Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
"E’ più che una bambina era una stella" scrive Aldo Nove in Maria di prossima pubblicazione, promosso da Piccini, "lanciato" dallo stargate di Cortellessa su Poesia di gennaio 2007 come un’orbita di strepitosa, immensa, incandescente, mirabile e grande poesia - a mio giudizio, funambolismo che ricorda episodi zarathustriani.
Nella speranza che il C-Annibale abbia varcato il Mare Nostrum con i suoi elefanti e con numerosi souvenir delle piramidi, nella speranza non sia stato rapito dalle antichissime litanie di Ra, cerchiamo di percorrere la fune "sospesa tra l’eterno e la paura" di non farcela a leggere tutti i testi pubblicati.
Cavalcando orizzonti di attesa consci ed inconsci, muovendomi nel virulento polemos per attrarre dalle mia parte particelle di luce, e sottrarle agli altri, non posso che fare riferimento a chi prima di me si è mosso in tal senso.
Ricalco i post di Nevio Gambula e di Luigi Nacci, che ospita il saggio di Tommaso Lisa su Fuoco di Babilonia!, e rimando ai contributi di Andrea Cortellessa e Daniele Piccini su Poesia.
Testo n°1. Note varie (in attesa di chiarirmi le idee).
Innanzitutto dal titolo della raccolta, si presume si stia parlando di Maria, di una Maria, non necessariamente la Madonna.
Il primo testo si compone, a prima vista, di sette quartine.
Prima e seconda quartina.
"Lei era una bambina [...] Da tempo immemorabile era bella [...] più che una bambina era una stella": l’autore ha messo in crisi più volte la rappresentazione di Maria nell’opera formata, un cesto di endecasillabi con rime, e assonanze, varie - in questo non si può che concordare con l’analisi dei critici.
"Più che una stella era qualunque cosa": attenzione, siamo all’inizio della seconda quartina e il gioco continua: l’autore mette in crisi ancora la rappresentazione che utilizza: "Lei era una bambina"... "più che una bambina era una stella"... "Più che una stella era qualunque cosa".
Il verbo è all’imperfetto - è un dettaglio da non sottovalutare.
Dopo aver letto la prima quartina, possiamo supporre dal titolo che Maria forse non è la Madonna, ma è un soggetto particolare, mutante. Con la seconda quartina, veniamo a sapere che il personaggio di cui tratta il testo "era qualunque cosa" e che "più di qualunque cosa era amorosa,/più di qualunque amore decorosa": quindi Maria, questo "qualunque cosa", era più amorosa di "qualunque cosa".
Primo cortocircuito tra gli ingranaggi del cargo spaziale: Maria, questo qualunque cosa (che da questo momento in avanti chiameremo X), era più amorosa di se stessa?
Oppure dobbiamo far finta di non aver letto il verso precedente, immersi nel fluido propellente poesia?
Proviamo a creare dei collegamenti: questo "qualunque cosa" (X=Maria) era più amoroso di qualunque altra cosa (X=?)?
La logica, nell’incessante metamoforfosi di un testo, può risultare asimmetrica: in sostanza un simbolo può trasformarsi via via; e ciò che all’inizio si rappresentava attraverso un insieme di coordinate, può diventare altro. Che ci dica qualcosa, che porti infine a qualcosa, è importante? Dice Cortellessa "poco importa ristabilire nessi, sancire genealogie, analizzare al microscopio"... poiché è importante veder nascere grande poesia, sentirne i primi vagiti, tenetelo bene a mente!
Maria (X non più X ma più X di X sempre in qualche modo e sempre diversa) non è solo più amorosa, ma pure più "decorosa" di "qualunque amore", come si dice poi... quindi ricapitolando questo X (Maria) era più amoroso et decoroso di se stesso (e di qualunque amore, compreso il mio, il tuo, il nostro), nonché la scopriamo anche essere "sposa di tutto l’universo".
Testo n°1. Intervallo (scoperta importantissima).
