Absolute Poetry 2.0
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AVANGUARDIA, POESIA E NEW ITALIAN EPIC

(sull’esercizio critico della parola)

Articolo postato domenica 8 marzo 2009
da Nevio Gambula

Ripropongo un mio articolo sul rapporto tra avanguardia e poesia. È stato scritto un paio di anni fa e raccoglie una serie di commenti da me scritti durante alcune discussioni avvenute su Absolutepoetry, ovviamente sistematizzati. L’articolo fa parte del Capitolo 7 (In abyssum) del mio Libro della sparizione. Perché riproporlo? Intanto, perché ho notato, nel dibattito attorno al New Italian Epic che si sta svolgendo in rete, un certo fastidio nei confronti delle avanguardie artistiche, spesso fuori luogo; e inoltre perché alcuni hanno cominciato a proporre il trasferimento dello sguardo teorico proposto in NIE nell’ambito della poesia. Ma anche perché, pur nella coincidenza di certi concetti o dei paesaggi culturali chiamati in causa, si propone una direzione diversa da quella delineata da Wu Ming. La poesia – la letteratura, l’arte tutta – è un «campo di conflitto»; ha senso interrogarsi su quali pratiche incentivino la critica?

***

1. Ogni dibattito sull’avanguardia è impossibile se non si stabilisce in principio quale sia il significato di questa parola così ambigua. Troppe le diversità di visione, direi troppi i pregiudizi, tali davvero da rendere inutile ogni discussione. Ognuno s’è fatta una sua idea di cosa sia stata l’avanguardia, ognuna legittima, ognuna parziale. Per quanto mi riguarda, le vicende e gli esiti, ad analizzarli distaccatamente, suggeriscono una capacità di stare nel tempo e di offrire risposte soddisfacenti ai problemi formali. In fondo, l’avanguardia è stata nient’altro che l’arte che si poneva contro se stessa (è stata una opposizione nel campo del gusto). C’è chi ha detto – Sanguineti e Enzensberger meglio di altri – che le ragioni dell’avanguardia vanno rintracciate negli accadimenti storici, e in particolare nelle contraddizioni del modo di produzione capitalistico. D’altra parte, da quando l’arte è stata sottoposta al dominio del denaro, sempre sono sorte esperienze in rottura con l’ufficialità data dal mercato: e l’avanguardia, «animata dallo spirito della negazione e della rivolta», è stata per un lungo periodo la più significativa. Ecco, diciamo che per me il senso della parola “avanguardia” sta nella creazione di geroglifici di senso capaci di valutare, nei modi propri dell’arte, l’insieme dei rapporti sociali alludendo ad un diverso possibile … E siccome non credo che sia venuta meno la necessità di superare ciò-che-è per andare in direzione di quello che non-è-ancora, la mia simpatia per quei movimenti resta intatta. Se pure ritengo che non abbia senso, oggi, proclamarsi Ulteriore Avanguardia, allo stesso modo reputo importante verificare se le istanze che hanno contraddistinto le migliori avanguardie del secolo precedente possano dirci «qualcosa di decisivo per il nostro presente». La mia opinione è che alcune delle declinazioni dell’avanguardia sono valide ancora oggi. Ad esempio:

• La necessità di interfacciarsi criticamente con la produzione poetica corrente, come corollario della necessità di porsi criticamente rispetto al presente.

• La forza espressiva del grottesco e della parodia (la loro capacità di produrre «sorpresa conoscitiva»).

• La crudeltà (Artaud).

• Il distacco tra significato e significante, così come proposto dal concetto di straniamento (interferenza tra il piano sintattico e quello semantico).

• L’anti-lirismo inteso come rifiuto dello sguardo privato e narcisistico del poeta.

• Il rifiuto delle funzioni salvifiche della parola (e il rifiuto di una parola “neutra”).

• Un atteggiamento critico-semiotico indiretto (allegoria, anti-contenutismo).

• Il ritmo come capacità di produrre senso.

• La semantizzazione dei suoni (phoné, il corpo orale che sdelimita lo scritto – secundum Carmelo Bene).

• L’anti-economicità delle opere (sottrarsi ai meccanismi perversi del mercato, ma anche come assenza di finalità).

• Il verso libero (l’inessenzialità della metrica tradizionale).

