Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

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CLASSICITÀ, SUBLIME, AVANGUARDIA. DA UN COLLOQUIO CON FABRIZIO CORSELLI

di Matteo Veronesi

Articolo postato martedì 13 febbraio 2007
da Adriano Padua

CLASSICITÀ, SUBLIME, AVANGUARDIA. DA UN COLLOQUIO CON FABRIZIO CORSELLI

[Pensieri tratti da un’intervista rilasciata al sito «Kinglear» nel gennaio 2007]

1. Più fastidiosi ancora dell’atteggiamento o della posa del sedicente esteta, snobisticamente dedito alla bellezza assoluta, estraneo alla società e al mondo reale, sono, mi pare, quelli degli scrittori (o pseudo-scrittori, uomini di spettacolo o intrattenitori o tutt’al più abili affabulatori prestati alla letteratura, o meglio al mercato librario) che ostentano, con uno spirito disincantato e demistificante oggigiorno ormai facile e scontato, la loro cinica scaltrezza nel servirsi degli strumenti e dei contesti della comunicazione di massa per diffondere la loro vera o presunta arte. Dispiace che anche figure non certo prive di spessore intellettuale e letterario (penso ad esempio a Bevilacqua, alla Fallaci, alla Maraini, ultimamente allo stesso Eco) si siano, in varie misure, prestate a questo gioco, che se da un lato consente di guadagnare un pubblico più vasto (anche se è lecito chiedersi quanti, fra tutti i “non lettori” abituali che, spinti dalla moda e dal martellamento massmediatico, comprano certi libri, a volte in sé e per sé non privi di intensità e di impegno, ne affrontino poi realmente la non sempre così facile e piana lettura), dall’altro rischia di snaturare l’autentica essenza e lo spirito più profondo del fatto letterario e del discorso intellettuale, abbassandoli – avrebbe detto Montale – a «merce da salotto», se non da supermercato. Si dovrebbe per l’appunto, in questo contesto, rivisitare, rispolverandola, liberandola da una certa patina di antico, di artefatto, da una certa remota, e un poco inquietante, fissità da museo delle cere, l’immagine simbolista e decadente dell’esteta, cioè dell’uomo e dell’artista che fanno della bellezza pura, incondizionata, assoluta, suprema, che «mai non ride e mai non piange» come dice Baudelaire, che dona all’uomo e ad ogni essere «une nouvelle mort / plus précieuse que la vie» (Valéry), l’unica vera ragione di vita. Vi sono certo, in questa attitudine, in questa quasi eroica scelta, insidie pungenti, pericoli esiziali: era ancora Baudelaire, forse per quanto in lui restava della passionalità romantica, ad ammonire, nell’École païenne, che l’esasperata accentuazione di una sola facoltà (quella estetica, appunto) «aboutit au néant» (espressione, questa, che non a caso riaffiorerà nelle prose teoriche di Mallarmé), sfocia o si risolve o sprofonda nel niente, nella nequitia, nel vuoto esistenziale. Quel superamento della poesia pura, del lirismo alato, rarefatto, inarrivabile, in nome di una parola che si immerga nel «giusto della vita», che partecipi dell’«opera comune», che torni insomma a parlare delle cose, delle esperienze, a parlare all’uomo dell’uomo dal cuore stesso di una vicenda umana, compiuto, a un dato momento della vicenda poetica italiana novecentesca, da Sereni come da Luzi, si spiegherà forse proprio in questi termini. L’esteta può però essere una figura sempre viva qualora lo si accosti (ed è proprio quello che cercarono di fare i «nobili spiriti» dell’estetismo italiano, primo fra tutti l’oggi faticosamente riscoperto Angelo Conti) ad un altro modello che sarebbe forse da ripensare e da rivisitare, pur con tutte le distinzioni e le riserve oggi opportune, cioè l’«anima bella», la Schöne Seele di cui parlavano tanto lo Schiller di Grazia e dignità quanto il Goethe del Wilhelm Meister, e in cui invece lo Hegel della Fenomenologia dello spirito (questo a suo modo sublime, per quanto caparbio, «agrimensore dell’infinito», come lo chiamava Solger) lamentava un’attitudine sterilmente contemplativa, abbandonatamente teoretica, narcisisticamente ripiegata su se stessa, dimentica della realtà, o meglio del “dover essere” imposto dall’intrinseca razionalità di un reale inteso come processo e tensione dialettici. Va da sé, poi, che ogni meccanica riduzione della dialettica hegeliana a processi meramente economici e storici, ogni schematico e deterministico “rovesciamento dei rapporti di predicazione” che faccia derivare in modo necessitato e cogente l’idea dal reale, escluderà (ed è anche questa, peraltro, pur se riduttiva, una posizione a suo modo legittima) ogni forma di estetismo, ogni culto e ogni difesa della forma pura. Quest’ultimo peculiare tipo di “estetismo” – “assoluto” perché per quanto possibile sovrastorico, intemporale, etimologicamente “sciolto” dai contesti, dalle fratture, dai sommovimenti del divenire storico, eppure esso stesso, si potrà controbattere, frutto di una visione storica in certa misura precisa, eminentemente ottocentesca e borghese, per quanto disgustata dal materialismo, dalla reificazione, dalla mercificazione che la borghesia stessa a proprio vantaggio alimentava – si trova, come mostrava il forse troppo dimenticato Michele Federico Sciacca in un suo libro dottissimo, L’estetismo, Kierkegaard, Pirandello, nelle età e nelle correnti più diverse, da Gorgia e da Platone fino al Novecento nelle sue espressioni più tormentosamente autocoscienti. In questa forma, l’estetismo può essere vivo ancora oggi, anche se la “spettacolarizzazione della vita”, come la chiamavano i situazionisti, rischia di contagiare anch’esso, travolgendolo nelle sue fatue logiche mediatiche (il che non toglie che la riflessione estetologica di uno Stefano Zecchi, ad esempio, in special modo nella sua rilettura di D’Annunzio, possa avere qualche aspetto sostanziale e vitale).

