Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
Alberto Santamaría è nato a Torrelavega, in Spagna, nel 1976. Ha conseguito il Dottorato in Filosofia presso l’Università di Salamanca. Ha pubblicato i libri di poesia: El orden del mundo (Renacimiento, 2003), El hombre que salió de la tarta (DVD, 2004) e Notas de verano sobre ficciones del invierno (Visor, 2005). Ha ottenuto i premi Vicente Núñez e il premio Poesía Joven de Radio 3. Nel 2003 ha pubblicato la raccolta di poesie iperrealistiche di José de Ciria e Escalantecon con il titolo De mi sortija penden todos los merenderos. Come saggista ha pubblicato El idilio americano, Ensayos sobre la estética de lo sublime (Università di Salamanca, 2005) e El poema envenenado. Tentativas sobre estética y poética (Pre-Textos, Premio Internacional de Crítica Literaria Amado Alonso, 2008). Attualmente dirige la rivista di poesia "Nadadora".
L’UOMO DEI DARDI
perché c’è di mezzo un tempo diverso tra bellezza e normalità
Andy Warhol
Il grande lanciatore di dardi
piega il braccio destro,
all’altezza dell’orecchio le piume della freccetta
sfarfallano vicine alla sua pelle. Un sussurro breve.
Gli piace. Ormai conosce la sensazione.
Ne riconosce la prima carezza
di Tajta all’alba sulle lenzuola,
il bacio prima del pane e l’arancia.
Dalla sua testa passano il rumore delle voci,
lo stagno invecchiato delle travi,
qualche parola qua e là, avvelenata
in una lingua che non conosce. Lontano,
un odore familiare scende fino ai suoi limiti.
La collocazione è precisa, così come gli è stato insegnato
dal suo maestro Schönen nella lontana Baviera.
- Tutti si aspettano grandi cose dal suo gesto -
Appena avanti il piede sinistro,
gli occhi aguzzi, allerta sullo sfocato
cerchio rosso. Socchiude le palpebre, affievolisce
il suo senso del caos per un istante, quasi può
toccare con l’iride il paesaggio irregolare del bersaglio.
La mira è una forma dell’ordine e del tempo
- dice qualcuno nel giornale dello sport - ma a me basta
la forma sola, la morbida
posizione dei suoi piedi.
Con la freccetta retta così tra
pollice,
indice
e medio,
un istante prima di diventare ordine e tempo,
è quasi una forma simbolica – direbbe Cassirer.
La sua disposizione nello spazio
può meritare di passare alla storia.
E’ simmetrica la sua eleganza e la sua forza. Sull’abito
bianco di raso indossa slanciato
la durezza ocra dei suoi peccati. E’ una forma
arcaica e francese di osservare un merlo
prima del volo (peccato non ci sia Sara
per scattare una foto – pensa qualcuno accanto al dardo).
Non lanciare, resta così per sempre
- chiede un’altro
davanti a questa sensuale purezza delle forme.
Invece, poco conteranno ormai le voci,
e il lontano sapore di Tajta, davanti all’incombente
figura – mediocre e volgare – dell’uomo
che osserva l’inutile buco dell’acciaio sul sughero.
Nulla importa quell’uomo che punta, una volta che avrà lanciato.
E’ un altro in più che attende
accanto al bersaglio.
Senza stile non ci sono luoghi – dice uno slogan,
non ci sono forme, né poesie né mondi. Senza stile non c’è mitologia.
E lui già sapeva – glielo aveva detto il suo maestro di Schönen -
che qualsiasi cambiamento di stile è un cambiamento di volto.
Allora gli viene in mente Wallace:
“che sia – in fondo - il trionfo dell’apparenza”.
(ritornello)
- Non l’ho detto, ma nella mano sinistra,
immobile tratteneva una coppa fine e alta di vino.
Dopo aver lanciato
ormai a nessuno interessa la perfezione dello stile.
Ma
che vino predilige l’uomo dei dardi?