2. Voglio uscire dalle definizioni, allontanarmi il più possibile da un dibattito sui “nomi”. Considerandomi ancora un inguaribile materialista, mi interessano molto di più le “cose” (le opere). Preferisco insomma soffermarmi sulle ricorrenze formali e semantiche di un testo, a partire dall’analisi delle diverse sue “qualità”: a) i valori conoscitivi dell’opera (il suo modo di rapportarsi alla realtà); b) i suoi livelli linguistico-semantici (il linguaggio come problema); c) gli “stili” e le “tecniche”. Ritengo ancora valida la seguente preposizione di Vittorini: «LA LETTERATURA HA SEMPRE PIÙ BISOGNO DI SPOSTARSI DAL PIANO DELLA CONSOLAZIONE, DAL PIANO DELLA DIREZIONE DI COSCIENZA, DAL PIANO DELLA RELIGIONE, A QUELLO OPPOSTO DELLE VERIFICHE, DELLE APPROSSIMAZIONI DETERMINANTI, DELLE CONTESTAZIONI FECONDE, DELLE ILLUMINAZIONI OPERATIVE». In questa direzione ha senso sia il lavoro del poeta che agisce “spontaneamente” senza porsi il problema di ciò che gli sta intorno, e magari così facendo giunge a scoprire “forme” diverse da quelle solite, così come ha senso il lavoro del poeta che sceglie un’ottica di rottura rispetto ai canoni vigenti (quello per cui la funzione della poesia è una funzione prima di tutto oppositiva). Nel primo caso ha valenza il metodo (o il libro come cosa in sé), nel secondo la divergenza (il libro come contraddizione). Entrambi «registrano una situazione di crisi». Ciò che cambia è l’atteggiamento con cui la si affronta. Le possibilità espressive del primo poeta sono una questione tutta interna al linguaggio, per cui la poesia è disgiunta dal «poeta empirico», dall’uomo reale. L’extra-linguistico, in questo caso, appare come dimensione specifica del linguaggio, ma l’intenzionalità del poeta è indirizzata a fondare «una ontologia poetica», ovvero al «superamento delle contingenze esistenziali privilegiando il livello delle operazioni linguistiche». La conflittualità del secondo poeta, invece, non disdegna, anzi persegue con forza, la messa in relazione della poesia con ciò che la trascende, con in più la consapevolezza che il significante è subito il significato (e viceversa). Crede che per minare la “menzogna” propria del linguaggio – la sua contiguità con il “potere” – bisogna aggredirne le funzioni . Potremmo indicare in Beckett e Majakovskij due esponenti di queste diverse linee (o Manganelli e Sanguineti, per restare in ambito italiano). Mi interessano i risultati concreti di questi atteggiamenti, al di là di ogni appartenenza a gruppi o a etichette. Anzi, sono certo che sia quanto mai necessario impegnarsi in una riflessione che miri a superare le definizioni stesse di “avanguardia” o “ricerca” o “sperimentazione” per giungere a una sintesi ulteriore, capace di comprendere differenze operative all’interno di un unico discorso sulla poesia e sul presente.

