Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
AUTOREFERENZIALITA’
1. L’aggettivo autoreferenziale, la cui applicazione non si limita ormai agli originari àmbiti della logica e della linguistica, è passato da tempo a designare uno dei bersagli preferiti e più frequentemente evocati dall’ideologia aziendalista. Riesce però difficile circoscrivere l’oggetto che questa nuova o allargata accezione del termine dovrebbe denotare: la sua area semantica ha contorni talmente vaghi e sfumati che si può comprenderlo soltanto in negativo, deducendolo dal suo contrario. L’esemplificazione più lampante di ciò che non è autoreferenziale viene forse offerta dalle trasformazioni strutturali che la scuola italiana ha conosciuto negli ultimi dieci-dodici anni. In nome della lotta all’autoreferenzialità, accade infatti che mentre i dirigenti scolastici acquisiscono poteri sempre più ampi di tipo manageriale a danno della democrazia assembleare, l’”apertura” al mercato dà luogo a fenomeni molto pericolosi come la sponsorizzazione degli istituti pubblici da parte di privati, avviando fra l’altro un subdolo processo di erosione, nei princìpi e nei fatti, della libertà d’insegnamento. E dato che il movimento della società e quello della cultura, per quanto non rozzamente sovrapponibili, sono sempre in qualche modo intrecciati, non deve stupire che si proclamino nemici dell’autoreferenzialità anche alcuni critici letterari malgré soi impegnati sul fronte della “ristrutturazione” del genere più refrattario al sistema della comunicazione: la poesia (la lirica).
2. Secondo Guido Mazzoni il passaggio dalla premodernità alla modernità, letteraria e non solo, cade nel cinquantennio compreso fra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, cioè nella fase corrispondente alla rivoluzione industriale e al passaggio dalla civiltà contadina a quella individualista e borghese. A questa transizione corrispondono da un lato il tramonto dei generi "alti" della tradizione, l’epos e la tragedia, dall’altro l’affermazione del romanzo, del dramma borghese e, appunto, della poesia lirica. Mazzoni ritiene che la poesia lirica, nella quale si è generalmente portati a identificare la poesia tout court, interpreti bene la frammentazione della società moderna, «esibendo allo sguardo del pubblico esperienze personali che, in altre epoche, sarebbero state giudicate ininteressanti o inadatte a un’opera seria»: esperienze esposte in una forma solitamente breve e caratterizzata da «uno stile eccentrico rispetto alla norma pubblica della tradizione». Nella poesia antica, e poi in una prospettiva di tipo classicista, il poeta è tenuto a rispettare un insieme di regole, convenzioni e artifici indispensabili alla comunicazione. Anche quando parla in prima persona «non arriva mai a pronunciare un monologo veramente solipsistico» ma un discorso pubblico «che rispetta le norme grammaticali della comunicazione collettiva» (così ancora Petrarca nel Trecento). Invece la lirica moderna si distingue in quanto genere dell’«individuazione senza riserve», il genere proprio di un’epoca in cui la letteratura ha perduto qualsiasi funzione pubblica. A partire dall’età romantica, scrive Mazzoni, «i poeti possono raccontare i dettagli effimeri delle proprie vite effimere con una libertà confessoria, un pathos esistenziale, una serietà narcisistica inediti»: a partire dal romanticismo è anche possibile l’irruzione, inconcepibile in epoche precedenti, del verso libero («la forma stessa dell’io interiore emancipato», come lo definisce Marie Dauguet) non passibile di parafrasi, e del poème en prose. «Nessun altro genere raffigura con tanta forza ed eloquenza lo stadio estremo dell’individualismo occidentale», conclude lo studioso. Il saggio di Mazzoni non delinea soltanto una storia della poetica moderna ma è nello stesso tempo un testo militante che prende di mira, inevitabilmente date le premesse, le avanguardie storiche e le neoavanguardie: dirette eredi del romanticismo e del simbolismo, queste correnti sono accomunate dalla «forma autoreferenziale e intransitiva» della parola. Perciò, a differenza del romanzo, la poesia moderna dividerebbe il pubblico tra l’élite degli iniziati e la gran massa dei profani: «evidentemente», nota Mazzoni, «una parte della cultura contemporanea dà per scontato che si possa dire una verità universale chiudendosi in sé». Quale sarebbe, allora, la via d’uscita da questo impasse autoreferenziale? In che modo la poesia può tornare a essere comunicativa? Schiacciata la lirica moderna sul solo côté solipsistico, l’appannaggio dell’esperienza comunitaria viene assegnato alla musica