Absolute Poetry 2.0
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Arben Dedja, La manutenzione delle maschere

di Renata Morresi

Articolo postato giovedì 9 giugno 2011

Qui pro quo

Siccome le parole “neurologo”
e “urologo” sono quasi uguali
vennero a prendermi per un
loro fratello con una pallottola in testa
quando gli dissi
che non li potevo aiutare
furono
calci e pugni.

Stavo esaminando
una colica renale
che cominciò a urlare
dai dolori.

*

Elegia crudele per mio padre

1.

Ho lavato mio padre morto
una mattina di marzo con i geloni
d’inverno ancora ai piedi
e proprio dai piedi iniziai
– acqua e sapone – finché ebbe
odore di detersivo poi tra le cosce
ho sfiorato appena i testicoli in quella
occasione per la prima volta svelati
lo vestii con camicia e abito
il migliore tenendogli dritta
la testa che non cadesse sul petto
lo sdraiai senza-orologio-e-senza-anello
gli pettinai i capelli bianchi lo rasai
a secco ansimai con le scarpe
nuove tre-manici-di-cucchiai-spezzati e
alla fine gli misi una cravatta dopo
aver fatto prima il nodo sul mio
collo.


2.

Padre mio quando tu moristi
ti tenemmo per ventriquattr’ore
insepolto per renderti gli ultimi
onori una lunga veglia
ma intanto l’inverno lasciava
la terra e così a mezzanotte
spegnemmo il riscaldamento tra noi
ci rannicchiammo mentre qualcuno
cospargeva di profumi la stanza
il corridoio la cucina l’altra stanza
il mondo intero. . .


3.

Compianto padre mio quando moristi
fu impresa difficile
farti scendere per le scale strette della palazzina
costruitra con i lavori forzati nel periodo
hoxhiano un cugino di settimo
grado arrampicato sulle sbarre
della finestra del vicino si occupò
di dirigere le operazioni il falegname
del quinto piano stramisurò
con un metro gli angoli del calvario
un martire mise la schiena
sotto la bara ma comunque
spaccammo lo stesso la lampada
delle scale scalfimmo
l’intonaco mentre tu dentro ti muovevi
sacco di noci ammucchiato sulla testa
che secondo l’usanza
doveva uscire per prima.

*

[In quel casale solitario]

In quel casale solitario
a S. Angelo in Vado ebbi
una crisi d’astinenza da lettura
per cui mi portarono un sacco
pieno di libri ammuffiti
perlopiù scolastici ne scelsi
uno con esercizi di grammatica
e di stile trovai tra le pagine
code di lucertole e come
calze perse nel letto
versi di poeti morti.

*

Il poeta si raccomanda alla sua ultima canzone

Ora taci
e riposa
o mia canzone
come una volpe stanca
seduta sulla coda
(coda di chissà quali nuche
di signore)

ricorda
rimirando
il raggio di luna -
filo d’acciaio -
come sfuggivi la trappola
dell’attimo
della quotidianità
e senza farti vedere
sputavi via la zampa.

*

Via Carlo Ghega

Carlo Ghega, c’è una via
col tuo nome quaggiù
in Albania, a Tirana. Zingari
ci abitano, suonano
orchestrine, fanciulli
seminudi sorseggiano moccoli
acque
scorrono ai lati come
da quelle tue gallerie
di Semmering: sono
acque sporche sì, ma almeno
provengono dai vivi
non come la memoria.

*

Antigone

Quando il regista Hans Von Sippel mise in scena nel Piccolo Teatro di Bayreuth, nell’autunno del 1989, l’Antigone tragedia di Sofocle, per rendere ancor più palpabile la cupa e soffocante atmosfera di sangue versato, di delitti e carogne umane a cui decreti supremi vietavano la sepoltura finché non le avessero divorate i cani randagi, nascose sotto il palcoscenico, a insaputa di direzione attori e pubblico, la carcassa di un asino morto, lasciato imputridire per tre giorni e tre notti nella terrazza chiusa a chiave dell’edificio. Il fetore fece subito sgomberare le prime file e verso metà spettacolo l’attore che interpretava Creonte perse i sensi dalla puzza che l’aveva avvolto. Nessuno era in grado di sostenere se lo spettacolo era da considerarsi un successo o un fiasco. Solo quando i dettagli di questa storia vennero a galla, si seppe, per esempio, che il giovane assistente-regista, l’unico che insieme al regista era a conoscenza e d’accordo per l’utilizzo della carcassa, aveva fatto una proposta leggermente diversa: utilizzare carogne di topi infilate sotto le poltrone, ma non in platea, bensì nei palchi riservati alle autorità.

*

(dall’introduzione di Mia Lecomte, Per la manutenzione di ogni maschera)

"Perché proprio così vince la quotidiana banalità del radersi" è il verso in cui Arben Dedja chiude la poesia dedicata al suicidio, con rasoio da barba, di Emilio Salgari ("Emilio Salgari", p. 59). Da questa chiusa, in senso letterale e traslato - da quest’ultimo verso e dalla prospettiva rovesciata, à rebours, offerta dal punto di vista della morte - è inquadrabile tutta la raccolta bilingue di questo poeta e traduttore albanese, medico chirurgo in patria e ricercatore nell’ambito della trapiantologia e delle cellule staminali a Padova, dove vive. E il perno, la leva del ribaltamento in questo caso è proprio quel "vince", quando la Vittoria, come nel verso finale della poesia "Evviva!", quella con la maiuscola, capovolgendo il canocchiale è ironicamente allontanata e messa a fuoco nella sua vera e tragica dimensione. Il memento mori di Dedja, caustico e ossessivo, che ritma la scansione dei testi nelle tre parti della raccolta - negli "Autoritratti" sul filo della memoria della prima sezione, nel divertissement scanzonato delle prose poetiche della terza, e soprattutto nel "Museo delle cere" della seconda - si manifesta come interesse per un’umanità riportata continuamente al grado zero dell’evoluzione, alla sua mortalità animale; è la voce del medico, dello scienziato, che riconosce tutti gli esseri uguali nella contingenza, li riassume nella costante della deperibilità, della sconfitta biologica, che sola li accomuna in un’umanità democratica condivisa. Da cui scaturisce una poetica del "basso" d’umore rabelaisiano, perseguita con gli strumenti di un’ironia a tratti melanconica, come quella dei salmoni nelle cassette del mercato, che semplicemente sorridono "come Charlot / alle madames" ("Salmone", p. 52), e a tratti macabra e scoppiettante, "su e giù con il morto di turno" ("Il racconto del Membro del Politburo", p. 48).
La manutenzione delle maschere di questa raccolta è un implacabile esercizio dissacratorio, operato con scientificità attraverso la procedura esatta ed esperta dell’autopsia; tramite cioè la scomposizione anatomica, imparziale, della materia, nel momento in cui la morte, come unica realtà, conferisce finalmente a ogni cosa il posto che le spetta.
[...]"


***

(un altro post su Dedja: qui)

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