3. Solo il presente conta, e il presente è capitalistico.

4. È importante evidenziare come, dal punto di vista sociale e culturale, la situazione non è affatto diversa da quella che ha fatto da base per le operazioni di rottura del consenso formale delle avanguardie; anzi, per certi versi la situazione è andata peggiorando, rendendo tutto il mondo una immane merce-spettacolo. I mutamenti avvenuti in campo economico, sociale e culturale, oltre che in quello delle coscienze, non hanno minato le invarianze del modo di produzione capitalistico. Delocalizzazione di comparti produttivi, esternalizzazione, flessibilità organizzativa, ad esempio, sono fenomeni che il capitale ha dovuto attivare per fare fronte alle nuove esigenze della concorrenza: ristrutturandosi, il capitale rinnovava se stesso e la sua lunga manus sulla società. E lo faceva – non poteva che farlo, per necessità – anche rifondando il proprio apparato terminologico e concettuale. Così l’ambito culturale viene invaso sa istanze di tipo nuovo, tese a confermare la centralità economica dell’impresa e il controllo sul lavoro, nonché a superare definitivamente ogni idea di transizione (ad un altro ordine sociale). E siamo dentro il cosiddetto postmoderno. Filosoficamente, il postmoderno definisce l’esistente come “il punto finale” dello sviluppo storico: esaurisce in se stesso la categoria di storia e toglie valore a ogni “grande narrazione”: il capitalismo diventa così «il migliore dei mondi possibile». Questa visione postula il venir meno delle contraddizioni e dell’importanza del conflitto, anche di quello culturale. Oppure, nei casi più critici, presupponendo la sparizione del “centro” (di un centro riconoscibile di comando) a scapito della «frammentazione pulviscolare» del potere, si sottolinea l’esigenza di superare ogni idea di scontro aperto contro Monsieur Le Capital, facendo diventare unico campo di opposizione praticabile il linguaggio. Come ora possiamo verificare facilmente, la cultura postmoderna era nient’altro che la momentanea ideologia dominante, oggi già superata dagli stessi suoi fautori. Il postmoderno era insieme una copertura e una giustificazione della «pesante involuzione sociale e culturale a cui abbiamo assistito dagli anni Sessanta in poi». Esso ha abbellito la realtà, l’ha estetizzata, togliendole profondità: ha portato al trionfo le superfici ben levigate, espunte di ogni escrescenza; e ha affermato il dominio dell’homo linguisticus. Finite le prospettive di trasformazione del reale, non poteva che rimanere, quale unica possibilità di porsi in alterità rispetto al linguaggio consumato dalla comunicazione, quella della pratica artistica: l’arte come maniera, indifferente alla lotta tra le estetiche, stretta tra il «simbolismo oracolare» e il missaggio indifferente di lacerti, e tesa a recuperare a-criticamente tradizioni passate … In questo contesto di pensiero, la cultura postmoderna non poteva che decretare l’impossibilità dell’avanguardia. L’onda lunga di questo severo giudizio giunge fino a noi, tant’è che il nome stesso di “avanguardia” sembra fare ancora oggi paura. Si tratta di capire se ha ancora senso “eccedere” le forme date, se sia insomma ancora possibile porsi al di là del gusto corrente, e se sì, in che modo.

5. Ormai si scrive nel vuoto, senza referenti. Sulla pagina rimane solo una macchia di parole; volteggia sopra la pagina un elicottero. Senza pubblico, la poesia tiene lo sguardo a terra, gira le spalle, caracolla, si pone di fronte, balla, resta immobile, si dispera d’un dolore senza soluzione. Rompe il silenzio, rivolgendosi a nessuno. Cerca d’imboccare la strada giusta, certa che sbaglierà di nuovo; nel suo fragore senza messaggio s’ammassano limpidi versi d’impotenza. Notte e ruina, fuochi immensi, ceneri mosse dalle eliche: nel vortice la poesia cede il passo, arretra, procede ancora, precipita in tanta alterità. È la sua recente situazione: afasia … Ogni tanto però, tra il balbettare notturno e la memoria dell’alba, affiora il ricordo d’una poesia come laboratorio di «forme materiali e fantastiche e corporali» che reagiscono all’imbarbarimento del linguaggio comune. È in quell’attimo che scrivo:

«Con passo precario / e audacissimo», dissemina segnali di futuro: la poesia è «anticipazione». Se è così, allora può ancora avere il suo senso praticarla come utopia, a cominciare dal distaccarsi dall’idea di bellezza che la nostra epoca fa circolare. E può avere il suo senso se soprattutto si evita: a) la pratica ornamentale, il manierismo, di farla cioè una operazione sul linguaggio che non sia anche demistificazione; b) la fuga dalla totalità linguistica privilegiando la dimensione del significato (o del solo significante). Disgusto e sguardo protesi in avanti: in questo senso, la poesia, spinta dal «fuoco del desiderio», agisce come una forza conoscitiva chiaroveggente. Non rassegnazione, dunque, ma ribellione profetica; non il linguaggio della consolazione, che addomestica ogni conflitto vitale, ma il linguaggio del confronto e del dolore. Con il giusto disprezzo nei confronti di tutto l’establishment culturale e sociale. Fare poesia è andare fuori rotta. Fuori rotta, ossia invenzione di un percorso che tradisce se stesso. Fuori rotta come scomposta deviazione; come un andare senza seguire il senso della corrente, sempre in cerca di un approdo da abbandonare. Al di là di ogni limite, e di ogni pudore ad esprimere un senso "altro", incurante della coerenza e della costanza. Andare fuori rotta non è andare alla deriva. Andare fuori rotta è disfarsi di ogni rappresentazione (e in particolare di ogni rappresentazione consolante). L’avvenire – il futuro, ciò che sarà pur non essendo ancora – è ciò che eccede il presente, dunque che spiazza ogni percorso. Andare fuori rotta è cercare un’altra forma del mondo. E’ un compito estremamente concreto - un compito che può configurarsi solo come una lotta: una lotta di pensiero-parola. Andare fuori rotta significa allora: «subito, senza aspettare, riaprire ogni lotta possibile per un mondo, o per ciò che dovrà infine formare il contrario di una globale ingiustizia imposta dall’equivalenza generale» (J-L Nancy).

