di Domenico Ingenito & Fatima Sai
Domenico Ingenito, (Vico Equense, 1982) poeta, traduttore e fotografo, dottorando in lingua e letteratura persiana presso l’Università "L’Orientale" di Napoli, insegna lingua persiana presso la Harvard Summer School in studi ottomani.
Da due anni collabora all’organizzazione della Biennale della Traduzione E.S.T., ed è redattore della rivista "Il Porto di Toledo - testi e studi intorno alla traduzione". Vincitore di numerosi premi letterari, traduce da persiano, portoghese, catalano e spagnolo, ha tradotto per Orientexpress "La Strage dei Fiori - Poesie persiane di Forugh Farrokhzad" e ha ideato il progetto "Riscrivere Hafez", proponendo ai poeti italiani la rivisitazione del massimo poeta persiano di tutti i tempi. Alle traduzioni dal poeta persiano Hafez ha inoltre dedicato uno studio d’impianto ermeneutico pubblicato sulla rivista "Oriente Moderno".
Ha rilasciato interviste di carattere scientifico-divulgativo sulla lirica persiana classica sia alla European School of Translation che alla Radio svizzera.
Al momento lavora alla traduzione delle canzoni d’amore della poetessa persiana medievale La Dama del Mondo (Jahan Malek Khatun), considerata la maggiore voce poetica femminile dell’area islamica.
Fatima Sai (1983). Di madrelingua italiana ed araba, vissuta fra la Siria e il Salento. Dal 1998 al 2001 ha lavorato alla redazione del giornale in lingua araba Marhaban. Dal 2002 è attrice di Astragali Teatro , inserendosi in un percorso che pratica una rigorosa ricerca teatrale, fortemente segnata dalla scrittura poetica del regista Fabio Tolledi. Partecipa a tutte le produzioni più importanti (Antigone – anatomia della resistenza dell’amore, Doni di guerra, Ulysses’ gramophone – the wake, Noi, emigranti, Persae, Lysistrata – primo studio sull’oscenità del potere). Tutti lavori dalla profonda connotazione multinguistica, e presentati in tutto il Mediterraneo (Albania, Grecia, Cipro, Malta, Turchia, Siria, Giordania, Palestina, Francia, Spagna). Numerosissimi gli altri lavori performativi legati alla lettura di poesia.
Traduce, da e verso l’arabo, poesia, narrativa e saggistica. Lettera internazionale ha pubblicato la sua traduzione di un saggio breve del drammaturgo Sa’dallah Wannous. Ha tradotto verso l’arabo i testi poetici di Tolledi dello spettacolo Nos- l’architettura degli amanti. E’ in uscita presso Argo editore la sua traduzione di alcuni racconti di Adania Shibli, in un’antologia a cura di Monica Ruocco.
الفاظ Alfàz – poesia araba poesia persiana
Se la poesia prende voce in particolari condizioni geo-spirituali dove la parola s’impreziosisce in immagine fatta ghirlanda di suoni a decorare gli spazi e gli sguardi, persiano e arabo sono sicuramente due lingue che vedono buona parte del loro sviluppo storico in contatto strettissimo, ontologico, con il canto poetico. Questa forza ritmica e vocalica, questa profusione d’immagini-miniatura scolpite in oro, argento, turchese e lapislazzuli, era chiara ai romantici, soprattutto tedeschi, i quali videro nella poesia araba e nella poesia persiana la vera fonte di rinnovamento spirituale ed estetico per un’identità letteraria europea prossima all’epoca del nichilismo ed esausta di attingere dal pozzo greco-latino.
Sono bastati poco più che cent’anni all’accademia orientalistica italiana, poco più di un secolo per immergere questi gioielli nella melma delle collezioni d’ossa approntate da filologi dimentichi della materia vibrante d’umano in forma pura. Le poche traduzioni che circolano negli ultimi cinquant’anni sono state pubblicate da persone poco avvezze alla frequentazione dei versi italiani e troppo preoccupate con rocambolesche avventure pseudo-scientifiche e pseudo-filologiche, puntigliosamente raccolte in annali dal regio sigillo, posti a raccogliere polvere dove avveduti bibliotecari coltivano pomodori e foglioline di rucola.
