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Borderlinea di Loris Ferri. Appunti per la nuova epica italiana 2/3

Articolo postato venerdì 31 luglio 2009
da Valerio Cuccaroni

Qualche mese fa terminavo la prima parte dei miei Appunti per la nuova epica italiana, consultabile qui, con la speranza di parlare presto di altri poeti “neo-epici”, oltre il già trattato De Signoribus, di chiarire alcuni snodi problematici identificati nei commenti da Sinicco e Gambula, soprattutto, e di sviluppare alcune suggestioni di Capecchi (blepiro).
Finalmente ho la possibilità di rimettere le mani sulle ultime propaggini della «massa epica non meglio identificabile», come l’ha definita Rosaria Lo Russo in uno dei commenti al mio post, per individuare e sbrogliare qualche filo.
Rimarrò nelle Marche, spostandomi però a nord, nel pesarese. E parlerò di Loris Ferri e, indirettamente, di Gianni D’Elia, prefatore della sua opera prima, Borderlinea (Thauma edizioni, Pesaro, 2008), e nume tutelare del gruppo di giovani poeti che ha fondato La Gru. Portale di poesia e realtà, tra cui figura lo stesso Ferri, assieme a Davide Nota e Stefano Sanchini, fra gli altri.

Borderlinea è composto da cinque poemetti (la notte; le maree; adieu, mon amour; cronache dalla città elettrica; canto del borderline), ciascuno suddiviso in nove movimenti, costituiti da quartine di versi lunghi (endecasillabi e ipermetri), con eccezioni rappresentate da lunghe strofe di versi anche brevi e spezzati.
Il tono complessivo è quello del canto epico: D’Elia parla di «concerto corale, detto agli amici di viaggio, a quel popolo della notte diversa, tra bettole e locande, bar e moli solitari, strade della prostituzione». Un esempio, tratto da Pittura del genere umano, nono movimento di cronache della città elettrica:

dunque non avete mai visto,
piccole scene di vita quotidiana?
non avete mai visto, miei cari,
nei piccoli centri, fuori città, sulle campagne

i giocatori di carte e i bari, starsene intere giornate
nelle taverne, sotto luci bianche da obitorio?
l’oceano di vino e un mare di cenere, sbuffando
come pipe umane il fumo amarognolo, e fare segni

con gli occhi, al pari di maschere e i visi paonazzi
a giocarsi per un peccato di insana vita
per il più puerile dei piacer[i] umani,
una parte insapore, di paradiso?

pittura di genere, signori, pittura
del genere umano...