Ma dura poco. Diffido di ogni euforia. Resto, senza trionfo, nell’abisso …

***

[Sul rapporto scrittura, storia, immaginazione, eccedenza, rimando anche all’opera L’altra dentro di me, declinazione erotico-creativa delle stesse questioni]

1 commenti a questo articolo

AVANGUARDIA, POESIA E NEW ITALIAN EPIC
2009-03-11 13:27:24|di Milena Massalongo

Caro Nevio, l’articolo è centrato, e centrale. Quello che dici sul postmoderno, la fine (di comodo) della storia e questo homunculus linguisticus è e andrebbe inciso nella pietra. Così come le poesieelicottero, nemmeno paroletrottola, perché prive di qualsiasi forza centrifuga, deragliante, urtante contro qualcosa che non sia l’autoreferenza formalistica.
Unica mia perplessità, non tanto su quello che dici, perché dici il vero sull’avanguardia, ma è proprio questo vero dell’avanguardia che mi lascia, dall’età della consapevolezza minima, perplessa –e forse trovo, ma già so che c’è, un po’ di perplessità anche in te (la tua euforia che dura poco): è quella che io chiamo la ‘fuga in avanti’, il futuro come squarcio prospettico, i «segnali di futuro», l’«anticipazione», l’aura «profetizzante», l’«avvenire», ecc.
Non c’è parola per me più vuota – più svuotante- di ‘futuro’, con tutti i suoi fratelli. Dio può non esserci, o essere morto, ma il suo nome è stratificato di tempi-tensioni storiche, ma il ‘futuro’? Una passata di bianco, un salto nel nulla poi puntualmente già pre-occupato di immagini-stereotipi. Perché che cosa c’è di più capitalistico di questa invenzione del futuro? Della possibilità nuova, di tutte le variazioni letterarie dell’american dream? Brecht: i pensatori antichi si occupavano sempre di “ciò che c’è”. I filosofi nuovi si precipitano subito su “ciò che manca”. L’eterogeneo, o altro, non è altrove – ecco il peccato veniale ma catastrofico di ogni utopismo (e in questi malati di futuro non ci metto certo Marx!).
Il futurismo è schiuma e cresta alta dell’onda anomala mai riassorbita del capitalismo, e futuristico rimane spesso l’atteggiamento di fondo dell’avanguardia nei confronti della forma, forma nuova, a furia di scudisciate e di fratture capitali, poesie-manifesto, poesie-volantino, godendo della forza-traino di quelle potenze generali e capillari che lavorano ovunque per il nostro futuro. Almeno Marinetti era sincero: viva la macchina, viva il pistone, il passato è superato, radiamo al suolo ogni maceria –vuol dire: finiamola con l’allegoria anche alla Benjamin- sostituiamolo con ciminiere fumanti e avanziamo nella promessa di futuro…
Sto con Benjamin, Kafka e Brecht (sono loro, insieme a pochi altri, i referenti della prima avanguardia per Benjamin, cioè gli scrittori che meno ‘rompono’ col passato e le sue forme, e più lo usano altrimenti, come strumento di investigazione sul presente) e sento una forza estraniante venir più dalle macerie di altre temporalità sommerse (non cancellate) nella nostra che da questo colpo di reni in avanti a forza di rotture, in ogni senso, formali. Il presente è un covo di anacronie. La poesia le deve mettere in funzione. Un compito molto più modesto che aprire futuro, ma immancabile. Se si manca quello, tutto è più fumo del solito per il solo fatto di essere lingua e quindi riducibile a paroleparoleparole.
L’antidoto all’uomo linguistico non può essere l’uomo poetico, ma l’uomo storico.
Poi, come sempre, tutto si riduce a come si intende ‘poetico’ e come ‘storico’.


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