Stavo leggendo le prime due quartine quando mi sono ricordato di un fatto decisivo: è stato misurato l’enorme alone di materia oscura che circonda la galassia NGC 3741, una spirale nana formata da un disco stellare di circa 5 milioni di stelle e distante 3 Mega Parsecs dalla Terra. La notizia l’ho appresa dall’ufficio stampa della SISSA: "Come illustriamo nell’articolo NGC 3741: dark halo profile from the most extended rotation curve, sul Montly Notices of the Royal Astronomical Society – spiega Paolo Salucci, docente di astrofisica alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste - questa scoperta estende la nostra conoscenza sulla materia oscura, la cui natura resta ancora un enigma, una sfida che impegna da circa 20 anni gli astrofisici e i fisici delle particelle di tutto il mondo."
Negli anni Ottanta, infatti, gli astronomi cominciarono a rendersi conto che non tutta la materia dell’Universo è osservabile. La materia oscura, la cui esistenza è stata poi confermata dall’analisi della rotazione delle galassie, è addirittura il 90% della materia di tutto il cosmo.
Tralasciando la galassia NGC 3741, Maria (X più amorevole di X e in ogni caso diversa da X in qualche modo e per sempre in tempi immemorabili) era sposa più o meno al 90% della materia oscura - teniamo buono questo dato, anche se non è detto che andando avanti nello studio del primo testo della raccolta, le nostre rappresentazioni non siano ancora messe in crisi più o meno scientificamente.
Terza e quarta e quinta quartina.
"Ma era troppo piccola": quindi X che era qualunque cosa che era amorevole et decorosa più di qualunque X sempre diverso, sposa al 90% della materia oscura dell’universo più il restante 10% in chiaro, era, pure, piccina?
"una rosa che sboccia appena", e non solo sboccia ma è come "ogni creatura"... Quindi è come noi, e tutto ciò che si è detto sull’amore e sul decoro e sulle stelle e sulle bellezze non è più vero?
I più sciocchi di voi certamente pensano a un ripensamento dell’autore o che questo sia un evidente restringimento del campo teoretico all’interno del testo, cioè il dire piccola, parlare di creatura nel senso di "come ogni"; ma la Creatura per Bateson è il campo dell’informazione e della struttura, dove ogni cosa può rappresentare ogni altra cosa, dove nascendo i codici simbolici, amplificando amplissimamente i significati, è consentito ogni sorta di gioco del linguaggio, intrecciato di semantica e sintassi...perbacco!
L’autore ci dice che quella piccola creaturina di Maria - non più un qualunque X pensiamo noi - è "sospesa tra l’eterno e la paura dei giorni che dei sogni sono mura" e di conseguenza rimane in attesa anche lei che qualcosa accada, non più nei versi fatti di "più" variamente accompagnati, nelle quartine precedenti così protese, spinte, verso gli urano del significato.
"le mura di chi è nato e non gli è dato capire più di quanto del creato gli venga in uno spazio costruito e dentro un tempo già determinato": tale restringimento nella rappresentazione di X avviene addirittura in un che di "determinato" e di "costruito". Nel testo, ci si delinea allora una visione dell’uomo profondamente statica in un mondo-creato, un individuo impossibilitato a fuggire, inscatolato da sistemi più grandi: questi rilievi potrebbero rimandare a quella sorta di cattomarxismo mai sopito nella nostra medievale esperienza del mondo.
Questa è la condizione dell’uomo, ma quale sarebbe la soluzione? Maria?
Anche Maria è temporaneamente sospesa, in quel punto del testo, tra l’eterno e questa paura dei giorni con tutte le accessoriate implicazioni di un nostro essere nel mondo pensato dall’autore, pensato con tutta una serie di limitazioni imposte nel legiferare della sua scrittura, che però è solamente legge momentanea del testo poetico, perché... proseguendo la lettura dove "i sogni la sognavano più forte del sogno che a ogni nato è dato in sorte" scopriamo che Maria non è tornata sulla terra, la sua vita non è regolata dalle stesse leggi date all’uomo e da leggi interne al testo poiché l’operatività dell’autore le permuta continuamente; quindi Maria è stata nuovamente assunta in cielo da un processo oltremodo asimmetrico logicamente, i sogni.