Eminenti studiosi che nel tradurre imitano vaghe reminiscenze del Carducci, pur avventurandosi talvolta in qualche sparuto petrarchismo, studiosi che nel tradurre poesia sono pronti ad affermare in pubblico che tutto sommato quel che conta è il senso, non la forma né il ritmo di ciò che è travasato nel verso, lucreziano miele per la scienza in pillole.
Parlare le lingue che insegnano per loro sarebbe grave peccato, si limitano a balbettarne qualche sillaba avvizzita, ben poco si avventurano oltre l’Adriatico, stranieri in terra straniera, memori di un lontano viaggio di nozze, oppure nostalgici riproduttori di un sistema piramidale di potere accademico che dalla fine dell’Ottocento è rimasto sino ad oggi intatto nei metodi e negli slanci umanistici.
Rari, rarissimi i casi di maestri della parola che hanno avuto il coraggio di riconoscere lo splendore e non rifuggirlo. Non a caso i loro nomi sono un’appendice marginale di questa accademia orientalistica assediata da forfora e metastasi nichilistiche. Faremo di tutto per dare voce a queste persone il cui servizio alla cultura italiana di oggi ancora non è stato pienamente riconosciuto.
Alfàz è una parola araba pronunciata alla persiana, è il plurale di lafz, che significa parola, lettera, pronuncia, suono, accento, senso che scaturisce in una forma impressa nell’aria. L’Iran e i paesi arabi, sia di oggi che dell’ultimo millennio e mezzo, hanno ancora molto da pronunciarci in gola e sotto pelle per ritrovare i sensi in questo stato di totale disorientamento. Siamo contro le cronologie, figlie di uno spirito tassonomista che ha prodotto più disastri estetici che ordine e bellezza: le sollecitazioni che vengono da questo vicino oriente (porta aperta sull’estremità asiatica, i confini del mondo pronunciabile) devono affacciarsi nel tempo presente seguendo linee dove il tempo è stratificato in modo imprevedibile.
E se è vero che “articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «come propriamente è stato». Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo”, allora forse sarà possibile intrecciare le linee del tempo come letti di fiume. Una possibile via per noi che, spauriti, vorremmo dirci traduttori: attaccati alla vita, ostinatamente convinti del dovere della contemporaneità, assetati di incontri e di scambi, eppure consapevoli che operare nel campo dei segni condanna a un perpetuo oscillare fra la vita e la metafisica del segno, senza soluzione di continuità, prede di una logica di seduzione, di cui mai si riesce ad individuare né il punto di sprigionamento, né il piano d’azione.
Sarà nostro compito cogliere questi affioramenti, come fossero pietre appartenenti a strati geologici diversi e che necessitano d’acque di diversa natura perché prendano a brillare anche in italiano.
Domenico Ingenito
Fatima Sai
di Cecilia Bello Minciacchi,
Paolo Giovannetti,
Massimilano Manganelli,
Marianna Marrucci
e Fabio Zinelli
di Yolanda Castaño
di Maria Teresa Carbone & Franca Rovigatti
a cura di Massimo Rizzante e Lello Voce
Così rossa è la rosa che sulla gota splende
che sa ingannare il cuore.
Si imprime nello sguardo e lo cattura,
bellezza che altera illude chi ti guarda
e alla tua mano consegna in servitù il suo cuore.
Bellezza che vezzeggiando offende: che importa
se il pugno cui affido un cuore innamorato
ha dita come spine? Che importa se poi il cuore si fa liuto
e in musica convertono le dita il suo lamento?
E infine quel mio cuore si fa freccia
lanciata dalla mano d’un arciere che a morte lo stringeva:
del sangue del mio cuore dardeggiato
io me ne vanto, e rido.