I personaggi dei poemetti di Ferri appartengono a quell’umanità a confini della società, che è la principale protagonista dell’epica moderna, a partire dall’ultimo grande poema epico della tradizione occidentale, nonché primo romanzo moderno, il Don Chisciotte di Cervantes.
L’epos moderno è un epos negativo, un epos della sconfitta, un epos anti-epico, perché i valori dei suoi eroi sono in antitesi con i valori della società. Julien Sorel, così come Madame Bovary, compiono il loro viaggio di conquista, ma entrambi naufragano inesorabilmente, esattamente come, un secolo dopo, tutti i personaggi dei romanzi di Paolo Volponi, da Albino Saluggia a Bruto Saraccini. Anche in poesia accade lo stesso. Ulisse e Alessandro Magno nei Poemi conviviali di Pascoli sono fantasmi, ombre di quegli eroi che hanno segnato con le loro avventure, rispettivamente, il mito e la storia dell’Occidente. Nel secolo scorso La ragazza Carla di Pagliarani è il poema forse più emblematico: secondo Guido Guglielmi, vi si trovano «contenuti antiepici e trattamento epico. Un mondo verbale e vocale è offerto attraverso angoli di esposizione, studiate inquadrature, per dirla in linguaggio cinematografico. Poemetto drammatico dunque, più che “racconto in versi”, come fu subito chiamato. La narrazione media una parola diretta e drammatica, e la allontana, con un effetto di straniamento che ha fatto pensare a Brecht. I diversi quadri sono disgiunti, separati da spazi bianchi, e disposti secondo una linea spezzata, con dislivelli tra una tonalità e l’altra. Una storia individuale, ma tipica di una particolare situazione storico-esistenziale, s’intreccia con altre storie individuali dando luogo a un montaggio di frammenti» (Guido Guglielmi, La poesia italiana alla metà del Novecento, in «Moderna», a. III, n. 2, 2001).
Ferri si pone sulla stessa linea d’onda, quella di una poematicità atipica. In una sua riflessione sulla poesia epica contemporanea, Riccardo Capecchi, dopo aver citato il Mussapi di Antartide, il Buffoni di Guerra, il Loi di Strolegh, interrogandosi sulle caratteristiche comuni, appuntava: «Sicuramente una spinta narrativa. Raccontare storie è un punto focale del New Italian Epic e in questa idea di epica. Senza per questo pensare necessariamente alla forma poematica».
Nella sua spinta narrativa, invece, Ferri usa proprio la forma poematica, ma in maniera problematica: la sua parola non è «diretta e drammatica», come quella di Pagliarani, però, è una parola oracolare e lo straniamento è prodotto dal contrasto fra materia bassa e impennate surrealiste.
Il poemetto cronache dalla città elettrica si apre, a questo proposito, con un verbo significativo: «ho sognato uomini lavorare nella notte / cattedrali di segni, nel magma di un tempo obliquo». Galleggiando su una superficie onirica le immagini passano davanti agli occhi, presumibilmente cerchiati di rosso, del poeta («mani sporche come una torba ignominiosa», «un’artiglieria di zanne / nell’ombra confitte nell’aria», ecc.), poi si coaugulano nel qui e ora («le lancette osservano il rottame d’ore 7.30») e tornano,vaghe, a galleggiare, assieme a rigurgiti di ideologia e a frasi fatte:

new york
cielo coperto temperatura in rialzo, a
wall street
si masturba l’etica dello scambio.
un nuovo buon giorno cittadini newyorkesi
anche oggi qua e là ingorghi per le strade
carreggiata chiusa direzione...
Brooklin
file.

La città natìa, Pesaro, prima, nel quarto movimento del poemetto le maree, è detta una «landa troglodita» e il poeta non sa che farsene del suo «misero tramonto da quattro soldi». Poi, nell’atmosfera onirica delle cronache:

pesaro diviene
il capitolo 3 del vathek di beckford. neogotico,
a spirale, come squarci di un guerriere epico,
un campo di concentramento
per intellettuali.

Presentandosi quale paladino degli ultimi, Ferri fa pensare a una sorta di Batman della poesia, costretto a muoversi in una Pesaro-Gotham, provincia dell’Impero miasmatica, un “cavaliere oscuro” nemico dei «dèmoni neri furbescamente divini», «i ladri, i farabutti, i nuovi vegliardi», che «non fanno l’amore sino al midollo con la miseria, / piuttosto preferiscono daikiri, nelle lunghe / notti estive, hanno autisti imbellettati / per rotte panoramiche [...]», un Batman senza muscoli però, né capitali per acquistare equipaggiamenti stellari, armato solo di sigarette e di alcol.