La pretesa di parlare splendissimamente di questioni teoretiche sta venendo meno alla faccia del mio pseudoutilizzo di Russel e Matte Blanco, le "parole semplici e fiammeggianti per dire - come scrive Cortellessa - concetti anche teologicamente ardui" spero si compiano come profezia nei successivi testi del poemetto, a me ancora sconosciuti come l’universo.
La pretesa di parlare splendissimamente sta scemando poiché Maria non è come "ogni creatura", pur essendo come ogni creatura, è un alien, capace di "alienarsi" continuamente: mi domando se proprio ci sia sempre l’artifizio mirabile del "fabbro e centro propulsore dell’energia" - come scrive Piccini nella breve recensione introduttiva; mi domando se sia possibile salvare questo shuttle novizio dai propri cortocircuiti interni e dall’alieno.
Forse qualche breve interruzione di significato ci potrebbe far riflettere su ciò che è stato scritto, detto, indicato; forse mi sto inventando un’altra Maria, ma mi domando se questo personaggio mi abbia convinto o no, se questa incarnazione di Maria sia un evento che il poema mi ha installato, un virus che trasformerà la mia carne...
Sesta e settima quartina.
"tutto infine ha fine": da una parte gli uomini alla fine muoiono. Maria nutre sorte diversa.
Gli uomini muoiono, e i soli e coloro che desiderano vivere sempre - il fatto che pure coloro che desiderano vivere sempre muoiono, lo apprezzo davvero, per un attimo mi fa ricordare Immortalità di Kundera.
Nella sesta quartina troviamo l’esigenza di approfondire questo tema della morte per il successivo emergere della stella-non stella Maria (X sempre diverso da X), che come sappiamo nutre una sorte diversa pure in relazione ai destini antropomorfizzati del sole e dell’universo.
Nell’ultima quartina, l’autore spiega (ovviamente questa è una mia mistificazione) che o questo destino, o questo essere nel mondo, questa esistenza è/si fa (anzi era: il verbo all’imperfetto rimane un dettaglio da non sottovalutare) nell’"infinita nostalgia", nell’"assoluta lontananza". Questo è ovviamente un mio completamento, perché non mi è così chiaro a cosa "infinita nostalgia" e "assoluta lontananza" rimandino: i termini usati nei primi due versi non si collegano alla quartina precedente, se non in richiami vaghi - il vago ulteriore di uno stanco finale in cui non si sa più che scrivere?
Poi "quella luce in quella stanza" è arrivata e ha detto per sempre "Maria".
Così si conclude il primissimo testo del poemetto.
Testo n°1. Nota di servizio (sondaggio: volete un post per ogni componimento pubblicato da Poesia?).
Si avvisa il pubblico degli astronauti di Absolute che il III componimento (scoperto con il telescopio google su Letture n°634), se il risultato del sondaggio sarà positivo e se l’alien non si sarà impossessato del mio corpo e se ne avrò voglia, verrà analizzato in uno dei prossimi post, ovviamente in generale rotta di collisione con gli asteroidi lanciati sul pianeta Poesia gennaio 2007.
Che la materia oscura sia con tutti voi, e pure quella chiara.
33 commenti a questo articolo
Aldo Nove, la materia oscura è il 90%
2007-04-25 21:05:57|
Non nova, sed Nove: Maria in pasto al cannibale
una affermazione rischiosa
2007-04-15 20:02:59|di a.
"la vera e più terribile arma di giudizio che possiede la critica è infatti l’omertà, la condanna all’oblio, il non riconoscimento d’esistenza"
Mi sembra una affermazione molto rischiosa, che condanna la poesia (l’arte in generale) a una Storia scritta a tavolino e priva di valore il Tempo. In questo la critica perderebbe ogni pretesa di possedere un qualsiasi metodo scientifico e si configurerebbe come una presa di parte, ragionata sin che si vuole, ma pur sempre viziata da altro. Sarebbe come non riconoscere un *fatto* perché, chi ne è stato protagonista, non merita di essere citato. Purtroppo alle volte capita che sia anche così -penso a un certo modo trasandato di trattare poeti pure diversi tra loro come Pozzi o Boine-, ma credo che a quel punto l’oggetto stesso della critica si sottragga ad una simile deriva autoreferenziale.
