Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
CATALOGO DELLA DANZA
(e di altro, per intervalla di un lessico topico)
di Gianfranco Ciabatti
a Gianfranco Pala
critico dell’economia politica
Cos’è il privato?
Essendo, si sottrae al nostro nominarlo,
lui, plaga di cesure
disertate dal vento,
non sappiamo chi sia (se non è senso
di chiusa sfera che se stessa includa).
Se lo dici, lo estrinsechi
pubblico
oggetto dell’indagine o vessillo.
Nell’un caso e nell’altro, il privato
non è.
Frantumato l’involucro pubere
in crepitii di bave dissecate,
sgusciai fuori al volere, operaio senza agone,
amante irrituale (così almeno,
negli acerbi mattini,
verba incompiute e scarse
mi obbligavano a dire): contro me
si erse tutto il villaggio. I miei leni coetanei
puntarono a nozze,
a funzioni.
Chi era nel privato? io che oscuro
me solo conobbi ove sangue alienato fluisse
nel brulichio del tempo? o pur essi, gli intenti
ai fatti loro, al posto?
E chi era nel pubblico? io, privata larva
d’elezione, se mai ve ne furono, pubblica
dalle rissa immanenti coatta, o i già pubblici per nascita
e persuasione?
Miseri i segni, misero lo studio
della sapienza.
Unica res, infine, liberata
dei glossici veli, si aperse
la lotta.
Privato e pubblico, personale e sociale e tutte le altre fictae
binarie opposizioni
caddero al mio respiro adolescente
stretto a vincere o a perdere. Millenni
prima era stato detto.
Il carnevale arde
i pupazzi impagliati. Officiante da meno
l’ideologia rovescia l’ente
in mera effigie, riflette il carnaio
ch’ella nutrita nutre, il ventre della vita, inscena intero
il falso ministrante
della parte feroce del vero. Chiami crisi
dell’ideologia la substantia
d’imperial verminaio.
Chi figurò la forma della danza
del capodoglio
(che tonfa la sua mole umida e lustra
in clamorose stasi di canto e di silenzio)
ne tacque il morbo già riconoscibile
al primo sguardo nella nera facies,
omissione sospetta, eccitante
suspicione leggittima contro la danza (presunta
tautologia,
taciuto linimento del dolore o accento stridulo
del ludus di Narciso).
Se della danza vedi l’inessenza,
l’eteronomia, e nondimeno
danzi,
sarai lo gnomo dentro i minerali
che dietro lo splendore delle vene
cunicola effrazioni.
Siamo giunti alla lotta attraverso la danza,
là dove già eravamo (riconosciamo i luoghi!),
da una parte che sia, nostro malgrado
o assenso.
E se danzante
sull’universo sintomo ti tieni, caparbio non edotto,
o, virtù rattrapita, alimenti la tua
paralisi appartata,
insisti te nolente sull’una o l’altra banda della lizza,
come un giorno vedremo, o tra poco
(poi che pare smarrita la memoria
di che ieri si vide).
Ti rimane, intelletto, la tua restrizione
in un corpo qualsiasi,
grano di duna, pulviscolo di nembo, in due scempiato,
e alla luce di questa divisione
dimettere la spoglia che chiami privilegio,
maschera che agli accoliti ti svela
nell’antro rituale, ma all’esterno (ai tuoi occhi occultuato)
ti occulta.
Potresti giungere per altra via,
sui campi già culti ove morte vedesti, tu dici,
d’ideologia mostrare tundre
alla tua libertà e alla tua scienza,
franche cacciatrici che limite non frena
che non sia
fiera di guerra, di contraddizione
da guardare negli occhi, poiché vuoi che si renda
fede alla tua visione -
se non fosse, la tua,
nuova menzogna che mentisce morte
le menzogne. E non puoi.
Estinto del signore il soma e il nome nella urlata
percussione del messo in livrea,
si vuole estinto lo stato servile,
ma è l’araldo dell’arbitrio petulato che ora mima
a discrezione sua la monumissio.
Dadi truccati. Il gioco si fa greve. Nel ridotto
crollante di detriti ariose mani artigliano
l’impugnatura della negazione:
temerarie, se i bari estenuati
possono contare sull’inerte
preesistenza del mondo, e le aguzze vedette
dietro la feritoia
dalla loro hanno tutta la forza del mondo che ancora
non è.
da "Niente di personale", Sansoni Editore, Firenze 1989.
"Alle origini di Ciabatti sta il salterio biblico piuttosto che l’usignolo umanistico. Tutta la sua macchinazione linguistica è analoga, sebbene di segno rovesciato, a quella degli autori di oggi in vari modi mistilingui e in lotta con l’eredità della lingua alta. Qui si recupera proprio quella alta e regia, ma per parlare alle (o delle) vittime dei re. Si tratta, nei suoi versi, di imparare e di insegnare in una società che non vuole avere memoria del passato e tanto meno del futuro. Sotto il marxismo di Ciabatti cova il sentimento di un anarchico non individualista, l’aspirazione alla cellula esemplare e fraterna, alla congiura degli eguali." (Franco Fortini, dalla Prefazione a "Niente di personale")
Gianfranco Ciabatti è nato a Ponsacco nel 1936 e ha vissuto per molti anni a Pontedera (Pisa). Laureatosi in legge, fu arrestato perché obiettore di coscienza. Uscito dal carcere partecipò attivamente ai movimenti del ’68. Dopo vari lavori precari, lavorò per alcuni anni presso la casa editrice Sansoni di Firenze. Fondò due riviste marxiste: Nuovo impegno, nel 1965, di cui fu redattore fino al 1977, e negli anni ottanta La contraddizione. Ha collaborato ad Alfabeta, Allegoria e L’immaginazione. Ha esordito come poeta nell’antologia Nuovi poeti italiani (Einaudi 1980) con testi selezionati da Franco Fortini. In seguito pubblicò tre libri di poesie: Preavvisi al reo (1985), Prima persona plurale (1988), Niente di personale (1989). Sono usciti postumi un libro di epigrammi politici (Abicì d’anteguerra, scaricabile qui) e la raccolta In corpore viri (1997). E’ morto nel febbraio 1994.
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