Con un’irresistibile naïveté Ferri utilizza tutti i luoghi comuni del maledettismo poetico: dall’ossessione del viaggio “esotico” (nel suo caso, si tratta di incursioni nei paesi dell’Est europeo) alla fuga dalla “noia”, dalla propensione per le droghe alla ricerca del ristoro da parte dell’«anima sconfitta» nella «calda notte» in cui placare «il suo tediare antico» (le maree, VIII). E con sfrontatezza riprende i motivi picareschi di Rimbaud, gli slanci rivoluzionari di Majakovskij, la musicalità on the road dei poeti della beat generation. Irresistibile, fin quando non diventa retorica stantia: «Ilio! Come sono giunto a voi! / nelle volte incendiarie della notte, / spandendosi i sensi / in un sogno universale, i ricordi solitari delle città / si susseguono, / sgorgando / in caduta». In questi casi si potrebbe ripetere quello che Alessandro Baldacci notava nell’antologia Parola plurale (Sossella, Roma 2005), parlando degli ultimi versi di Gianni D’Elia (da Congedo della vecchia Olivetti a Bassa stagione): «L’interessante squilibro, l’oscillazione senza armonia, o di armonia sibillina, del poeta fra gesto vitalistico, “mito della realtà” e pulsione postuma, affanno lirico-conoscitivo risulta così, a tratti, cedere terreno a una mitizzazione (non più problematica) della propria poetica e della propria maniera stilistica».

Il rischio è quello corso dai romantici milanesi, come Berchet: retorica e grottesco non voluto. Un esempio dal quarto movimento di cronache: «buongiorno Adriatico! giardino / chiatta sfavillante, minestra di gabbiani / misura di piombo e d’uragano». L’uragano è un fenomeno caraibico, che può essere associato al tranquillo Adriatico solo a patto di voler mitizzare quest’ultimo, in uno slancio neoclassico. Neoclassicismo anch’esso inconsapevole, che emerge nel terzo movimento di adieu, mon amour: «marinai, poeti, cantonieri e troie; / loro mi chiedono, unti dalla schiuma sporca / con i calli duri a fumare nella notte eterna / una parola, che li renda eterni...» - come può sognare l’oraziana eternità poetica chi mostra di provare un senso di perdita assoluta e nel quarto movimento del canto del borderline osa affermare «così come tutto è / in due parole: fumo e abbandono...»?

Sebbene ancora ancorato a un mito egotico ri-decadente, con la sua attenzione alla realtà extra-individuale, extra-domestica, internazionale e la sua propensione al canto, la poesia di Ferri si allontana in parte dalla propensione ombelicale, narcissica, di tanti poeti nostrani. Eppure l’Io poetico non riesce ancora a farsi Noi, né ad annullarsi veramente, e in uno slancio ingenuo di disperata vitalità elude il problema delle forme: esiste una retorica dell’eroe, della storia, della realtà, inaccettabile per qualsiasi orecchio moderno, che richiede, se non proprio una «conflittualità frontale nei confronti delle strutture linguistiche ereditate», come richiesto da Nevio Gambula nei suoi commenti al mio post, un approccio consapevole e problematico.
A meno che non si consideri la versione scritta della propria poesia soltanto una partitura, come gli spartiti musicali o gli stessi poemi epici originari, insomma un supporto in vista dell’esecuzione orale (il vero spazio in cui si giocherebbe il conflitto linguistico): l’invasamento aedico che prende Ferri durante le sue performance, non a caso spesso accompagnate dalla musica, esalta infatti la retoricità dei testi e fa emergere tutta la vis etica e affabolatoria dell’autore. La dimensione performativa del Poetry Slam e della lettura musicata sembrano, in effetti, più appropriate alla poesia epica, se tradizionalmente intesa: ciò non significa degradare la componente testuale dell’opera, ma considerarla nella giusta prospettiva, la prospettiva dell’esecuzione e della condivisione. A questo proposito Capecchi, nel testo citato, individuava un’altra caratteristica, comune alla poesia epica italiana degli ultimi quindici anni, nella «chiarezza linguistica, associata a una sovversione sotterranea, forse con ancora più forza legata all’oralità, intesa come luogo primario in cui si nasce e forgia la lingua, il verso». In questo senso, il lavoro sull’oralità che tanti poeti stanno compiendo ora in Italia e nel resto del mondo potrebbe essere associato alla ricerca di una nuova lingua per raccontare il mondo. Una lingua che, però, deve essere cosciente del suo inevitabile porsi all’interno di una “tradizione dell’oralità”, per non ripetersi.

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