Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
ARBEN DEDJA è nato nel 1964 a Tirana (Albania), dove si è laureato in Medicina e Chirurgia e specializzato in Chirurgia Generale. Vive in Italia dal 1999 e lavora come ricercatore presso l’Università degli Studi di Padova. Pubblica articoli nel campo della trapiantologia e delle cellule staminali. In Albania sono usciti due suoi libri di poesie originali e tre di traduzioni poetiche (da Cavalcanti, Saba e dal poeta ceco Miroslav Holub). Autotraducendosi, ha potuto pubblicare suoi testi in riviste e antologie italiane.
Elegia crudele per mio padre
1.
Ho lavato mio padre morto
una mattina di marzo con i geli
d’inverno ancora tra i piedi
e proprio dai piedi iniziai
– acqua e sapone – finchè ebbe
odore di detersivo poi tra le cosce
ho sfiorato appena i testicoli in quella
occasione per la prima volta svelati
lo vestii con camicia e abito
il migliore tenendogli drizzata
la testa che non cadesse sul petto
lo sdraiai senza-orologio-e-senza-anello
li pettinai i capelli bianchi lo rasai
a secco ansimai con le scarpe
nuove tre-manici-di-cucchiai-spezzati e
alla fine gli misi una cravatta dopo
aver fatto prima il nodo sul mio
collo.
2.
Padre mio quando tu moristi
ti tenemmo per ventiquattr’ore
non sepolto a farti gli ultimi
onori una lunga veglia
ma intanto l’inverno lasciava
la terra e così a mezzanotte
spegnemmo il riscaldamento tra noi
rannicchiammo mentre qualcuno
cospargeva di profumi la stanza
il corridoio la cucina l’altra stanza
il mondo intero…
3.
Compianto padre mio quando moristi
fu impresa difficile
farti scendere per le scale strette della palazzina
costruita con i lavori forzati nel periodo
hoxhiano un cugino di settimo
grado arrampicato sulle sbarre
della finestra del vicino si occupò
a dirigere le operazioni il falegname
del quinto piano stramisurò
con un metro gli angoli del calvario
qualcuno martire mise la schiena
sotto la bara ma comunque
spaccammo lo stesso la lampada
delle scale scalfimmo
l’intonaco mentre tu dentro ti muovevi
sacco di noci ammucchiato sulla testa
che secondo l’usanza
doveva uscire per prima.
*
Il racconto del Membro del Politburo
Agli inizi pranzavamo e cenavamo spesso
insieme
per i compleanni dei bambini delle mogli
poi cominciammo a incontrarci raramente
poi ancora di meno
(in pratica ogni 5 anni per la Festa della Liberazione)
poi soltanto per porgere le condoglianze
per la morte dei nostri genitori
a poco a poco cominciammo a morire anche noi
malattie incidenti
invecchiavamo intanto e le morti aumentavano
ancora malattie incidenti qualche suicidio
e fu così che aprimmo una parcella a parte al cimitero
poi allestimmo un servizio speciale di becchini
poi mettemmo delle guardie armate
per difenderli dai branchi di lupi
poi decidemmo di mollare picconi e pale
poi ordinammo ai becchini di tenere con sé un materasso
poi non inchiodavamo neanche il coperchio della bara
alla fine usavamo una sola bara
su e giù con il morto di turno.
*
La sepoltura del Maestro
E noi che volevamo fare
al Maestro maestosa la sua ultima
cerimonia ma ecco che iniziò
un acquazzone che
decimò i nostri ranghi da discepoli
mentre saltavamo tombe sbieche
rinculando verso le macchine sbattendo
le brache sporche di fango –
appiccicoso di morti servili
raschiando le suole alle lapidi
per pulire le caccole delle pecore
liberate a pascere quell’erba
nutriente di chiappe marcite
mentre un hodja improvvisato
era a caccia di cerimonie mistiche.
Non si seppe mai come fecero
i becchini a calare la bara
così folte erano le corde della pioggia
ma dicono la pioggia d’estate sia come
il correre dell’asino e così dimenticammo
già tutto infilati nei nostri
contemporanei pigiami.
*
Ispezione chirurgica
Nella cieca luce della stanza
una notte esaminai
un vecchietto rannicchiato dei sobborghi di Prishtina
alloggiato temporaneamente nel campo tedesco
dei rifugiati – ma non era in grado di spiegare
dove.
Vidi le sue gambe sottili, storte
quando mi si denudò davanti
e il pene circonciso malamente da
qualche barbiere nella lontana fanciullezza. Otto
figli aveva e cinque
figlie tutti sposati, nessuno con lui –
sparsi per il mondo, uccisi –
ma non ci capivamo bene: lui nel suo dialetto
io con la mia lingua letteraria.
Un vecchio finito ormai, gemeva
davanti a me ad ogni tocco.
Non era stato così
là nella sua capanna quando l’avevano cacciato
a calci l’avevano messo in fila,
conoscevo l’indecifrabile
suo sguardo sul rosario
sul fango della strada.
Facile e immediata la diagnosi:
cancro della prostata.
Poco si poteva fare per lui –
e non c’era posto in reparto.
Era notte, ma lo spedii lo stesso al campo:
«Fatti vivo la settimana prossima, bacë*!»
*In Kosovo, si chiamano così i più anziani, in segno di rispetto.