Dall’incipit di questa poesia prende titolo la traduzione di Abu Nuwas a cura di Leonardo Capezzone, pubblicata da Carocci per la collana Biblioteca Medievale.
Così rossa è la rosa, scenari d’amore pre-cortese, a Baghdad regala per la prima volta al pubblico italiano un’immagine di Abu Nuwas, il più eccellente dei poeti di lingua araba della sua epoca, quella Abbaside.
L’impero islamico fondato da Muhammad, e cresciuto a dismisura in pochi decenni, grazie alle conquiste che hanno seguito la morte del profeta per mano di suoi successori, i califfi, e dopo aver già visto fasi di trasformazione, conosce un nuovo periodo di rivolgimento. È l’era che testimonia il massimo fulgore e immediatamente dopo, l’inesorabile discesa della parabola fino alla disgregazione.
Si tratta del lunghissimo periodo che gli storici incorniciano tra il 750 - con lo spostamento del potere e della carica califfale dalle mani di una dinastia quella Omayyade, in quella di un’altra quella Abbaside - e la distruzione portata dall’invasione mongola (1258).
Un aneddoto riportato da uno storico della letteratura araba racconta:
Abu Nuwas, avendo pregato il suo maestro Khalaf al Ahmar di autorizzarlo a comporre dei versi, colui così gli rispose: “Te lo permetterò soltanto quando avrai imparato a memoria mille poemi antichi”. Abu Nuwas s’eclissò per qualche tempo, poi ritornò ad annunciare al suo maestro che aveva imparato il numero desiderato di poemi. E glieli recitò, in effetti, impiegando parecchi giorni. Dopo di che, reiterò al maestro la sua prima domanda. Khalaf fece allora comprendere al suo allievo che non l’avrebbe autorizzato a scrivere versi finché non avesse dimenticato completamente i poemi che aveva appena imparato.“E’ molto difficile, disse Abu Nuwas: ho fatto tanta fatica ad impararli”. Ma il maestro restò della sua opinione. Abu Nuwas si vide allora costretto a ritirarsi per un certo tempo in un convento dove si occupò di tutto tranne che di poesia. Quando ebbe dimenticato i poemi, venne a farne certo il maestro che infine l’autorizzò a cominciare la sua carriera di poeta.
Non ha importanza che questo aneddoto abbia una qualche fondatezza storica, questo racconto che Ibn Manzur riporta (citato qui da A. Kilito, L’autore e i suoi doppi, Einaudi) ci narra dell’importanza storica della tradizione che voleva che ci si rimettesse all’autorità di un maestro come un garzone di bottega, per un necessario apprendistato prima di potersi dire poeti. Ma ancor di più è una puntualissima metafora metapoetica che fonda il mito di Abu Nuwas, colui che ha appreso tutto il meglio della poesia composta prima di lui e poi, dopo averla scordata, si rimette all’opera. Precisamente così si può riassumere la funzione dell’opera di Abu Nuwas nella storia della letteratura araba. Egli incarna il momento del crogiolo, in cui tutto il sapere poetico precedente confluisce e quindi, attraverso una necessaria e misteriosa azione dell’oblio, come un palmo che accarezzasse la sabbia, ricomincia a scriverne la storia, nella stessa materia di granelli.
E forse, lasciandoci trasportare dall’efficacia della narrazione quale forma rivelatrice di verità, ci verrà incontro una delle migliori cifre per comprendere qualcosa della letteratura araba, quanto quella persiana, nel loro periodo classico, dandoci il senso del rapporto tra creatività e rispetto della tradizione, tra prominenza del genere, del canone, a dispetto del genio individuale o dell’autorità di un nome.
Ma Abu Nuwas, è nel mito, le lettere del suo nome sono il canone. Abu Nuwas è un punto di ripartenza. Dopo di lui non si scriverà mai più come prima.