rock, che pure ha in comune con la poesia degli ultimi duecento anni la fede in una «verità» ubicata «in interiore homine, in esperienze asociali, in attimi isolati». Osservando come il peso "politico" del rock derivi pur sempre da un «mandato sociale plebiscitario», Mazzoni si spinge anche oltre, sostenendo (sulla scia di Tondelli secondo il quale i più grandi poeti degli ultimi decenni sono stati gli autori rock) che attualmente si sta verificando una metamorfosi irreversibile della cultura: non è più «qualche intellettuale velleitario» a elaborare la migliore critica dell’esistente ma «il sistema di opere, figure, intellettuali e generi che la comunicazione di massa ha prodotto» e che «funziona come una nuova cultura umanistica, cioè come un corpus di testi e discorsi che ambiscono a spiegare o raccontare la vita umana in forme divertenti e istruttive, proprio come cercano di fare gli intellettuali e le opere della cultura tradizionale» (corsivo dell’autore). E’ possibile ribattere alle tesi di Mazzoni almeno su quattro punti. a) L’”umanesimo di massa” non è in grado di elaborare una credibile critica dell’esistente. Come ha osservato Paul Zumthor, la carica rivoluzionaria e libertaria del rock ha avuto fine quasi subito (all’epoca dello scioglimento dei Beatles, del ritiro di Bob Dylan e della morte di Jimi Hendrix), con la sua assimilazione da parte dell’industria discografica. Non si vede perché proprio la poesia debba incaricarsi di riesumare resti vecchi di quarant’anni. b) Ravvisare l’essenza della poetica tradizionale nella «mimesi rituale della realtà», contrapponendola al concetto di lirica come autoespressione, è troppo parziale. Il realismo costituisce soltanto la fase di decadenza, di esaurimento della poetica occidentale, che in origine invece prevedeva, come chiariscono i dialoghi di Platone, l’imitazione della natura interna delle cose: perciò uno dei momenti in cui la lirica moderna si avvicina di più a questa visione è proprio il simbolismo "censurato" da Mazzoni che lo considera «l’apoteosi del narcisismo in poesia». Inoltre il carattere documentario e testimoniale-mimetico rappresenta un aspetto del tutto secondario e accessorio rispetto allo scarto, alla tensione utopica e profetica verso un mondo altro dall’esistente che la poesia è in grado di configurare. c) La stessa visione della lirica moderna come produzione solipsistica di un io empirico che concepisce lo stile come espressione anarchica di sé è riduttiva; si tratta sì, per dirla in breve, di individuazione, ma che non avviene certo «senza riserve»: anzi nella lirica moderna "riserve" e nuance sono importantissime, per non dire determinanti. d) Non solo è inaccettabile la pretesa, ideologica come poche, di far quadrare il cerchio fra cultura umanistica e società di massa, ma più in generale va contestato il principio opportunista secondo cui la grandezza di un’opera sia misurabile dalla sua capacità di ottenere, come scrive Mazzoni, «un’energia politica da spendere nella lotta per l’egemonia» adattandosi ai «cambiamenti storici complessivi».
3. Sulla stessa falsariga di Mazzoni, ma in modo più umorale e rapsodico, procede Alfonso Berardinelli. Da sempre Berardinelli rimprovera alla lirica moderna il fatto che, diluendo in un gergo vuoto e prevedibile tutta la sua carica iniziale di oscurità antagonista, si sarebbe lasciata inglobare proprio da quel sistema “neo-borghese” che intendeva fronteggiare, e in particolare dall’industria culturale come punta di diamante di tale sistema. Il ragionamento di Berardinelli sembra questo: se la chiusura non ha sortito alcun effetto ma anzi si è rivelata una scelta controproducente, tanto vale allora abbandonare ogni abitudine solipsistica per spalancare porte e finestre al dialogo, e probabilmente anche qualcosa di più, con il sociale. Poiché “il genere letterario chiamato poesia è oggi il più autarchico e autogeno” e poiché, secondo il critico, “l’energia, la varietà, l’efficienza comunicativa dei nostri poeti” si sarebbero indebolite, è consigliabile il confronto non più con maestri di cui si presume l’inesistenza o la scarsissima auctoritas ma con il linguaggio degli articoli di giornale e delle canzoni, cioè con quello che più piace al pubblico, intoccabile feticcio dell’era aziendalista. “E’ il cattivo pubblico, o il nessun pubblico”, sentenzia infatti Berardinelli, “che rende la poesia cattiva o nulla”: d’ora in avanti anche i poeti, come già i supermercati e le scuole, dovranno produrre un’adeguata customer satisfaction…