(da El hombre que salió de la tarta, DVD ediciones, Barcelona, 2004)
*
LETTERA DA NEW HAVEN
a new haven cresce la mia ombra tra libri
e alberghi, tra corpi
che addormentati trascinano
il sudore delle mie mani verso lontane
rive, dove la luce dell’estate
tende il silenzio degli acari
ed è di zafferano il sapore del tempo.
e alle volte chiedono di me
nella reception morbide bocche di rhum
e di alabastro
come se io non fossi più vivo.
le carte dell’assicurazione, dicono
l’abominevole uomo delle nevi
sono romanzi che leggo nelle vie senza asfalto,
caratteri grossi con nomi di donne arancione.
il treno delle 7,30 mi porta lontano,
dove i neri lanciano le enormi mani
all’aria, e ti indicano, tremano e ti dicono qualcosa,
amore mio, qualcosa che non capisci mai. la condizione era questa,
abitare il mondo che tu non abiti, aroma puro di quest’ora,
non sapere delle tue labbra sul punto di parlare. non sapere.
a new haven cresce la mia ombra
sotto il rosso rumore di un cielo antico.
(da Notas de verano sobre ficciones del invierno, Visor, Madrid, 2005)
*
ALLUCINAZIONE SULLA NEVE
La neve porta un rumore di passi fino alla porta
un crepitio
di orme
bianche
che fuggono
di nuovo
nessuno sa quanto inverno è capace di reggere
un uomo solo
(da Notas de verano sobre ficciones del invierno, Visor, Madrid, 2005)
*
I CASTRATI SON TORNATI PER COMBINARNE DI NUOVE
tra tanta nebbia
la sua voce fatta di nylon riecheggia
come lo sbattere concavo
delle nacchere
come un boa
come muscoli senza altro da fare questa sera
che saziare la sua bontà nera e ciliegia
tra i fibrosi rami della felce
arrivano
(Non si tratta di piacere, Febo. Sarebbe così facile come sbudellare un kiwi o piantare con cura il seme dell’avocado in un bicchiere d’acqua. Presto avrai i risultati. Si tratta di quello-che-sta-per-succedere. “La tonalità essenziale della cultura del rendimento non si orienta all’ottenimento del piacere, ma al permanere dell’eccitazione”. Aspettare, si tratta di questo).
arrivano
(arrivano camion da Cracovia ingozzati di legname. La loro corteccia ocra è come le tue idee)
arrivano
i castrati son tornati
si aggirano
con i capelli impigliati ai grossi fili di nebbia
son tornati
e non covano niente di buono
(inedito)
*
LA MAPPA DEI FATTI
Delicatamente sto mangiando noccioline. La pelle fine da bibbia che li avvolge mi fa il solletico da qualche parte sulla mano. Non credo che quegli anni fossero felici. E’ facile pensarlo ora quando, seduto su uno sgabello di legno, fatto di sicuro dalle mani di qualcuno di questi vecchi, bevo a piccoli sorsi un enorme bicchiere di birra. La felicità ha questo modo sfrenato di adattarsi ai fatti. Non dirò che non provo un certo piacere crudele in questo semplice esserci tra le cose. Questo tu lo chiameresti la mappa dei fatti. Ma possiedo delle belle vedute sulla sera, con le pareti ricoperte di legno, con le finestre foderate dai cartoni che iniziano a spellarsi come ramata pelle di platano, con i tetti cuciti con rugginose lastre di metallo profilato, con resti di mattoni e pietra rossa senza intagli proveniente da qualche vecchio giardino romantico in rovina... L’elenco sarebbe immenso se non fosse per quella tendenza a confondere le mie idee con le briciole che chiamiamo linguaggio. Il caso, mi dici, ha il volto di un animale morto. E’ inverno. Dal retro, tardi ormai, enormi gru tornano dal lavoro. L’attesa lascia dietro di sé orme bianche come la schiuma. Osserva quel ramo, nel suo ventre la neve ha formato ormai piccoli cerchi.
(inedito)
*
LA PARRUCCA DELLE COSE. CIÒ CHE S’IGNORA
Ma anche ciò che s’ignora esiste nei suoi piccoli atti. Si tratta
di non ritornare a mani vuote, per questo portiamo il vino
e un po’ di formaggio per cena; guardiamo il rastrello
che accanto alla porta tenta le nostre dita, la barba del postino
che si addensa quasi bianca all’altezza del mento; misuriamo la nostra distanza
dal secchio colmo di latte
dal quale ascende un fungo di fumo — nebbia
che attira l’alto grugno dell’inverno. Ci portiamo il bicchiere alla bocca
che poi rimetteremo sul tavolo
col segno lattiginoso del sorso sull’orlo. E’ qualcosa di più
dell’apparente variazione di un muscolo. Nei margini
come vedi, c’è sempre vita. Chi custodirà il nostro segreto
ora che abbiamo perduto i biglietti di ritorno?
