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Biancamaria Frabotta: QUARTETTO PER MASSE E VOCE SOLA

recensione di Renata Morresi

Articolo postato lunedì 6 settembre 2010

QUARTETTO PER MASSE E VOCE SOLA

Chi sono le “masse”? Chi è la “voce sola”? Sembrerebbe facile rispondere che la “voce sola” sia quella della poeta, dal cui talento dovrebbe/vorrebbe prendere forma il dire più rivelatore sul presente, sui molti noi sparsi, massificati, qualunquisticamente rappresentati dalla politica, cannibalizzati dal consumismo, spinti dalle nevrosi, spinti dalle necessità, spinti dalla povertà. E che le “masse” siano il resto: moltitudini, popoli, movimenti, branchi, gruppi facebook e via dicendo. Ovviamente anche comunità, speciali(zzati)ssime collettività, invenzioni del ’noi’: i poeti, per esempio, o dovunque ci sia un ritrovarsi, un riconoscersi, magari sconcertato, di fronte all’evento assai rumoroso del mondo.

Tuttavia la “voce sola” è forse anche la voce di ciascun “solo”. È, sì, la voce di chi scrive, “sola” perché prende le distanze dalla storia e dalle storie per renderle racconto suo. Ma è anche, inevitabilmente, una voce tra le voci, che sta insieme alle masse sole, abbandonate nel deliquio solitario della febbre da comunicazione (ahimè, mancata): “Da tempo è come se vivessimo, per rimpiazzare i desideri irrealizzabili, dentro un polveroso locale, frugando ovunque, con un’ansia da trovarobe, da svuotatori di cantine, da collezionisti di cianfrusaglie in un continuo osservarsi a vicenda, superfluo e snervato.” (100)

Così il racconto costituisce il sé e ci invita a partecipare ai suoi eventi, al tempo stesso riordina il tempo e gli spazi tentando di misurare il nostro comune presente. In Quartetto per masse e voce sola Frabotta intreccia le vicende della parola, del crescere tra i libri e l’impegno, del partecipare alla sottile tessitura della cultura letteraria italiana recente, alla riflessione sulla fragile condizione della memoria, avvertendone i presentissimi pericoli d’annacquamento. Alla poltiglia di memoria, appiattita sul tutto, inservibile, come quella di Funes, alla memoria distorta dalla bugia – no. E infatti l’autrice cerca di rinsaldare la memoria al testimone, di ricomporre la fiducia che dà dignità di storia ai discorsi condivisi.

O, almeno, di rispettarne l’opacità. Parlando di un viaggio a Sarajevo scrive: “Io che non so debbo ricordare. Loro che sanno vogliono solo dimenticare. […] Il passato è morto e se è ancora vivo nello zelante, sacrosanto spirito di conservazione di chi è sopravvissuto, io non riesco a decifrarlo.” (91-2)
Frabotta fa propria la lezione femminista del sapere situato: il critico non può più aspirare ad essere un etnografo obiettivo, distaccato, che penetra la realtà per delinearne il nocciolo aureo di verità. L’autrice riconosce la realtà come interrogata da e modellata sulle nostre metafore, le nostre rappresentazioni, la nostra presa sul mondo, i diritti ammessi o mutilati, gli amori e le risse, la lotta e le perdite, i propri errori. In questo libro ho trovato, fusa nell’alta lezione di classicità e sapienza letteraria che deriva dal lungo, ricambiato amore per i libri, una finissima mescolanza di citazioni poetiche, esperienza viva, critica culturale, visioni immaginifiche, riflessione e attivismo che lo rende, appunto, un concerto. Il Quartetto, difatti, esalta il pastiche tra i generi. L’autrice non fa però appello al postmoderno, quanto alla musica, all’accordo di strumenti diversi da cui risulta un’armonia compiuta. Ne viene una narrazione divisa in quattro movimenti. Si compone così, come in un tangram, una serie di poliedrici ritratti, di persone vicine, realmente amate, idealmente vicine, sempre ricercate (se stessa, certo, e poi i genitori, Dario Bellezza, Pasolini, Amelia Rosselli, Simone Weil, Vesna Ljubic e molti altri).

La prima parte è dedicata all’infanzia e alla giovinezza, all’amore per i libri, a quanto è stato affidato ad essi e al sempre intatto mistero di come diventiamo ciò che siamo. Protagonisti di questa parte sono i genitori, gli imperscrutabili iniziatori a chi si è. E poi le compagne nell’impegno politico, tra cui spicca, mai conosciuta, eppure vivissima, Lucia. Con lei si preannunciano le future derive di una sinistra snervata da molte contraddizioni.