2. Ho parlato di narcisismo. Il rischio dell’estetismo è, appunto, quello di risolversi (per citare il Nietzsche della Genealogia della morale e della Volontà di potenza) in una forma di “risentimento”, di astiosa “calunnia della vita”, di rifiuto di un mondo e di una realtà che non si possono avere, dominare, possedere, per la propria debolezza, per le proprie generose e nobili, ma inafferrabili, idealità, per la propria inettitudine all’azione, per il proprio anteporre la creazione all’esperienza, la contemplazione al fattivo ed efficace operare, il puro sentimento a quell’aggressività, a quella violenza, a quel possesso e dominio, per quanto amorosi e voluttuosi, che l’apertura e la fusione nei confronti dell’altro inevitabilmente comportano. Forse proprio nel solco e nell’intrico di queste idee e di queste situazioni di esistenza si colloca l’oscillare di Leopardi fra l’appagamento nella contemplazione dell’«alta imago», dell’eidolon o del simulacro adamantini e inarrivabili, e il forse conseguente, livoroso, reciproco rigetto – quasi una freudiana Ausstossung, o una lacaniana «forclusione» – nei riguardi del «mondo» che è «fango», che non vale i moti del cuore né è degno di sospiri. Ma qui bisognerebbe forse uscire un po’ dall’àmbito strettamente estetologico, e sottolineare, con Freud e con Lavelle, come il narcisimo, l’ostinato riflettere (si pensi all’Erodiade di Mallarmé), l’assiduo contemplare se stessi chiudendo fuori l’altro e l’esterno, rischino di essere una forma di autodistruzione, un compiacimento egoistico, direi autoerotico, che può portare l’individuo e la psiche alla stasi, alla nequitia, all’implosione, alla nevrosi o alla psicosi da eccesso di autocoscienza. Quello di Narciso è, in fondo, un suicidio, non si saprebbe dire quanto inconsapevole. Ma, per citare il Canto della creazione di Heine, a cui Freud stesso si richiamava, «Creare è guarire». La stessa creazione artistica, che può alimentare il narcisismo esiziale, può essere nel contempo una cura; il tormento e il sollievo possono venire dalla stessa «amante fedele» che è l’arte. Credo che ogni artista autentico – e per ciò stesso autocosciente, consapevole di sé fino al tormento – si dibatta in questo conflitto, in questa dialettica tragici, e che proprio in essi e da essi tragga, infine, la propria vitalità e la propria ragione.