Nulla in questo luogo ci è familiare. Né la luce che esagera
i suoi limiti, né il timbro metallico del macellaio
che arrota i coltelli lontano ormai dalla preda. Niente. (Non ti preoccupare,
sei in salvo,
l’onda di sequestri non ti coinvolgerà, tu commerci
con piccole lucertole di rame. Ma chi è tutta quella gente
che respira dentro un enorme punto interrogativo?)
— Senti, mi dici mentre cerchi il numero esatto del tuo posto,
saremo capaci di vivere in una città così comuni come questa?
(inedito)
*
IL SISTEMA DELL’AMORE (Lezione di filologia botanica)
Quello che io posso dire non ha importanza, nessuna. Per caso all’aria importa quando un uccello idiota sbatte le ali? Mai ho innaffiato le due piante che mi regalasti - Monstera deliciosa, Platycerium bifurcatum - nonostante crescano senza mistero verso l’alto. Fuggono verso di te da casa mia.
Dalla mia cucina
esce il fumo
in una lingua
sconosciuta.
*
(inedito)
ALLUCINATO
Frammento
Il poetico è una questione di confini di falde. Ai due lati della poesia rimangono in costante bilico il linguaggio, nella sua assoluta estensione, e il reale, nel suo assoluto dubbio e nella sua multiformità. La questione, messa così, non è altro che concepire la poesia come una rottura del discorso, dell’argomento. Per raggiungere ancora un altro spazio ignorato e ignorante. Meglio ancora, concepire la poesia come la possibilità di molteplici discorsi che ruotano attorno a un asse, dove il poeta non conosce la meta che deve raggiungere. Per ciò la poesia è la lotta tra il reale e l’immaginario, tra il mondo reale e l’immaginario. L’immaginazione (con i suoi contatti ironici) è un criterio fondamentale. E’ qualcosa come il veleno necessario per far sì che la poesia covi. La poesia è uno spazio dove il reale è violentato dalla possibilità di smettere d’essere un fatto per “sciogliersi” nella sua potenzialità e possibilità nella parola (mito) poetica. D’altronde quel reale fa pressione, pure. Il reale è un processo. Per questo, quando si fa poesia, ci sta tutto. L’allucinazione arriva come un processo di intromissione dell’irreale nel reale e, in qualche modo, in qualche forma, quello che possiamo definire un interesse e progetto poetico personale. Non posso negare a questo punto che la presenza della poesia di José Hierro è stata per me, dal principio, un modello poetico da seguire. (Immaginare e ricordare / si sovvrapongono e si confondono…) scrive nel Libro delle allucinazioni. Ecco l’idea. Da una realtà minima il poeta introduce attraverso la parola poetica l’irrealtà, creando in questo nuovo modo un nuovo contesto.
L’allucinazione così concepita, come una riformulazione di un sublime che ho spiegato frettolosamente, sarebbe qualcosa come un lungo e difficile oggettivo teorico e poetico. Il soggetto che ne è preda, il poeta, nel processo allucinatorio perde la capacità di discernere ciò che è un oggetto interno e ciò che è una realtà esterna, perdendo in questo modo nel processo della poesia il senso argomentativo che si suppone abbia la realtà. In questo modo ci sta tutto.
*
(traduzioni dallo spagnolo di Ana Ciurans)
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post precedenti:
I - János Pilinszky (Ungheria)
II - Viktor Kubati (Albania)
III - Slavko Mihalić (Croazia)
IV - Mircea Dinescu (Romania)
V - Rade Šerbedžija (Croazia)
VI - Alfred Lichtenstein (Germania)
VII - Marcello Potocco (Slovenia)
VIII - Stanka Hrastelj (Slovenia)
IX - Pablo García Casado (Spagna)
X - Gonzalo Escarpa (Spagna)
XI - Juan Carlos Abril (Spagna)
XII - Ana Brnardić (Croazia)
XIII - Natalia Menéndez (Spagna)
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