Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
ANNA GUILLOT: FIGURE DEL SUONO E VOCI DEL SILENZIO
In buona parte del lavoro di Anna Guillot, sottili strategie di inseguimento del suono sembrano porsi alla base dell’intero processo creativo: l’ansiosa ricerca delle figure sonore avviene attraverso l’articolazione di strutture visive. Talora, infatti, le immagini sembrano presupporre il suono come dato autonomo antecedente l’opera, come elemento allotrio che, per misteriosi imperativi, debba essere trascinato dentro secondo forme cònsone allo sviluppo del lavoro in corso, che resta in ogni caso essenzialmente visivo. Si racconta che Mozart, da bambino, dopo aver ascoltato un corale in Vaticano, lo riscrivesse di getto senza commettere errori: agli astanti meravigliati riferiva candidamente di non aver fatto un grande sforzo perché aveva la composizione ben chiara di fronte ai suoi occhi. Il fatto, naturalmente, era stato reso possibile dalla prodigiosa padronanza della tecnica di trascrizione del giovanissimo musicista. Nel lavoro di Anna Guillot, invece, si attiva un vero e proprio scambio di sensi. Niente a che vedere con procedimenti trascrittivi; d’altra parte non ci sono musiche reali da trascrivere. Nel caso della Guillot si tratta di suoni della mente o di figure sonore che direi dell’anima, di risonanze che scorrono nel profondo, percepibili solo dall’interno. Si tratta di suoni che, però, la voce non è in grado di sostenere e che, pertanto, non possono essere comunicati all’esterno. Qui la vocalità è inadeguata alla rappresentazione; è strumento inadatto alla riproduzione della gamma delle vibrazioni interiori. La registrazione, in totale assenza di suoni reali, può avvenire solo attraverso un procedimento che si affida ad un automatismo gestuale, quasi una scrittura in stato di trance. Ma nei procedimenti creativi di Anna Guillot il suono è, sì, inseguito e fermato, ma immediatamente deprivato delle sue peculiarità diacroniche e risucchiato via, per vizio paradossale, dal tempo che lo sostiene, sottraendolo, così, alla dimensione cinetica entro cui si sviluppa. È come se, di fronte alla tabula rasa prescelta per la costruzione dell’opera, ci si ponesse in ascolto pronti a materializzare in grafi lo sviluppo delle sequenze acustiche, ma solo per arrivare a darne una completa spazializzazione finale, dove il dato, sia pure recuperato analiticamente e linearmente, si offra in visione sinottica, totale. È come se la superficie di supporto si ponesse come spazio categorico, ineludibile nella sua estensione, da percorrere integralmente, come impegnato da un ordito invisibile e indeclinabile, che pretendesse e attendesse inesorabilmente il compimento della trama. È per questo che le tavole di “IT IS” rifiutano una lettura lineare, pur se linearmente costruite secondo un procedimento parascritturale. La successione degli eventi passa in secondo ordine a favore del quadro d’insieme. È del tutto inutile seguire lo sviluppo graduale di quella trama, come è inutile (se non sul piano tecnico) seguire, nella sua complessa progressione, lo sviluppo graduale della trama in una tela in fieri; non si può avere percezione di una crescita legata alla successione di unità pressoché infinitesime. Solo a lavoro compiuto, quando non saranno più percettibili le trame nella loro singolarità lineare, solo allora, nella sua globale apparenza, la tessitura sarà leggibile. Ma se questi ipotetici suoni interiori anticipano la grafia, non è detto che il gesto non possa anticipare il suono. In una dimensione che cavalca ambiguamente mondi diversi, i segni si situano in zone di confine dove la scansione temporale è data da un impulso manuale che si riferisce alla scrittura musicale, dove le tracce individuano piani in prospettive sonore che presuppongono invisibili orditure plurigrammatiche e acquistano valenza pittorica. Talora il suono si fa immagine, talaltra l’immagine si fa suono: come l’immagine si porge all’orecchio, così il suono si offre agli occhi. Insomma: il suono viene prodotto in segni per gioco sinestetico; ma (attenzione!) non si tratta di segni riferiti ad alcun sistema di scrittura musicale, non si tratta di notazioni. Siamo in assenza di un codice: la scrittura è solo apparente. D’altra parte Roland Barthes ci ricorda che la scrittura non nasce come tra-scrizione dell’evento uditivo in un fatto grafico, ma ha origine nel riconoscimento puramente visivo della traccia. La ripetizione del gesto generato dalle pulsioni del corpo produce l’iterazione del segno. La temporalità del flusso sembra allora rimandare alla scrittura. Lo sviluppo lineare dei grafi, infatti, è funzione temporale; ma la loro forza sta nella capacità di sollecitare contemporaneamente due diversi piani sensoriali: quello dell’udito e quello della vista, appunto. In “IT IS” il pensiero della Guillot è visivo e sonoro nello stesso tempo. Sul piano percettivo, quindi, l’occhio dovrà estrarre suoni dal silenzio (perché la grafia è muta festa per gli occhi) e nello stesso tempo dovrà navigare in un silenzio sonoro (perché quella stessa grafia suggerisce ritmi, toni, intensità, modulazioni). Ma in effetti la parola si semina nel silenzio e dal silenzio si estrae. E se la parola (come la voce) è corpo, il suo silenzio è la vera lingua madre. Tant’è che i significati non stanno solo nelle parole, ma tra le parole stesse: nel silenzio. Eugenio Miccini, già esegeta della Guillot, ci ha ricordato più volte che anche il silenzio è parola. In un certo senso si assiste a ciò che accade in alcune partiture verbo-visive, dove spesso il confine tra l’elemento