La promozione continua
2007-04-13 05:08:23|di Christian Sinicco
Piccini non è domo, e spinge ancora!
LE NOVITÀ, NEL NOME DI CARDUCCI
E DI MARIA
di Daniele Piccini
Cominciamo con una novità da trattare con delicatezza. Si tratta di un poema su Maria scritto in trenta canti o capitoli di quartine di endecasillabi (con rime variamente organizzate) da Aldo Nove: sì, proprio l’autore che fece parte, ormai una decina d’anni fa, della cordata cosiddetta "cannibale". I luoghi comuni sono facili, prevedibili: il "cannibale" che si converte, ecc… Perciò questa Maria, in uscita in primavera nella prestigiosa "bianca" di Einaudi, è da annunciare e da anticipare con qualche accorgimento. Quel che qui si può dire (poiché chi scrive ha avuto la possibilità di leggerlo) è che è tutt’altro che un testo da prendere alla leggera. Il Nove parodico, giocoso, corrosivo qui non compare: si tratta di un testo serratissimo, grazie anche alla robusta, solida e ispirata strutturazione formale, che richiama a una tradizione di poesia religiosa che sa di origini (Iacopone in primis), ma anche di Sei e Settecento (una delle frasi in epigrafe è tratta da Pier Iacopo Martello). L’avvertenza e persino l’insegnamento da trarre da una novità così ghiotta sono semplici e insieme esemplari: la letteratura è il luogo per eccellenza del non prevedibile, uno spazio aperto, in cui possono accadere fatti di vera e pura libertà, obbedendo la scrittura poetica non a predeterminate categorie ma alla necessità, al dettato: quello interiore di chi scrive e insieme quello di una intera tradizione, che nel terminale ultimo rappresentato dal nuovo poeta tenta pervicacemente di "riscriversi".
La "bianca" di Einaudi si conferma come luogo privilegiato di sperimentazione anche per un altro territorio: quello degli sconfinamenti (variamente giudicabili, naturalmente) di prosatori o propriamente narratori nel campo appunto della poesia. [...]
La grande poesia uccide la critica
2007-02-23 14:12:57|di Christian
Continuano gli interventi su Poesia e spirito e
su Il cielo di Marte Marco Merlin
LA GRANDE POESIA UCCIDE LA CRITICA
Vi propongo un estratto da Abbasso la critica, evviva la critica. Leccatine a Frye e Cortellessa, un mio saggetto che uscirà sul numero 16 (dicembre 2007), della rivista “Incroci”, in un numero dedicato a “La nuova critica” curato da Daniele Maria Pegorari. Perché ve lo propongo? Perché ha a che fare con lo scioglimento di alcuni nodi personali e quindi con la pacificazione e il risveglio creativo che, al momento, sto vivendo, e di cui parlavo nel post precedente.
