Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
Cesare Pavese, ridateci la sua Odissea
2008, anno del centenario della nascita di Pavese. Si discute e si discuterà molto, in occasioni pubbliche di vario tipo, sulla personalità, la figura e l’importanza dello scrittore di S. Stefano Belbo, in questa occasione. Ad esempio a Roma, il 19 marzo alla Casa delle Letterature, si è tenuto un incontro sull’attualità di Pavese, organizzato da Fabio Pierangeli e Maria Ida Gaeta. Mostre a Roma e a Torino su Cesare, pubblicazioni recenti di lettere (ad esempio la corrispondenza con Chiuminatto, curata da Mark Pietralunga: Cesare Pavese and Anthony Chiuminatto. Their Correspondence, University of Toronto Press 2007) o di documenti giovanili intriganti, come è il caso del diario adolescenziale del 1922 Dodici giorni al mare, curato dalla infaticabile pavesista Mariarosa Masoero per l’editore genovese Galata, piccolo e raffinato.
«Nell’agosto del 1922 un Pavese non ancora quattordicenne trascorre dodici giorni di vacanza al mare in un campo scout e affida al diario d’obbligo il resoconto dettagliato della sua "avventura"». Così illustra la curatrice, e aggiunge particolari che ci riempiono di interesse per questo ingenuo testo del ragazzo Cesare. Il mare, infatti (la vacanza è a Celle Ligure), sarà oggetto di riflessione controversa, sgomenta e proiettiva, del Cesare adulto. Ma già a questa altezza: «il ragazzo comincia a sognare quei "mari del Sud" di là da venire». Cesarino progetta anche viaggi meno esotici, come ci ricorda la Masoero: ad esempio quello architettato su un veliero da carico attraverso il Mediterraneo. Pavese scrive in una lettera: «il mio itinerario ideale sarebbe di arrivare fino a Smirne radendo l’Africa e toccando l’Egitto o attraverso le isole greche». Non se ne farà nulla. Del resto tutti i progetti di viaggio pavesiani più o meno cadranno nel vuoto, massime quello negli Stati Uniti dove lo scrittore avrebbe dovuto insegnare alla Columbia University (e su questo c’è ampia documentazione nel carteggio con Chiuminatto, che abbiamo citato sopra). Insomma, già nel Pavese tredicenne troviamo il ribollire del mare di Moby Dick e la contraddittoria aspirazione al viaggio disperdente e insieme al radicamento mitico nel proprio paesaggio langhigiano.
Pubblicare gli inediti è allora l’impegno principale per la rinnovata diffusione della conoscenza di Pavese e della sua opera. Certo, è necessario completare l’allestimento di edizioni critiche delle opere rimaste escluse dai due volumi della Pléiade-Einaudi, e penso soprattutto ai Dialoghi con Leucò, operetta fra le poche fondamentali del Novecento italiano, bisognosa di una esegesi puntuale che tenga conto della onnivora cultura classicista di Pavese, soprattutto dell’ultimo Pavese immerso in letture e traduzioni di Esiodo, Omero, ma conoscitore anche di Callimaco, Apollodoro (con il commento di Frazer) e altre delizie da specialisti. I "dialoghetti mitici", cui Pavese affida il suo ultimo messaggio, sono un caso unico e inimitabile di prose dialogiche asciutte, poetiche e enigmatiche nella letteratura italiana, da confrontare solo con le Operette morali di Leopardi. Un libro piccolo ma difficile, su cui credo sia il caso di scommettere sempre, senza quelle diagnosi di senescenza o obsolescenza che piacciono tanto alla critica "militante".
