare.
Non sembri pubblicità, ma per esprimere meglio ciò che intendo ti rimando al saggio di La Via che accompagna la mia raccolta. Ed qui in rete su Absolute.
Il problema è che a un critico della poesia ’multiforme’ occorrono competenze che spesso non ha né il critico letterario, né quello musicale. Insomma occorrerebbe una vera ’critica poetica’, ma perchè ciò avvenga temo ci vorrà tempo, lavoro con e dei ’giovani’, spazi, soldi, occasioni, voglia e sogni. E dunque temo che, oltre che per un ’popolo che ancora non c’è’, si faccia poesia, attualmente, anche per ’una critica che ancora non c’è’.
Quello che dici a proposito della voce ’multipla’ è certamente condivisibile, ma, allora, dico io, quella cosa è ancora ’lirica’, che ha che fare con Rilke, o con La parola Innamorata? Insomma io credo che come non abbia più senso parlare di Avanguardia e Tradizione, anche l’opposizione lirica/epica abbia perso la sua efficacia. Dunque abbiamo bisogno di parole nuove (che certo io non ho) dunque abbiamo bisogno di nuovi sogni e infine, come farne a meno? di nuove realtà.
Ma l’ultimo di questi passaggi, a causa della odierne enormi ’contraddizioni strutturali’ (Marx, sì Marx, non Groucho, come va di moda, proprio Karl) è talmente enorme, crudele, sanguinoso, a volte, che quasi viene la voglia di prendere tempo. La rivoluzione non è un pranzo di gala, diceva l’Ilic, che di certe cose aveva esperienza...
Su Walcott poi non riesco proprio ad esntusiasmarmi, e se al posto suo, ti dico, puta caso, Persio?
lv
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2009-03-08 12:39:57|di blepiro
... ecco che ti raggiungo, perché tutto questo mi sta a cuore.
La tua poetica è la mia. Se mi ospiti :)
Compare Deleuze e per me è importante. In ’pourparler’, sempre lui ci dice: " Si scrive in funzione di un popolo a venire e che non ha ancora un linguaggio. Creare non è comunicare, ma resistere."
Mentre leggevo, pensavo che una critica nuova sta già nascendo.
Sulla politica, totalmente d’accordo. E non c’è da cambiare termine, va solo decostruito e ricostruito, in movimento continuo, riattivandone i significati profondi.
E questo si lega, secondo me, alla questione della lirica senza soggetto. è chiaro che c’è sempre un punto di vista, una voce, come ci dici. Ma questa voce non è per forza un Io. Potrebbe essere molecolare, fluida, la voce di una moltitudine. Come un coro.
Una voce abitabile, davvero politica, una ’risorsa comune’ (così Heaney a proposito di Walcott).
A mio modesto avviso... (appunti di poetica ragionevolmente sentimentali)
2009-03-08 09:46:10|di Lello Voce
@ blepiro
Il discorso sarebbe lungo, e in parte è implicitamente fatto nell’inutile scritto di cui parlavo prima.
La ’lirica senza soggetto’ è tesi portata avanti dagli amici genovesi di ’Altri luoghi’ (che per altro sono stati i primi a fare ’gare’ di poesia in Italia, non erano slam, ma insomma avevano la vista lunga quei genovesi). Poi la questione si esaurì con l’esaurirsi del Gruppo 93, che forse ha detto, pensato e fatto più cose di quanto normalmente non si sospetti.
Perchè i media? perchè è la questione ’formalmente’ più importante, è un mutamento così radicale che coinvolge non solo i modi della poesia, ma quelli della critica, ed in modo integrale. Ed è un problema che viene a monte di quelle che usualmente definiamo poetiche. Lo spoken word, la spoken music, la video-poesia si possono fare in tanti modi, ovviamente, e certo il mio ’modo’ è diverso, che so, da quello di Bordoni, Gualtieri o Frasca e ovviamente non c’entra nulla con la truffa di Rondoni e Dalla che fanno finta di interessarsi di poesia e musica a Bologna. Ma, prima di poter discutere di questo, a mio parere, bisogna riflettere su cosa e soprattutto ’come’ la poesia accade oggi, nel mondo, non solo in Italia.
A mio modesto avviso... (appunti di poetica ragionevolmente sentimentali)
2009-03-07 20:12:56|di Lello Voce
@Viola
Sì c’è un rimando ad Austen, e mi fa molto piacere che tu lo abbia notato
lello
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2009-03-03 12:20:19|di viola
Lucide e condivisibili considerazioni, specie sula fonosimbolismo come statuto fondante della poesia e sulla dua dimensioneontologicamente politica. Su "ragione e sentimento" (saggezza e compassione..) c’è un rinvio alla Austen, che anche se non fosse voluto, sembra *assai* interessante. Sul tutto aggiungo un piccolo contributo dell’ultimo Borges, un saluto, Viola
"“Forse il dovere della poesia è quello d mantenere il linguaggio, un’invenzione così imperfetta e al tempo stesso così bella.
Si dice sempre e ovunque che non ci sono più poeti: si dice negli Stati Uniti, in Europa l’ho sentito dire tante volte, nel mio paese si dice sempre.
Ma forse ci sono, invece, invisibili per noi. Non li conosciamo, mentre pensiamo di conoscere quelli del passato.
Il fatto è che il tempo costruisce la sua antologia e non ha ancora elaborato l’antologia del presente.
Forse si conosceranno i poeti di oggi nel Ventunesimo secolo, ma non ora.
Siamo troppi, siamo sperduti, c’è troppa gente e non si può scegliere, mentre il tempo lo può fare, può raccogliere una buona antologia.
Le antologie di oggi non sono quindi troppo buone, evidentemente, ma senza dubbio la poesia esiste.
Forse in questo stesso momento c’è qualcuno che sta scrivendo il poema, il libro, il verso.
E questo è decisamente più importante.”
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2009-03-12 00:10:44|di Chiara Daino
Nelle nostre terre [ come nelle riserve Indiane e nelle orbite Inedite ],lei sa, Tlatoani, non fui mai "indulgente" - attributo che non pratico non predico. Stanca del "sovrano ombelico" rendo grazie a chi ancora - all’atto [ ch’e’segue il detto ]
[ I’ll always thank you for everything you do for US. Lotta Hugs ]