Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce

Redatta da:

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Bianco&Nero, lingua e dialetto

di Fabio Franzin e Lello Voce

Articolo postato sabato 9 ottobre 2010

Poco dopo la pubblicazione sulla pagina regionale dei quotidiani veneti del Gruppo L’Espresso, di una mia intervista, raccolta da Paolo Coltro, a proposito del rapporto lingua nazionale / dialetti e/o lingue minori, Fabio Franzin mi ha inviato, per testimoniarmi la sua solidarietà, una bella poesia in dialetto.

Ne è nata una discussione e l’idea, che qui si realizza, di pubblicare insieme su AV sia l’articolo giornalistico, che i versi di Fabio e di aggiungere un suo breve scritto apparso su “Trickster” (n°8, 2010) rivista del Master in studi interculturali dell’Università di Padova. Lo trovate a pie’ dell’intervista e della poesia di Fabio Franzin.

Per quanto mi riguarda prometto di tornare al più presto e in modo più articolato sulla faccenda nella ’Scimia’.


Un napoletano difende il veneto
di Paolo Coltro
[La Nuova Venezia, Il Mattino di Padova, La Tribuna di Treviso]

E’ come un sasso nello stagno, una sortita improvvisa dal fortino assediato, un contropiede fulminante che va in gol. E’ un napoletano, perdipiù arrabbiato come un rapper, perdipiù di sinistra, che si mette a difendere il dialetto veneto. Addirittura, organizza per questa difesa un convegno, una giornata intera in cui esperti si confronteranno e analizzeranno com’è e come non è, se e quanto i nostri giovani praticano la parlata dei bisnonni, dei nonni e dei padri, quest’ultimi sì più “italianizzati”. Succede mercoledì a Monfalcone, ma il maitre à penser, nonché poeta, che ha messo su tutto è Lello Voce, che quando non gira per i tortuosi e non conclamati sentieri della poesia, sta a Treviso. Rimanendo così napoletano, che nella roccaforte verde non è diventato leghista. E il suo convegno non nasce sotto il simbolo del sole celtico, ma sotto quello di “Absolute (Young) Poetry”, una roba strana per i più, giovani linguaggi di giovani poeti. Ma dove, quest’anno, il linguaggio sotto la lente è appunto il dialetto.

Lello Voce è intrigato da tutto ciò che suona come parola, e odia tutto quello che alla parola veneta si è sovrapposto: la retorica, la demagogia dei politici, le strumentalizzazioni, le astruserie intellettualistiche. Con la stessa foga con cui a Napoli si combattono le discariche, dice: “In Italia la questione del dialetto è diventata stupidamente ideologica. Se ti piace il basco o il catalano sei di sinistra. Se difendi il veneto, sei leghista. Ma quando mai? Io dico che ogni volta che una lingua muore diventiamo più poveri. Lo dice anche il grande linguista Claude Hagege: quando le lingue muoiono, perdiamo un modo di conoscere il mondo. Ci sono lingue che hanno più generi, non solo il maschile e il femminile, ci sono grammatiche parlate basate su concetti totalmente diversi dai nostri. Sono altre costruzioni della mente, prodotti dell’intelligenza, piccoli mondi culturali. Proprio come certi animali sono a rischio di estinzione: e come loro vanno protette”. Lo si fa tenendo viva la lingua nelle giovani generazioni. “E’ l’unico modo. Per questo noi guardiamo i giovani, quelli di queste parti, tanto per cominciare. Ma sarebbe lo stesso nell’ultimo angolo dell’Azerbaigian. Affrontiamo il tema da poeti, senza ideologie. Diciamo che non si deve dimenticare l’italiano, ma non si deve perdere il veneto”.

E, a ben vedere, c’è subito un altro aspetto. “Anche l’italiano si perde un po’. I ragazzi di oggi hanno un vocabolario striminzito, con trecento parole dicono tutto. Cioè si accontentano, credono di dire tutto. Magari non muore l’italiano, ma deperisce di sicuro, non è più in grado di essere quella lingua ricca che invece è”. Ma una lingua parlata non è quella stessa lingua letteraria… “No, ma ci sono processi di omologazione, che vuol dire povertà. Sembra che l’idea sia quella dell’uomo monolingue: parla solo inglese. Ma l’uomo monolingue non esiste. L’inglese vince non perché è più bello, più utile, più facile: vince perché gli Stati Uniti hanno i missili. Io dico: parliamo inglese, italiano, dialetto. Solo così non si perdono spirito e cultura delle comunità, delle nazioni”.