Voglio però registrare anche un lamento. Fra gli inediti traduttori dell’ultimo Pavese c’è molto materiale "greco", che si ricollega ai quattro quaderni con versioni da Sofocle, Saffo e i lirici, Omero e altro, quadernetti neri che vengono fatti risalire al periodo del confino calabrese, tutt’altro che ozioso, come si sa. In particolare una traduzione integrale dell’undicesimo canto dell’Odissea, la Nèkyia ovvero la discesa all’Ade, o meglio l’evocazione dei morti, è conservata all’Archivio Pavese di Torino ed è sicuramente databile subito dopo l’uscita dell’edizione di Omero, Odissea libro XI, col commento di Mario Untersteiner, Firenze, Sansoni, 1948, libro conservato nella biblioteca pavesiana con dedica autografa del curatore. Già nell’anno del confino Pavese si era cimentato con il canto della catabasi omerica, limitandosi alla traduzione dei primi 203 versi. Ora nel 1948, anno in cui tra l’altro comincia lo scambio epistolare con Rosa Calzecchi Onesti che tradurrà per Einaudi i poemi omerici sotto la supervisione pavesiana, appena Cesare ha ricevuto il volume con il commento di Untersteiner, di cui conosceva a menadito la Fisiologia del mito, si mette a trasportare in italiano privatamente l’intero libro XI, con quel suo modo peculiare di tradurre "servilmente" e letteralmente, ma con strani tic linguistici, con introduzione di parole in latino, in inglese ecc. (basti vedere la traduzione della Teogonia, pubblicata da Einaudi tempo addietro a cura di Attilio Dughera). Leggiamo l’inizio: "Ma poiché alla nave scendemmo e al mare, / la nave anzitutto tirammo al sale divo, / dentro l’albero mettemmo e le vele nella nave nera" ecc. La Calzecchi Onesti tradurrà così: "E come alla nave e al mare arrivammo, / la nave, prima, spingemmo nel mare divino, / poi albero e vele ponemmo dentro la nave nera". Anche nella versione "ufficiale" per la Einaudi, Pavese esigerà una attenzione al valore letterale della traduzione, per togliere dall’Omero italiano l’incrostazione classicista e restituirlo alla sua sconcertante bellezza e brutalità originaria. Certo, nella traduzione "privata" del ’48, si può notare già al secondo verso quel grecismo raffinato e crudo, "sale divo" per "mare divino", non immemore della dotta nota di Untersteiner (precedentemente Pavese aveva tradotto più semplicemente "mare divo").
Inutile dire che questa Nèkyia pavesiana è di estremo interesse, per il tema della discesa nel gorgo e del muto confronto con la morte, ma anche per la dipendenza dalle note ricchissime di Untersteiner che rinnovano in Cesare tutte le riflessioni sull’antropologia del mito, sul fondo pre-classico del patrimonio occidentale, provocando quell’ingorgo di filologia e autobiografia simbolica che rende Pavese così affascinante per noi oggi.
Ebbene, la casa Einaudi non ritiene opportuno pubblicare nella collana bianca di poesia (dove già erano apparse le traduzioni della Teogonia e del Prometeo di Shelley) questa versione pavesiana, ovviamente e inevitabilmente corredata di note e apparato. Si tratta di roba troppo "accademica", per specialisti, dicono. Sarà, ma allora lasciamo Pavese ai professori universitari? Le potenti case editrici rinunceranno per sempre a intrecciare ricerca scientifica e divulgazione della grande letteratura? Oppure… Non è che alla Einaudi non frega più niente di Pavese? Se fosse così, ci sarebbe da riflettere non poco e amaramente.
(Roberto Gigliucci, "Liberazione", 22 marzo 2008)
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Fabio Pierangeli, docente di letteratura italiana, cura l’iniziativa della Casa delle Letterature di Roma per il centenario. Era nato il settembre 1908
«Voleva essere popolare, però indicava un mondo di simboli eterni»
Cesare Pavese è un autore solare e notturno, conosce l’impegno politico e e pochi altri come lui intepretano la coscienza civile dell’Italia passata attraverso il dramma del fascismo e della guerra. Ma è anche una personalità in preda alla depressione, invischiato in un gorgo di energie psichiche, violente, oscure, indomabili. Subisce il fascino del mito, del primitivo, dell’arcaismo contadino. Sarà per questo doppio binario della sua poetica che dal suo ’900 può parlare a noi lettori del secolo successivo al suo. Un classico moderno al quale è dedicato, in occasione del centenario della sua nascita, un calendario di iniziative alla Casa delle letterature di Roma: "Cesare Pavese: le colline e il sole", progetto di cui Fabio Pierangeli - docente di letteratura italiana all’università di Tor Vergata - è curatore assieme a Maria Ida Gaeta e Franco Vaccaneo. C’è già stato un dibattito inaugurale con Giulio Ferroni, Arnaldo Colasanti, Daniela De Liso, Roberto Gigliucci, Cristiana Lardo, Anco Marzio Mutterle e Gianni Venturi. Si proseguirà nei prossimi giorni con appuntamenti teatrali e cinematografici ispirati all’opera pavesiana. Il primo, mercoledì, è con Baliani: E d’accanto mi passano femmine, sulle donne dei romanzi di pavese. Il giorno dopo, un gruppo fiorentino, i Chille de la Balanza, che sta lavorando a un trittico su Pavese. E, ancora, il 23 aprile, il film Un paese ci vuole con la scenggiatura di Bruno Gambarotta, Franco Vaccaneo, e Vanni Vallino che firma anche la regia.
Forse l’etichetta che più s’avvicina è quella di classico moderno, di un autore che ha testimoniato i drammi del suo tempo, ma ha saputo parlare anche di categorie universali: uomo, natura, morte. Qual è la cifra della sua attualità?
