Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
Un buon frammento di quel che resta, oggi, della poesia lo si può trovare nelle breve composizioni liriche di Domenico Brancale pubblicate sotto il titolo L’ossario del sole (Passigli, pp. 126 Euro 12,50) anche se l’impegno dell’autore a fuggire ogni tentazione novecentesca è pressoché radicale.
Nella nota che sigilla il volume Michele Ranchetti scrive che non ci viene rivelato da chi siano dette le parole che in questi versi funzionano come lapidi scolpite, fogli che volano nel vano tentativo di abitare il vento. A fronte, la versione in dialetto, più inventiva e colorata, non risolve il problema anzi lo complica, mentre qua e là qualche lampo dello stile ci dice che tutti i legami non sono stati recisi, che le rovine illuminate sono quelle di cattedrali barocche o di altri sontuosi ruderi, distrutti dal tempo, da una guerra o da qualche misteriosa apocalisse. In questo deserto nominare le parole equivale a tradirle, esse hanno infatti perduto senso e suono, mentre i versi si contraggono avendo smarrito la consolazione della rima e di ogni altro abbellimento, così che il problema che ci resta è decifrare, in qualche modo, ciò che siamo stati in un tempo imprecisato e privo di rimpianti. È una poesia, quella di Brancale, che si fa ossessione, infinita ripetizione; chi scrive sembra mettere in fila le parole su una strada di una infinità di diramazioni che è vano imboccare; e questo procedere, forse volutamente distratto, si fa stile, si anima e scintilla. Poi, improvvisamente, in questo mondo morselliano, compare il suono di una saracinesca che si abbassa, il latrato di un cane o il canto lontano di qualche vecchia e orrida sirena, di robot appesi ai pali della luce.
Il paesaggio è scomparso ma restano i ricordi di quel mondo che un’accorata pietà tende a riportare faticosamente alla luce. La retorica di certe strofe è parodistica; la poesia non può abbandonare, pena l’annullamento e il silenzio, la sua storia antica e misteriosa, da Omero all’Ecclesiaste fino a Benn o Eliot. E Ranchetti giustamente osserva come queste non siano poesie per poeti o lettori di poesia, è difficile, se non impossibile, infatti, riconoscervi modelli, incasellarle, come vorrebbero i critici, nello schedario dove tutti prima o poi devono trovare la loro collocazione, per la gioia di coloro che redigono manuali e assegnano voti e punti perfino all’Ariosto.
Come pochi altri autori giovani che si affacciano al nuovo millennio, Domenico Brancale recide drasticamente i rami che ancora lo legano alla tradizione, soprattutto a quella novecentesca, compiendo una operazione forse temeraria, ma indispensabile per riaccendere «il fuoco della lingua», per liberare la poesia dai drappi che la avvolgono, dalla passamaneria accademica che àncora la funzione consolatrice dei versi, la loro vena di disperazione. Il contrasto tra i versi di Domenico Brancale e quel che l’editoria ci fornisce in questi ultimi tempi, in tutta Europa, (ma la poesia italiana è la più vitale) è tanto più forte quanto più si distanzia dalla produzione di quei poeti, che approfittando spesso della pubblicità fornita loro dai mass-media, tentano di riconquistare un ruolo perduto, una funzione di cantori purché sia, quando è evidente che, ormai, non c’è più nulla da cantare. Le poesie di Brancale, nota Ranchetti, somigliano ai sassi scagliati sulla superficie del mare, che rimbalzano anche sette volte prima di immergersi; forse il loro è un breve volo, ma colma la misura del possibile. E «la traccia si fissa nella memoria come una luce improvvisa».
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