4. In realtà, rivolgere alla lirica contemporanea l’accusa di autoreferenzialità è pretestuoso e (lo dimostra, del resto, l’analisi dello stesso Berardinelli nei suoi momenti migliori) filologicamente scorretto. Nell’antologia di Enrico Testa viene registrata una tendenza in atto già alla fine del Novecento, che appare contrassegnata da “un movimento così rapido e inquieto da far pensare che l’abituale distinzione tra lirico e antilirico, utile in passato, non sia qui più produttiva”. I molti e svariati autori che, sulla scia di Pasolini, Luzi, Giudici, ecc., partecipano a questo movimento fanno agire, sostiene Testa, un io “per lo più autobiografico, empirico e anche familiare”, un identità post-lirica che non sarebbe né “labile” né “flebile” ma “attenta a quanto lo circonda” e attestata “sul confine tra proprio e improprio” (detto per inciso: i risultati ottenuti da questo più “aperto” io post-lirico e post-moderno consistono spesso in una cattiva prosa versificata che lascia sconcertati per piattezza e conformismo). Anche nella riflessione di Roberto Galaverni è esplicito il richiamo a un’estetica modellata in senso non certo autoreferenziale e, con particolare riferimento a Vittorio Sereni, sul concetto di esperienza. L’esperienza, precisa Galaverni, è «un orientamento del poeta e della poesia in direzione del mondo, un abbassarsi e farsi ricettivi, un incontrarsi e anche un porsi in subordinazione (certo non un sottomettersi) alle sue indicazioni» - e ciò anche, o forse a maggior ragione, quando il mondo stesso si avvia verso la dissoluzione e i luoghi, le persone, la storia sembrano scomparire. Questo movimento verso il basso, verso la prosa e verso le cose comincia quasi quarant’anni fa, quando Montale pubblica Satura: «un lungo, amaro congedo da una splendida stagione di poesia che se ne è andata per sempre». Dopo la lirica, dunque. Ma non necessariamente contro la poesia, perché abbassamento e ricettività non significano, per Galaverni, automatico trionfo della mediocrità, del famigerato minimalismo inviso ad autori come Brodskij e Heaney. È così che il critico può contrapporre alla "rinuncia" e alla chiusura ironica dell’ultimo Montale la poesia dei maggiori esponenti della "terza generazione" (Luzi, Caproni, Bertolucci, Sereni), per i quali l’uscita verso l’impoetico corrisponde a un bisogno di reale comunicazione, di esperienza: «non si dà mai in questi poeti l’equazione tra l’avvertimento della pressione della realtà e la depressione della poesia».
5. Le molteplici espressioni dell’io lirico moderno vanno essenzialmente lette come il riflesso del conflitto con una società che schiaccia e disintegra l’individuo. Le ragioni storiche, psicologiche e culturali dello scontro non sono certamente venute meno oggi. Oggi, semmai, è diventato enormemente più confortevole illudersi del contrario, poiché la morsa dell’ingranaggio al quale si ribellavano Baudelaire e Rimbaud si è fatta asfissiante e praticare le alternative appare un’impresa molto più ardua di quanto non fosse in passato. L’universo del mercato e della comunicazione assomiglia a un’allucinazione dickiana, all’“operato di una divinità inferiore e malevola che interpola false creazioni nel paesaggio permanente, e latente, voluto dal vero, ma lontanissimo, Dio” (per usare, sia pure trasferite in altro contesto, le parole di Gabriele Frasca). Ma la percezione dell’orrore non deve tradursi in rassegnazione al cospetto del dualismo gnostico, dello iato fra essere e apparire, fra soggetto e mondo: Adorno ricorda che “la punta che l’arte rivolge contro la società è a sua volta un fatto sociale, controspinta contro la spinta ottusa del ‘body social’”. La resistenza sarà tanto più significativa se riuscirà a non riprodurre, capovolti, gli stessi processi mentali che opprimono e annientano l’individuo: se, cioè, la monade lirica saprà dischiudersi in direzione non del “pubblico”, cadaverico body social manipolato a piacimento dai poteri forti, ma di un significato collettivo anagogico (F. Jameson) ancora tutto da esplorare e collaudare.
Riferimenti bibliografici
G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, il Mulino 2005
P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, trad. it. il Mulino 1984
A. Berardinelli, Poesia non poesia, Einaudi 2008
E. Testa, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Einaudi 2005
R. Galaverni, Dopo la poesia. Saggi sui contemporanei, Fazi 2002
P. K. Dick, Un oscuro scrutare, traduzione e postfazione di G. Frasca, Fanucci 1998
T. W. Adorno, Teoria estetica, a cura di G. Adorno e R. Tiedemann, trad. it. Einaudi 1977
F. Jameson, L’inconscio politico, trad. it. Garzanti 1990
[“L’Ulisse”, n. 11, 2008]
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