*
Barney Clark*
Quando decisi di disfarmi del mio rottame
le infermiere mi rinfrescavano,
puntavano la mia stilografica nella mira
e sette ditte produttrici di cuori
erano pronte a pesarmi in oro
purché scegliessi la loro.
Lo sapevo come sarebbe stata grande e pesante la valigia con dentro il mio cuore.
Impossibile contenere dolori, sogni, beffe?
Non avevo forze per sollevarla: mi muovevo in carrozzina
da un lato il motore, dall’altro il mio cuore.
Non lo esibiscono forse così in campagna elettorale
il loro cuore i Senatori?
Non lo rimorchiano forse così nei concerti
il loro cuore i Rockettari?
E i Prigionieri su-e-giù per gli ascensori
con la loro pesante valigia
come la palla tra i piedi?
Così tutti finalmente possono vedere un cuore.
Così tutti finalmente possono baciare un cuore.
Così tutti finalmente possono imparare un cuore.
E poi, non ho fatto ancora della morte uno spettacolo, da tifo?
Per una volta ha superato la morte africana
ha sovrastato la sedia elettrica
questa mia morte in apparenza semplice
la morte dimenticata numerica routinaria di ospedali geometrici
verdi calcolati al centesimo…
perché anche i cuori meccanici sanno morire,
o miei cari.
*Il 61-enne dentista americano che visse per 112 giorni con un cuore artificiale.
*
La presentazione
Ah si, ricordo bene gli albanesi
arrivarono in ciurme dal confine settentrionale
come abbondarono quell’anno le civette nei dintorni.
Ed io donai e donai e donai e donai
in quell’occasione rinnovai il Guardaroba di ieri
si fece in quattro mio marito per la nuova Biancheria.
Poi irruppero i curdi sorridenti come primavera
con le gambe di legno marcite dalle onde
poi i ruandesi che sbagliarono strada.
Ed io donai e donai e donai e donai
di nuovo ho dato via la Biancheria Firmata
era un po’ fuori moda il Ricamo delle Mutande.
Poi i moldavi scattarono con zattere fatali
poi gli iracheni camminando su ghiacci
i burundesi con gabbane squarciate dai lupi.
Ancora io donai e donai e donai e donai
avevano le afgane tutti i miei Reggiseni
la mendicante bosniaca sette Mutande vestiva.
Poi arrivarono i cingalesi con tizzoni nei taschini
e poi i kossovari ma erano fuori stagione
per le Passerelle di New-York – Paris – Milano.
Io ancora donai e donai e donai e donai
anche se mi forzarono la casa per rubare il Guardaroba
che, per fortuna, era vuoto dall’ultima donazione…
…qui la Signora interruppe il discorso perché, nel frattempo,
gli presentarono un islandese.
*
Cimitero
Figlio mio, quando mi accompagni al cimitero
per salutare i cari estinti
durante le mie visite toccata e fuga nel paese natìo
a te interessano soltanto addizioni & sottrazioni
delle date di nascita delle date di morte
e ti impressiona
solo chi è morto molto vecchio
mentre muovi il tuo passo leggero
sulla terra che tutto copre
ed io sorrido ancora
poiché non sono così vecchio
da occupare un posto d’onore
nel regno
dell’aritmetica.
(traduzioni dall’albanese a cura dell’autore)
**
Sono sempre stato circondato – trovandomi benissimo – con persone che non si interessavano di poesia. Penso che la mia tendenza a versificare – all’inizio si trattava di questo – loro la consideravano come una forma benigna di svitamento. Poi in adolescenza, quando i pochi libri belli in circolazione venivano divorati in un battibaleno nelle letture delle notti solitarie, il resto della vita mi sembrava di una noia mortale. Così ho iniziato a scrivere (e a tradurre poesia) più seriamente. Più seriamente ma non in modo serio, poiché scrivevo principalmente per sfuggire alla noia e (sub coscientemente) per nutrire le mie amicizie, frequentazioni e esistenzialità con persone fuori dalla poesia. È, forse, per conciliare tutto questo che la scrittura si è lentamente modellata con le sue (credo) caratteristiche di oggi: leggerezza e (auto)ironia. Oltre la persona timida e isolata che sono una poesia un po’ strizzaocchio e giocherellona. E triste. Cin cin!
Arben Dedja
Padova, 2008
***
post precedenti:
I - János Pilinszky (Ungheria)
II - Viktor Kubati (Albania)
III - Slavko Mihalić (Croazia)
IV - Mircea Dinescu (Romania)
V - Rade Šerbedžija (Croazia)
VI - Alfred Lichtenstein (Germania)
VII - Marcello Potocco (Slovenia)
VIII - Stanka Hrastelj (Slovenia)
IX - Pablo García Casado (Spagna)
X - Gonzalo Escarpa (Spagna)
XI - Juan Carlos Abril (Spagna)
XII - Ana Brnardić (Croazia)
XIII - Natalia Menéndez (Spagna)
XIV - Alberto Santamaría (Spagna)
ARBEN DEDJA: anche i cuori meccanici sanno morire
2008-09-16 16:28:28|di giusto misiano
Nella valigia del Poeta Arben Dedja c’è tutta l’umana sofferenza, il verso è come un bìsturi che taglia le delusioni,gli affetti perduti la terapia d’incisione è di una calma straripante ,ricca d’immagini perfetta,universale, il dolore di un canto narrativo , senza confìne .