Nato ad Ahvaz in Persia nel 756, da madre persiana e padre arabo, di doppia madrelingua quindi, bagaglio che, vedremo si porterà dietro nella sua opera, comincerà a scrivere e operare sullo sfondo di una Baghdad nuova di zecca. Una città fondata tra il 762 e il 767 per rispondere al sogno del suo creatore il califfo al Mansur, per accogliere il fermento culturale e la straordinario periodo di metissage fra culture che stava venendo alla luce. Chiamata spesso Madīnat al-Salām, ovvero La città della Pace (!) - detta anche la città circolare forse per la incredibile circolazione del sapere entro le sue mura - o più probabilmente perché queste mura erano di forma circolare - diviene per destinazione, dopo Damasco, la capitale della nuova dinastia.
Questo importante spostamento ricentra il potere nella mappa della nuova estensione dell’impero, ma soprattutto ne bilancia gli equilibri fra le nuove componenti culturali, linguistiche, etniche e confessionali. La neonata Baghdad accoglie un numero incredibile di poeti, scrittori, scienziati, retori, filosofi, traduttori, teologi. Qui le lingue si mescolano, come i culti e i costumi. Mitologie e pratiche lontane si incontrano qui. Le diverse cosmologie parlano arabo, persiano, siriaco, greco, aramaico. Un’infinita schiera di commercianti si concentra per scambiare merci provenienti dai capi opposti dell’impero. La corte dei primi califfi abbasidi catalizza e stimola quasi tutta la vita culturale e della ricerca scientifica che questo straordinario momento di fioritura è capace di produrre. Da al-Mansur, ad al-Mahdi, al-Hadi, e poi Harun al-Rashid, sì proprio lui, il protagonista di tanti racconti di Shahrzad, lui, mentore, ospite e amico di Abu Nuwas.
Leonardo Capezzone con la sua preziosa introduzione alla traduzione, o col termine che lui preferisce usare, versione di 34 componimenti di Abu Nuwas, apre la cortina sull’interno del palazzo e le sue dinamiche. Proprio all’inizio del suo lavoro ci catapulta in medias res in un quadro di vita cortese: il califfo che premia uno dei più grandi poeti ospiti del suo desco per la bellezza dei suoi versi (si tratta di Husayn al-Dahhak, molto importante per la contesa di attribuzione di molti versi fra lui e Abu Nuwas, compresi quelli citati da noi in apertura)
Narrando le vicende dei poeti di corte, mostrando con l’evidenza dei documenti (letterari e storici) il contenuto e la portata delle dispute di Abu Nuwas con i suoi contemporanei, illustrando le ragioni che hanno spinto i critici immediatamente successivi ad operare le loro scelte storiografiche, Capezzone, riesce ad allargare il fuoco di questa visione, giungendo a dare una particolare lettura dell’intero periodo abbaside come un anello fondamentale della storia delle civiltà, tanto quella islamica quanto quella occidentale, nonché anello fra le due. Ci mostra un mondo in profonda trasformazione epistemica ed estetica. “Siamo di fronte alla costruzione di un discorso storiografico sull’avvenuta appropriazione del sapere greco, che quanto meno si manifesta come storia di una tradizione ininterrotta”.
Uno dei principali motori di questa rivoluzione, infatti, è l’azione di traduzione dei testi dei filosofi greci, Aristotele in primis, ma anche gli autori della tradizione neoplatonica e molto altro ancora.
Ed è in particolare in una cerchia di autori raggruppati sotto il nome di muhdathun, ovvero “innovatori”, di cui è uno dei nomi più eminenti è Abu Nuwas, che il sapere greco antico, ravvivato dalle nuovissime traduzioni arabe, trova la sua nuova dimora espressiva. Nuovi loci communi vengono scritti nei loro versi a partire dalle nuove teorie cosmologiche, fisiche, mediche e retoriche, e diventano immediatamente nuovi strumenti per misurare il mondo e operare con il sapere.