Pavese ha due piste come lui stesso scriverà nel Diario e dirà nell’intervista alla radio, il tentativo di unire la "realtà rugosa" - un’espressione ripresa da Rimbaud - il realismo, il mondo in diretta dei ceti popolari raccontato in Lavorare stanca con la realtà eterna del simbolo. Il suo tentativo maturo era realizzare questa sintesi che chiamava «realtà simbolica». Partire dal contatto diretto con il reale per arrivare a una realtà simbolica. Nelle opere mature, La luna e i falò, La casa in collina, Tra donne sole, Il diavolo sulle colline diceva di esserci riuscito. Mentre nei Dialoghi con Leucò c’era solo il simbolo e nel romanzo Il compagno solo la realtà. Questa è la prospettiva che fa di Pavese un classico del Novecento. C’è una sua frase in cui dice: «Ci vuole la ricchezza d’esperienze del realismo e la profondità di sensi del simbolismo».
Pavese è stato spesso scambiato per un autore antirealista, amante delle evocazioni e del simbolismo. E’ un giudizio parziale, no?
Lo ha fatto la critica più recente. Se però andiamo a leggere manuali scolastici del passato vediamo invece una lettura di segno opposto. Lui stesso, nell’intervista alla radio del ’50, criticava chi lo giudicava soltanto un figlio della scrittura degli americani e del realismo. La critica più recente ha puntato invece soprattutto sul simbolo. Quel che finora non si è visto è l’unione tra realismo e simbolismo, che era la cifra del suo impegno di scrittore.
Altro stereotipo, l’accusa di primitivismo, il gusto eccessivo per il mondo contadino arcaico, il rapporto esasperato col paesaggio natìo delle Langhe. Ma dietro questo localismo non c’era piuttosto la ricerca dello spirito popolare creativo, il tentativo di fare una letteratura vivente?
Questa ricerca del selvaggio, dell’originale ha un sostrato culturale molto forte. Da una parte, c’è il mito, la classicità, il selvaggio, l’origine che derivano dal suo contatto diretto e biografico col mondo contadino. Ma dall’altro è sostenuto da una cultura fortissima. Ci sono molte traduzioni inedite da Omero. Non è un selvaggio alla Dannunzio, ma è motivato da studi classicisti e di etnologia. C’è la ricerca del popolare e dell’autentico ma con un sottostrato di cultura enorme che ancora non siamo in grado di stabilire nella sua rilevanza. Gli inediti ci diranno molto di più. Ma c’è un altro punto. La ricerca stilistica di Pavese ha una forte tensione morale e visti i tempi che corrono oggi, questo rappresenta un motivo di fascino.
Pavese non partecipa attivamente alla Resistenza e questo gli causerà un senso di colpa profondo. Ma c’è persino chi ha contestato l’autenticità della sua adesione all’antifascismo. Non è azzardato?
In realtà, proprio nel periodo che trascorre a Casale Monferrato ci sono tre articoli usciti su un giornale comunista locale non firmati ma attribuibili a Pavese che smentiscono questa tesi. Ma c’è anche una poesia del ’34, Legna verde in cui parla dei "compagni" carcerati. Sono versi che testimoniano un impegno politico già a partire dagli anni Trenta, quando è direttore della rivista «La Cultura». Certo, dopo l’8 settembre Pavese ha qualche incertezza. Ma sono oscillazioni controbilanciate da quei tre articoli scoperti da Mariarosa Masoero. Nella sua personalità c’è il lato politico che lo porta ad aderire al Partito comunista e poi c’è il lato più legato al selvaggio e al mito. Una zona d’ombra ma interessantissima.
Gran parte degli inediti riguardano il Pavese traduttore. E anche qui ci sono delle sorprese, no?
E’ un traduttore poetico, bello e infedele. Partiva da una traduzione letterale per poi aggiungere uno stile proprio. Ma c’è anche l’epistolario e il materiale giovanile. Sono uscite da poco le lettere con l’amico Chiuminatto, emigrato negli Usa, utili per capire il rapporto con l’America. E poi è uscito il carteggio con Muscetta curato da Giulio Ferroni. Ma abbiamo ancora un grande ritardo.
(Tonino Bucci, "Liberazione", 22 marzo 2008)
3 commenti a questo articolo
CESARE PAVESE, 1908 - 2008
2008-03-28 00:08:37|
Ri-cor-diamo, re-sisti-amo, Chi-ar(i)a! :-)
Lui-gi
CESARE PAVESE, 1908 - 2008
2008-03-27 01:32:38|di Chiara Daino
La tristezza è: proprio a Cuneo Luigi [credimi: ho testato con mano - e sgrano di occhi]. Cesare è [cito testuali parole] roba vecchia.
Grazie a chi - resiste. Ricorda. E riporta.
Chiara
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CESARE PAVESE, 1908 - 2008
2008-03-28 03:03:35|di Chiara Daino
Hai un sangue, un respiro.
Vivi su questa terra
RADICE FEROCE, Luigi - per
infrangere. per non perdere.
peR esistere.
Chiar(E)a