[…] Mi viene in mente un recente episodio, a mio modo di vedere positivo, che chiama in causa di nuovo l’altro mentore di queste mie noterelle: Andrea Cortellessa. Il critico ha presentato sul numero di gennaio 2007 di «Poesia» un’anticipazione del prossimo libro di Aldo Nove parlando senza mezzi termini di «“vero” avvenimento», non senza segnare con puntiglio la distanza rispetto ai «tanti pseudo-eventi, “fattoidi” e minimi fatterelli e faccenduole che ogni settimana animano, si fa per dire, il piccolo mondo della nostra letteratura». Il lettore veniva subito messo all’erta. Ebbene, a fronte delle tre pagine effervescenti di Cortellessa le poesie di Nove, invero graziose, impallidivano timidamente, ma il punto non è affatto questo. (Del resto, il mio soggettivo “graziose”, preso nel suo valore etimologico e privo di sfumature ironiche, non ha alcuna pretesa di oggettività). Ciò che era interessante e positivo in quelle pagine era il denudarsi della critica che, nello sforzo di motivare l’attribuzione di valore, rivelava l’inanità del suo conato. L’analisi di Cortellessa era, per carità, condotta secondo i crismi più collaudati, per cui non mancavano dotti riferimenti, contestualizzazioni nella tradizione presente e passata, citazioni puntuali e quant’altro, ma analizzando quelle pagine da un punto di vista logico non si trovano argomenti probanti, sotto la retorica del discorso. Per esempio, non è di per sé un valore lo «scandalo» del tema. L’essenza di Nove sia pure la “novità”, certo, ma ci sono tanti autori che hanno saputo rinnovarsi di libro in libro e ce ne sono ancor di più che sono riconosciuti grandi a partire dalla loro coerenza tematico-ideologica e stilistica. Non credo che alternare un’ode a Hugo Chávez, un poema epico per Rocco Siffredi e un carme contro la legge che persegue chi sostiene tesi negazioniste nei confronti della Shoah sia di per sé un valore. Il rovesciamento della «plumbea tragicità suburbana» dei primi libri «nella schizomorfa comicità» dei versi attuali (e si tratti pure non di un semplice superamento, ma di una nuova, più integrata sintesi: il ribaltamento non annulla la prima maniera, che retroagisce come risvolto segreto, ci spiega Cortellessa) non è dunque, in sé, un elemento qualificante – se non a fronte di tante premesse sottaciute, anzi di un’intera visione della realtà e della letteratura. Non è vero che un brutto libro scritto da un poeta di grido avrebbe di per sé un grande significato, un notevole peso, nel commercio critico sulla letteratura? E se anche Gene Gnocchi avesse pubblicato poesie migliori di Vittorio Sereni, chi avrebbe il coraggio di riconoscerlo (a parte D’Orrico)?
Ci sono però altri ragionamenti portati a suffragio dell’«avvenimento»; per esempio, Nove recupera «– con assoluta e sbalorditiva naturalezza – la tradizione secolare dell’inno mariano», con tutte le sue caratteristiche: il linguaggio semplice a fronte di concetti teologici anche ardui, la sovrabbondanza di rime, ma soprattutto l’impianto metrico. Già, ma anche qui, Nove non è nuovo nel contesto, così ampio, di ritorno a una metrica chiusa nel Secondo Novecento, mentre per la capacità di far versi su contenuti teologici, Cortellessa potrebbe giuggiolarsi con i libri di Giovanni Costantini, che non ha nulla da invidiare in leggiadria e giocosità evangelicamente scandalosa. Insomma, per farla breve: le pagine di Cortellessa rappresentano la negazione di quello che la critica stessa vorrebbe essere. Credo che se un giovane studente avesse proposto in università un simile testo, sarebbe stato rispedito indietro a correggere i troppi e apodittici superlativi: i libri precedenti di Nove sono «bellissimi», «bellissimi» sono i canti attuali (tanto che nella mia mente, ve lo confesso, Cortellessa è andato simpaticamente a coincidere con il Mollica che in TV di tanto in tanto ci ragguaglia sui bellissimi film o bellissimi album appena usciti). Dunque la grandezza di Nove si impone rigo dopo rigo, con la sua «stupefacente capacità empatica di ascoltare», le «parole semplici e fiammeggianti», la «straordinaria capacità di contemperare», la «formidabile capacità […] di prolungare indefinitamente […] un’intensità lirica che è, in ogni suo punto, non meno che incandescente», e così via. Insomma, arrivato all’apice del godimento della poesia, al critico non restano che i soliti, triti e ritriti concetti idealistici di emozione, di intensità, di lirismo. Risentiamo il finale, dove si tocca il preteso culmine persuasivo: «Non si crede ai nostri occhi, al nostro cuore: nell’aderire – come non possiamo non fare – con tale immediatezza, e insomma con tanta emozione, a queste parole. […]. Ma mai come in questo caso poco importa ristabilire nessi, sancire genealogie, analizzare al microscopio. In questa sede quel che conta è condividere un’emozione che davvero nulla ha di microscopico: quella – antichissima e sempre futura – del veder nascere una grande poesia».