“Stiamo ovviamente parlando di immagini del sapere che circolano grazie alla diffusione della scienza greca e che, grazie al viaggio dei tesi aristotelici per terra siriaca e iranica, forniscono in apparato di riferimento (da accogliere o da confutare) per tutte le teologie presenti nell’impero abbaside: la teologia delle diverse Chiese cristiane, quella dualista degli zoroastriani e dei manichei, quella ebraica e, ultima, quella musulmana”.
Ed è proprio la filosofia fisica di Aristotele che dona nuova linfa alla lirica araba, ancorando la produzione di tropi a specifiche teorie che cambiano la percezione della realtà a partire dal corpo, dal corpo amoroso. “L’amore così come viene descritto dai poeti fornisce materiale a un corpo del sapere – afferente alle cosiddette scienze arabe, centrate sul linguaggio e sulla filosofia – affinché se ne possa dedurre conoscenza”.
“Non v’è dubbio che Abu Nuwas e la sua scuola abbiano immessi nel codice poetico della nuova città abbaside una notevole quantità di topoi che cambiano radicalmente il modo di concepire la rappresentabilità dell’amore. Ma è decisamente impressionante il parallelismo cronologico che emerge dal confronto fra le nuove immagini con cui la corrente dei muhdathun,i moderni, costruisce lo spazio della critica anticlassica della propria poetica e le immagini che ci giungono da rapporti fra la critica dei dialettici (mutaziliti e non) antiaristotelici e la filosofia naturale; la nuova poesia dice cose antiche usando concetti nuovi.
E’ interessante osservare come una tematica quale appunto l’amore, per la quale è abitudine mutuare dal sapere medico la sintomatologia anche in sede poetica, non di rado adotti nozioni e concetti peculiari delle teorie atomiste mutalizite. Dalla malattia d’amore si slitta, in altre parole, verso una fisica del corpo innamorato. Sembra possibile disegnare una tavola di corrispondenze puntuali fra i nuovi topoi letterari corpo/corporeità (jism/jirm), essenza- sostanza (...) e le principali tematiche intorno a cui, fra il VIII e il IX secolo, i teologi dialettici aristotelici (cristiani, ebrei, musulmani, dualisti e manichei) si confrontavano, in un dibattito sulla costituzione dell’universo”.
Dunque è una intera generazione di autori e studiosi che, beneficiando di un ambiente culturale dalla vitalità che probabilmente non si è mai più ripetuta, che crea tutto quell’universo tropologico e semantico che Capezzone giustamente chiama “pre-cortese” e lo dota di ampia credibilità filosofica, scientifica, quanto letteraria, tanto da divenire sostrato della successiva lirica cortese occidentale.
“ Ebbene – sostiene Capezzone - questo è un modo diverso di impostare una riflessione ormai vecchia di un secolo sulle origini dell’amor cortese, e sulle dibattutissime influenze della poesia araba andalusa sulla lirica trobadorica medievale; influenze dietro il cui viaggio potrebbero stagliarsi (…) modelli sociali cristallizzati intorno alla concezione dell’amore, che l’Andalusia, periferia che dal centro a cui s’ispira, l’Oriente islamico, aveva ereditato: un secolare discorso sull’amore in cui convergevano il sapere medico, il sapere filosofico, il sapere mistico, il sapere giuridico, per i quali il sapere poetico fungeva da saldatura, da verifica, da dispositivo di espressione quando l’esperienza si fa indicibile”
Ma è particolarmente nella lingua serpeggiante, nera, splendente che usciva dal calamo di Abu Nuwas che le nuove idee, i nuovi alvei retorici, venivano fuori nella loro forma più nitida per essere consegnati alle future generazioni di scrittori, donando le parole ai poeti schiavi d’amore delle corti islamiche quanto quelle d’Europa. Pur avendo coperto quasi tutto lo spettro dei generi allora praticati, dalla qasida tradizionale, alle satire, dai panegirici alla poesia ascetica, a detta dei più grandi storici e critici, non esenti, nel loro giudizio da un certo moralismo, Abu Nuwas avrebbe trovato le sue espressioni più mirabili nella poesia bacchica e nella lirica erotica e soprattutto omoerotica, di cui la stessa pruderie non ha mancato di sottolineare il taglio dissoluto, spregiudicato e caustico.