visivo e quello sonoro si perde, specialmente quando sia l’uno sia l’altro vengono organizzati sulla base della loro pura fisicità. Il fruitore è sollecitato da una parte dalla forma visibile, da una parte dal suono che essa sostiene. Il poema sonoro, per esempio, rifiuta spesso l’imperativo del linguaggio non accettandone più la fonia come confine, bensì sceglie di articolarsi sulla genesi corporea e corporale del suono, così come talune partiture fonetiche o poetico-sonore si fondano sulla materialità delle tessiture, nelle quali le lettere si organizzano secondo criteri che nulla hanno a che fare con l’universo della lingua. Lessico, grammatica e sintassi sono al grado zero, mentre la qualità dei rapporti tra gli elementi è controllata visivamente. Osserva Paul Zumthor come, in questi casi (si veda per esempio il rapporto tra l’audiopoema e il dattilopoema in Henri Chopin), nel fruitore l’opera riesca a sollecitare un medesimo punto interiore, sia pure passando attraverso diversi canali sensoriali. “[...] sia attraverso l’orecchio che attraverso l’occhio, non è forse uno stesso luogo dentro di me che viene colpito? Non è forse un medesimo punto nascosto al centro? E da questo punto s’irradia, di ritorno, un richiamo informulabile e tanto più unico”. Una magia di ordine sinestetico è compiuta: l’occhio e l’orecchio sono stimolati da una voce sui generis che si organizza all’interno. Si tratta di sollecitazioni sensoriali diverse, di stimolazioni apparentemente senza rapporto, tuttavia “in profondità, uniche ... une ... non fosse altro che per il loro carattere comune”, che è dato dalla loro stessa sensorialità, unica modalità d’esistenza che implica la presenza di un corpo e ne invoca la sua materialità vivente. Nel libro-opera “A me stessa”, Anna Guillot affronta il medesimo tema in altra chiave. L’attenzione è ancora posta sul rapporto tra immagine (non più grafica, bensì fotografica e oggettuale) e suono (meno dichiarato e più concettuale). Il riferimento a quest’ultimo è più legato alle idee di voce e di silenzio. Di voce inascoltabile e di suoni cristallizzati. Di voce inascoltabile perché avvolta da un universo equoreo. Di suoni cristallizzati perché bloccati nell’istantanea di un gesto su una tastiera. Di suoni nascosti dietro paraventi di immagini che si pongono come affioramenti tragici di una vita vissuta tutta all’interno di sé, nell’impossibilità dell’udibilità diretta della voce, affogata nel liquido amniotico di una memoria prigioniera di se stessa. Se in “IT IS” il corpo, assente con immagini dirette, interveniva in tutta la sua pregnanza ritmica attraverso il gesto che realizzava forme parascritturali, in “A me stessa” l’immagine corporea risulta da una parte fantasmatica, dall’altra si pone come reperto tra i reperti. E se la gestualità di “IT IS” era finalizzata alla misurazione di sé, l’inclusione di foto, di testi e di oggetti nel libro-opera [tra questi il disco di Diamanda Galás: voce esemplare intrappolata nel vinile a futura memoria] sono elementi attraverso i quali Anna si riconosce e si racconta, ma per i quali passa anche una dimensione tattile che suggerisce indicazioni di operatività ed orientamenti. Chissà che le immagini delle mani sulla tastiera non abbiano una qualche valenza pragmatica? Scrive Barthes: “qualunque pianista sa che la propria memoria è di gran lunga più gestuale (grazie al tocco) che visiva e che la partizione scritta, trascritta che egli ha sotto gli occhi ha soltanto una funzione limitata, che la memoria di ciò che è stato scritto passa essenzialmente attraverso il tatto”. La scelta di un percorso circolare, speculare, è immediatamente dichiarata nel titolo del libro-opera: titolo che si pone nello stesso tempo come dedica. I volti di Anna che si fronteggiano sembrano scambiarsi il nome. Nella specularità si coniuga la figura della ninfa Eco, che perde il suo corpo nella sua disperata coazione a ripetere, con quella di Narciso, che affoga nell’immagine del proprio corpo perdutamente affascinato dalla riflessione di sé. Nella con-fusione si confondono la voce con il silenzio, il suono con l’immagine, il dire con il sentire, l’ascoltare e il guardare, il positivo e il negativo, luce e buio, interno e esterno, sé e altro da sé, anima e animus. E non è un caso, allora, che Anna abbia voluto porre al centro dell’attenzione il proprio nome. La radice indoeuropea ANĒ (da cui Anna) vale respiro, soffio vitale; e da ANĒ derivano anima e animo, così come il greco anemos-vento. Anna, dunque, semina il suo nome. Lo disperde. Ma da quella dispersione si attende una rinascita. In questo libro d’artista (quasi una sorta di sintetico romanzo visivo autobiografico) dove la protagonista trascina nel mare la propria voce e dove, lì, nel mare, affonda un pianoforte (sublimazione dell’universo sonoro), Anna Guillot sottolinea con decisione la necessità del passaggio come processo di rinnovamento, dell’attraversamento come inabissamento e affioramento ciclico, come memoria e come progetto. Quella voce, sostenuta dal respiro interno al nome (ANĒ: ANNA) e dispersa nel silenzio dell’immagine, velata all’orecchio e rivelata all’occhio, si pone come elemento vitale, come corpus e spiritus, come energia organizzatrice, come soffio vivificante, come alito trasformatore e come catalizzatore metamorfico; dunque: come ricongiungimento di Eros e Thanatos, come flatus androgineo che racchiude in sé proprio quella tensione segreta versus l’elemento filosofale che nel progetto di Anna Guillot soprintende all’attraversamento sinestetico.
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