Come volevasi dimostrare: quando nasce la grande poesia, la critica muore. […]
Sarà bene a questo punto precisare che il mio intento non è affatto deridere, in alcun modo, Cortellessa, che ritengo davvero uno dei nostri critici più intelligenti: firmo anzi seduta stante una sottoscrizione di stima e di gratitudine per qualsiasi valutazione, positiva o negativa, vorrà eventualmente avanzare nei confronti di un qualunque mio scritto – la vera e più terribile arma di giudizio che possiede la critica è infatti l’omertà, la condanna all’oblio, il non riconoscimento d’esistenza […]. Qui non rido di Cortellessa, rido con lui, per la verità di cui si è fatto testimone: non per nulla ho detto subito che la circostanza ricordata era positiva, perché rivelatrice del fatto che la poesia, infine, consuma la critica. Accadessero più spesso episodi del genere. Quel brano di Cortellessa non andrà letto come una caduta giornalistica, come la retroazione di un linguaggio da web su un intellettuale raffinato o peggio ancora come l’azione faziosa di un giovane critico. Quelle pagine ci ricordano sinceramente che il valore di un testo è sancito dalla capacità di persuasione di chi crede a quel testo. […]
Un verso di 9 proposto per il Premio PUS
2007-02-21 17:39:21|di Christian
su poeti e poetastri un articolo di Guido Vitiello
Non nova, sed Nove: Maria in pasto al cannibale
“Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e cretini che non l’hanno vista,” diceva Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi. Aldo Nove, con il poema in trenta canti Maria (di prossima uscita presso Einaudi ma anticipato con grande strepito sulll’ultimo numero di “Poesia”) ha fatto il salto dalla seconda categoria alla prima. Certo, già in Fuoco su Babilonia! crepitava qualche favilla mariologica, pur costretta a coabitare con l’invocazione di una “madre grande | e troia come un fiume | di luce”. Ma giacché, attesta l’uomo dei topi, la puttana cela in sé la madre venerata (e viceversa), Nove ha virato con fervore al versante celeste del binomio, al côté uranio contro quello pandemio. D’altronde Nove è un “onnipotenziale” (così l’onnipresente Andrea Cortellessa lo elogia nella presentazione) e può passare con il massimo agio dalla microsociologia sul precariato alle lodi della Vergine. Anzi, Cortellessa ne parla come di una specie di Laforgue nostrano (anche se l’esempio che porta è quello di Palazzeschi), un petit hypertrophique stralunato e dal cuore tenerissimo che riesce con mestiere a parodiare – e straniare – tutti i metri e gli stili.
E così il totipotente Nove sarebbe riuscito a “fare propria – con assoluta e sbalorditiva naturalezza – la tradizione secolare dell’inno mariano”. Peccato che di questa tradizione la novena di Nove serbi solo il peggio, volgendo in scialba filastrocca crepuscolare, in cantilena vispateresoide, la felice e canora ridondanza dell’innografia liturgica. È vero, come scrive ancora Cortellessa, che la tradizione mariana “usa parole semplici e fiammeggianti per dire concetti anche teologicamente ardui”; e questo vale anche per le sue degne prosecuzioni: l’Ash Wednesday di Eliot o The Mother of God di Yeats. Ma solo un orecchio inetto al più elementare discernimento degli spiriti può scambiare per semplicità concettosa quartine che ricordano il Bonaventura di Tofano più che quello di Bagnoregio, o gragnuole di versi smozzicati che si vorrebbero Silesio ma fanno pensare al re del cruciverbone Bartezzaghi.