Il suo stile è caratterizzato innanzitutto da una potente azione sul lessico, che accoglie e impone termini dalle più importanti lingue dell’impero (dal persiano soprattutto, la sua altra lingua, nonché seconda lingua dell’impero) e le forgia in un cesello chiaro, diretto, inaudito.
“Alla proliferazione lessicale della poesia pre-islamica, che opera orizzontalmente nel campo dell’esperienza dicibile, finendo così per formare un vocabolario estenuante, vastissimo ma mortifero, Abu Nuwas preferisce affrontare un meticoloso lavoro di raffinamento della lingua, in grado di ridere volontariamente il repertorio del descrivibile; muovendosi lungo una traiettoria verticale che agisce non più sull’estensione del rapporto fra le parole e la cosa, ma sull’estensione del nome e del senso, egli aumenta vertiginosamente il repertorio del conoscibile”
Ma, e ancor di più, le parole di Abu Nuwas, infiorescenza del suo ambiente, venivano immesse a loro volta in quello stesso circolo di movimento del sapere, rinvigorendolo e riproblemattizandolo esponenzialmente.
“Il tenore sperimentale delle innovazioni messe in atto da Abu Nuwas permette, forse più agevolmente di altri poeti di cogliere nel testo poetico dell’età abbaside una specifica valenza documentaria che, dal punto di vista storiografico, riflette in maniera problematica, ma feconda, il contesto sociale e culturale entro il quale il lavoro del poeta dialoga più di quanto non sembri con le altre forze che agivano nel paesaggio intellettuale di Baghdad fra l’VIII e il IX secolo".
La proposta di lettura teorica che Capezzone fa con il suo saggio introduttivo, del quale abbiamo cercato di riproporre alcune chiavi, e da cui fin qui abbiamo citato, è dunque di grandissimo valore scientifico per quanti frequentino la letteratura araba, ma anche la letteratura medievale nelle varie lingue romanze. Oltre a fornire un ampio apparato di documenti citati ed elaborati in una forte tensione storica, riesce a creare dei rigorosi collegamenti fra i tanti elementi di un’epoca dalla complessità che potrebbe spaventare.
E questo lodevole lavoro è solo una parte di quanto più luminoso si trova in questa pubblicazione. Leonardo Capezzone è docente di Storia del Mediterraneo arabo-islamico, presso l’Università La Sapienza di Roma, e numerose sono le sue pubblicazioni scientifiche storico del medioevo arabo-islamico.
Ma le sue 34 versioni da Abu Nuwas, alla puntuale conoscenza degli elementi linguistici, filosofici e storici che hanno prodotto i testi di partenza, uniscono anche una grande sensibilità estetica. Agli occhi e le orecchie di chi, fortunato, può comprendere l’originale, riportato a fronte, e apprezzare la versione italiana che Capezzone propone, le due voci poetiche arrivano distinte come cristallo e specchio che giochino con la luce. Tutte le coraggiose libertà che si trovano, reggono con fierezza il proprio atto di devota ammirazione. Capezzone, inebriato dall’armonia e dalla raffinatezza della potente parola di Abu Nuwas, mostra tutta la sua condizione di captivus, caduto nell’amore della bellezza delle immagini e dei suoni che riecheggiano dall’ombra dei secoli. Risponde al richiamo proponendo delle vere rose in una lingua lirica cosciente, elegante.
Capace di creare uno stile poetico indipendente, emozionato ed emozionante, il suo Così rossa è la rosa è uno dei pochi, pregevoli esempi nel panorama editoriale italiano, di una vera traduzione letteraria di un esempio di poesia araba classica, in una delle sue più belle vesti.
78 commenti a questo articolo
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