Vitaliano Trevisan, scrittore nostro, nel “Tristissimi giardini” scrive: “La valorizzazione della lingua e della cultura veneta! Possibilmente ai ferri con due fette di polenta, è questa più o meno l’idea”. Chiaro, no? E scrive anche che l’idea di insegnare a scuola il nostro dialetto è una bufala: tanto per cominciare, quale?, che ce n’è uno ogni trenta chilometri, e cambia anche ora.
Lello Voce: “Giusto, cambia anche ora. Il dialetto delle giovani generazioni è una lingua creola, c’è dentro di tutto oltre alle radici. Ma questa lingua è la loro oralità, e deve non solo sopravvivere, ma vivere. Non è vero che solo la lingua scritta è nobile. Il meccanismo dell’identità orale è fondamentale: è riconoscimento e auto-riconoscimento, e proprio per questo si trasforma. I giovani ne sono recettori ma contemporaneamente autori. Sono le cellule nuove di una lingua antica. Serve a dare un’identità, non serve nemmeno dire veneta”. Insomma, non si può insegnarlo. “No, non va insegnato. Va difeso parlandolo, e senza metterci sopra una motivazione o una sovrastruttura politica. Il dialetto ha la forza di essere lingua tra le lingue, i giovani sono il veicolo. E il dialetto è un veicolo di trasmissione di valori differenti. Ricordiamoci che Tagore ha sempre scritto solo in bengali. Ancora: guardate come la poesia usa quella lingua benissimo, e tra l’altro ovunque ci sia un dialetto. A Monfalcone ci sarà anche Pier Franco Uliana, che è poeta e insegnante: lui fa i conti col dialetto ogni giorno, a scuola: sarà illuminante ascoltarlo”.

E allora? “Allora basta con le ideologie. Non è una questione leghista. La sinistra è talpa e cieca se non se ne accorge. Tra l’altro, potrebbe ricordarsi che l’italiano era la lingua dei padroni, che gli operai degli scioperi di Marghera urlavano anche slogan in dialetto. E fanno sorridere anche i leghisti: il loro coro del Nabucco è italiano che più italiano non si può…”


Fabio Franzin

(Nel dialetto Veneto-Trevigiano dell’Opitergino-Mottense)

Zhope de tèra tel ‘sfalto, móena
de paltàn fresco tea stradha,
moeàdhe zo da un tratór ‘ndat
a aràr te ‘ste canpagne senpre
pì cèe, senpre pì perse via fra
capanóni e centri comerciài.

Zhope che dise un passà vossù
desmentegàr, che fa incazhàr
i ex contadini che ‘dèss i passa
co’a Mercedes ‘pena lavàdha,
ròdhe lustre, zhercioni che slusa
verso ‘a só fabricheta de cornise.

Seo valtre, zhope, el vostro dispèt
strassinà drio fin ‘ndo’ che ‘é brut
da véder, seo valtre el diaèto? Eo
‘ste trazhe de tèra come ‘e frègoe
de Hansel e Gretel, de Bepi e dea
Catina, che ne tornarà portàr casa?

Zolle di terra sull’asfalto, molliche / di fango fresco sulla strada, / lasciate giù da un trattore di ritorno / dall’aratura in queste campagne sempre / più esigue, sempre più perse fra / capannoni e centri commerciali. // Zolle che riportano un passato voluto / dimenticare, che fa incazzare / gli ex contadini che ora passano / con la Mercedes appena lavata, / pneumatici lindi, cerchioni luccicanti / diretti verso la fabbrichetta di cornici. // Siete voi, zolle, il vostro dispetto / trascinato fin dove è indecenza, / siete voi il dialetto? Sono / queste tracce di terra come le briciole / di Hansel e Gretel, di Giuseppe e della / Caterina, che ci ricondurranno al sentiero perduto?

2 commenti a questo articolo

Bianco&Nero, lingua e dialetto
2010-10-16 19:02:43|di Valerio

grazie fabio, grazie lello! aspetto l’approfondimento sulla scimia..


Bianco&Nero, lingua e dialetto
2010-10-09 18:22:06|di marco scalabrino

Palori

Certi palori sunnu duri
duri chiù di autri
a ncrucchittari.

Ntantu mi scòncicanu
mi cunnucinu manu manuzza
m’ammustranu mari
e munti
e universi trascinnenti
e poi
addimuranu
s’annacanu tutti e scialanu
si siddianu e l’aju a prijari.
E quannu nfini
comu iddi vonnu
n’attrappu un paru ...
s’ammùscianu di bottu
li curtigghiari
comu ddi veli
abbuturati di bunazza.

Unni è lu truccu allura
mi dumannu
e comu ponnu
e a cui fannu scantari
cristalli raciuppati nna li stiddi
minni amurusi di matri
ciarameddi
trazzeri addumati di libirtà
tozzi di paci
virità:

palori.

Parole

Certe parole sono dure
dure più di altre
ad aggregarsi.

D’un canto mi stuzzicano
mi conducono per mano
mi mostrano mari
e monti
e universi trascendenti
e appresso
s’attardano
si danno delle arie e si sollazzano
si infastidiscono
e mi tocca implorarle.
E quand’anche, talora
si concedono
e ne agguanto un paio ...
ecco di botto s’afflosciano
quelle pettegole
come le vele
trafitte dalla bonaccia.

Dove sta l’inghippo allora
mi domando
e come possono
e a chi mettono paura
cristalli racimolati tra le stelle
seni amorosi di madre
cornamuse
viottoli illuminati di libertà
tozzi di pace
verità:

parole.


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