“Tu sai: senza di te, non era vero | l’inizio. Tu, lo inveri. Io non ero | senza di te. Sì, c’ero, ma non ero | davvero. Come tutto. Tu sei il senso”: così fa dire Nove all’Arcangelo Gabriele, costringendolo per giunta a sganciare l’ennesima rima a casaccio (“Io sono qua nella tua casa immenso”). Per far eco a “conosco”, l’Arcangelo diventa “la luce del bosco”; il satanico serpente calpestato dalla Vergine che “all’infinito cresce” sfocia su un improbabilissimo “mesce | l’odio”. Ancor peggio capita con la “brulla | nottata che ti trasformava in culla”, o con la povera Maria che diventa “infuocato arbusto” pur di far rima con “già schiava di Augusto” (probabile calco del fabriziodeandriano “schiave già prima di Abramo”).
Eppure, imperterrito, Cortellessa continua a lodare questo distillato di ars poetastrica, che esibirebbe nientemeno quelle che sono “da Dante in giù, le stimmate di ogni poesia religiosa che sia grande poesia”. E via a inanellare fumisterie pseudoteologiche (“è con la nascita del tempo che il Creato si Crea davvero”, dove l’uso allusivo di maiuscoli e corsivi serve a dire banalità senza aver l’aria di dirle), prodigate per illustrare versi da convitto monacale: “Da tempo immemorabile era bella | e più che una bambina era una stella. || Più che una stella era qualunque cosa. | Più di qualunque cosa era amorosa”.
Si procede poi con impuniti canzonettismi (“Ma i sogni la sognavano più forte” o peggio “L’immensità del cielo è una capanna”) e fervorini catto-gruppettari (“bandiere | di ogni colore eppure tutte nere, | il sogno modellato dal volere | di chi scambia l’amore col potere”). Ma il punto più basso di questa dolorosa kenosis della decenza poetica è senz’altro l’incipit lumpen-iacoponico del canto XXIV: “Donna d’eterno, donna del presente | invariato dei cuccioli millenni | allattati al tuo seno”, che raccomandiamo vivamente alla giuria del PUS.
L’aspetto più grottesco della perorazione di Cortellessa riguarda comunque la forma: l’ex cannibale che diventa “classico” e spicca per “la calibratissima trama metrica” delle “quartine di endecasillabi variamente rimati” – elogio a dir poco curioso, per un poema che si apre con le quattordici sillabe di un martelliano (“Lei era una bambina che qualunque collina”), procede con le almeno tredici di “Da te avvierà ogni cosa il suo percorso”, e continua con endecasillabi assemblati col pallottoliere. E il “fren de l’arte” del grande artigiano Nove ha quanto meno le pasticche usurate, già che le sue quartine fuori misura rovesciano i propri detriti sulla quartina seguente, non diversamente da quei vicini molesti che scuotono le loro tovaglie sul terrazzo dell’inquilino del piano di sotto. Ma nulla dissuade Cortellessa, che esprime l’emozione “del veder nascere una grande poesia” e ovviamente (alla stanca maniera pasolinocentrica di un certo micromondo letterario romano) grida allo “scandalo”, parola che ricorre una dozzina di volte nella sua presentazione, a partire da titolo ed epigrafe, in un’accezione che non si sa se evangelica o mediatica, se da Buona Novella o da Novella 2000. Dobbiamo però riconoscergli che ha ragione nel dire che lo scandalo non riguarda la “‘conversione’ del già ‘cannibale’ al cristianesimo”: qualunque studioso di religioni comparate saprà mostrarvi la parentela tra antropofagia e banchetto eucaristico.
Il vero “scandalo”, suggeriamo, sarebbe vedere Nove che fa poesia e Cortellessa che fa critica.
Del tuo supplizio
fatto n’à gran mercato
Nove il novizio
Articolo di Guido Vitiello del 20 febbraio 2007 per Poeteastri.com
Aldo Nove, la materia oscura è il 90%
2007-02-13 06:22:59|
attento salento
dio e’ contento
quando ti prosti supino
in gluteovento...
dal salento a montalcina
si stigma (tizzi)
il subdolo zen
della cina
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Aldo Nove, la materia oscura è il 90%
2008-06-07 21:25:20|
Adorno ci fa notare che l’arte porta con sé la promessa e l’enigma...le tante letture che hai fatto sono la tua arte e ne devi andare fiero...personalmente ti ammiro molto per questo