Il secondo capitolo allarga lo sguardo alla “Seconda persona plurale”, la comunità di poeti, i grandi che hanno segnato l’autrice (la sua vita, la sua scrittura). Lo scenario è Roma, sublime e animale al tempo stesso, il nodo è quello della formazione poetica. Frabotta, tuttavia, sa di scrivere da una posizione considerata “comoda” e quindi, per molti versi, “scomoda”, e si interroga con sobrietà su cosa significhi continuare a scrivere poesia in un tempo in cui la poesia è o idolatrata, tanto da diventare trascendentale (mentre i poeti, ’naturalmente’, sono lasciati morire), o del tutto trivializzata nei giochi dell’egotismo, o, semplicemente, espulsa. L’Elogio del fuoco, scritto alla morte di Amelia Rosselli, mantiene la consapevolezza di una missione civile alta del poeta mentre ne denuncia la cannibalizzazione. Questa lezione di fede nella parola poetica che non rifugge la visione lucida delle condizioni storiche è certo una delle cifre più significative del libro.

Il terzo capitolo, “La porta socchiusa”, riguarda i viaggi. Anzi i non-viaggi, poiché contravvenendo al tradizionale andamento del racconto di viaggio, con le scoperte, gli incontri, la rinnovata espansione di sé che il turista colto vuole raggiungere alla fine dell’esperienza, qui ci troviamo di fronte a un puzzle che mai si compie, a un percorrere il mondo senza compiacimento per il proprio ego, registrando la vulnerabilità, l’inadeguatezza o i limiti dell’andare. Il soggetto, invece di appagarsi del perdersi, come vuole la vulgata beat, invece di celebrare il troppo euforico nomadismo alla Braidotti, continua a interrogarsi sulla riserva di crudeltà e di opacità di cui la vita è sempre colma. Non si tratta di curare all’infinito le smanie di un io affamato di avventure, le domande pregnanti sono altre: come veniamo a patti con la violenza? cosa fare del privilegio? “dove andare? che fare?”

L’ultima parte è la più esplicitamente politica e argomentativa, affrontando i temi della laicità, di cosa possiamo (o non possiamo) fare con la ’forza’ della poesia, malgrado (o grazie a?) il vizio del piacere e del sospetto in cui essa, ogni volta, rischia di rigettarci. Attraverso l’opera magistrale di Simone Weil, Frabotta discute le condizioni del lavoro e le sue dinamiche annichilenti. Le parole tratte dalle Riflessioni della filosofa francese mi sembrano quanto mai vivide:

“Il lavoro è un privilegio di pochi, il progresso tecnico invece che nel benessere promesso precipita le masse nella ’miseria fisica e morale in cui le vediamo dibattersi’, la scienza raccoglie un tale ’ammasso’ di conoscenze da sfuggire persino alla già ristretta cerchia dei suoi specialisti, l’arte, a causa dello ’smarrimento generale’, perde pubblico e ispirazione, la vita famigliare esprime solo ’ansietà’ e ai giovani viene precluso l’ingresso nella società. ’Viviamo in un’epoca priva di avvenire. L’attesa di ciò che verrà non è più speranza, ma angoscia.’” (112)

Su questa drammatica conclusione Frabotta torna al “noi”, il pronome più pericoloso, diceva qualcuno, a cui l’autrice non smette di aspirare, alla ricerca di immagini su cui “la nostra anima collettiva torni a esercitarsi” (118).
L’idea (il problema?) della condivisione è importante in questo libro. Come quella, complicatissima, dell’antisettarismo letterario. Centrale, insomma, la questione delle relazioni, la cui rigogliosa origine si trova, io credo, nella storia del femminismo italiano, che ha preferito, piuttosto che le rivendicazioni più puramente individualistiche del femminismo anglosassone, una tensione verso l’autoconsapevolezza non solo di chi si è, ma anche del dove si è, e con chi.
Frabotta mette se stessa, la propria biografia letteraria ed emotiva, dentro la critica letteraria e culturale che viene elaborando (o viceversa?), creando un crogiuolo creativo in cui il famoso slogan “il personale è politico” si rivela ancora, inaspettatamente, nuovo. (E necessario. Penso, in questi giorni, allo sciopero della fame dei precari davanti al Ministero, alla prof. di Palermo finita all’ospedale: come possono la trasformazione del sapere e le politiche culturali contemporanee non avere a che fare con i corpi di chi i saperi dovrebbe/vorrebbe trasmetterli?)

Biancamaria Frabotta, Quartetto per masse e voce sola, Donzelli, Roma, 2009.

1 commenti a questo articolo

Biancamaria Frabotta: QUARTETTO PER MASSE E VOCE SOLA
2010-09-09 04:10:44|di nadia agustoni

Non so se un "noi" e una "condivisione" siano ancora possibili, ma interrogarsi su questo ci porta certo a un serrato confronto con noi stessi. Che alcune voci, come la Weil, ci accompagnino in questo confronto,non fa sì che siamo meno smarriti, ma certo il discorso si fa più ampio e mi fa pensare a quello che la filosofa visse, come molti, attraversando la sua turbolenta epoca, che da una parte aveva grandi ideali e dall’altra toccò con mano cosa era il nazismo. Eppure "l’angoscia" di allora aprì poi la strada al cambiamento. Un saluto


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