3. Quando si parla di un “girotondo delle Muse”, di una rete e di un intreccio di rapporti e di corrispondenze fra arti differenti, mi viene in mente Debussy, che collaborò tanto con Maeterlinck quanto con D’Annunzio, interagendo fecondamente specie con quest’ultimo, che su indicazione precisa del compositore modificò alcuni passi del Martyre de Saint Sébastien, offrendo un esempio davvero raro di attiva ed operativa collaborazione, di solida e feconda comunanza di intenti fra due artisti uniti, pur se in linguaggi espressivi diversi, quello verbale e quello musicale, da una stessa «sensualità senza carne», da una medesima «sensualità rapita fuor de’ sensi», cioè da una carnalità sempre trasfusa e trascesa in sublimazione estetica e formale. Ma potrei citare, passando sintomaticamente dal simbolismo all’avanguardia, Sanguineti e Raboni, i loro sodalizi con musicisti quali Berio e pittori come Baj e Bueno nel primo caso, con il compositore Guarnieri nel secondo: una poesia pronta a misurarsi con l’”informale” e con l’”atonalismo”, e dunque con quella vastissima e quanto mai problematica dialettica di informe e forma, caos e ordine, colpo di dadi e regola, magma indistinto e mobile del subconscio e cristallizzazione netta e minuziosa, per quanto sfaccettata e chiaroscurale, della creazione, che quei due concetti, di per sé polivalenti e fluttuanti come le esperienze stesse da essi designate, immediatamente evocano. Dal simbolismo (e dal wagnerismo, con la sua ben nota corrispondenza di parola, suono e azione scenica) all’informale: mi sembrano questi i due poli essenziali di quell’intreccio, di quella foresta di legami tra linguaggi espressivi diversi (tutti e tre sospesi, pur se in misure e proporzioni diverse, fra denotazione e connotazione, rappresentazione precisa e suggestione allusiva e volutamente vaga e indeterminata, mimesi ed evocazione – insomma, ancora una volta, fra materia e idea, fra storia ed assoluto) che innervano le linee maestre della modernità.

4. La peculiare “umiltà” – in certo modo salutare e ncessaria – dell’arte è legata, mi pare, ad una nozione a me molto cara, quella dell’autocoscienza critica dell’artista. Umiltà non è affatto, in senso betocchiano, attaccamento alle piccole cose, «fedeltà alla vita», adesione all’immediatezza e alla gratuità dell’esistenza – scelte e atteggiamenti, peraltro, pienamente rispettabili, se non altro sul piano etico. Umiltà dev’essere, nel senso dei tragici greci, senso del limite, accettazione dei confini dell’umano; e accettazione, in pari tempo, quasi per una sorta di amor fati, della propria sorte, del proprio cammino, del proprio essere-nel-mondo – se vogliamo, del proprio “particulare”. Ora, fato del poeta è la forma a cui egli è chiamato, spazio del dicibile da cui è cinto il suo respiro, con i suoi ritmi, i suoi silenzi – le sue «svolte» direbbe Celan. Dante chiamava questo «il fren de l’arte» – limite, linea di confine, soglia sacra, e insieme termine e contorno che determinano la forma, che fanno essere il consistere della parola e del discorso. L’umiltà del poeta è la sua consapevolezza, la sua coscienza, il suo sapersi arrestare ai confini del dicibile, pur protendendosi a volte verso di essi fino al limite del loro oltrepassamento; limite sul cui crinale, a un passo dall’abisso del silenzio, sorge la parola, e trema il filo del canto. Nella sua umiltà è la sua grandezza.

5. L’arte è, in certi casi, devozione, dedizione, sacrificio a un ideale estetico incorporeo, eccelso, forse irraggiungibile. Il dilemma fra letteratura e vita attraversa il Novecento, da Svevo agli ermetici a Montale, che arrivò a dire di essere «vissuto al cinque per cento». Ma chi conserverà la sua vita, dice il Vangelo, la perderà. Il significato della vita di un artista risiede proprio nel suo sacrificio, nel suo immolarsi all’arte. Arte e vita non sono scindibili. Nel suo consumarsi, nel suo perdersi, nel suo dimenticarsi e alienarsi nella forma, nel suo «morire al mondo», la vita dell’artista trova la sua essenza, il suo compimento, la sua entelechia – allo stesso modo che il blocco di marmo deve diventare statua, il silenzio suono, la pagina essere popolata di segni che pure galleggino, o naufraghino, nell’abisso infinito del suo bianco.

6) L’esercizio di qualsiasi arte, così come del discorso critico – che al fare artistico è del resto strettamente connesso –, non può andare scisso da una consapevolezza teorica, e dunque da una coscienza estetica. Non ci si può affidare solo, ingenuamente, alla “fame di vita”, o all’immediatezza dell’esperienza e del vissuto, per quanto intensi. Tuttavia, almeno ai fini dell’atto poetico, più che nell’estetica credo nella poetica (intesa nel senso che questo concetto assunse nella riflessione postcrociana o anticrociana, da Pareyson ad Anceschi): l’artista ha bisogno non tanto di un orientamento generale, di una teoria artistica globale ed onnicomprensiva (che rischierebbero tra l’altro di subire un irrigidimento dogmatico, o addirittura precettistico, com’è forse accaduto, per certi aspetti, con lo sperimentalismo avanguardista), quanto di un insieme di criteri, di orientamenti e di scelte che, traducendosi sul piano operativo, guidino il suo concreto lavoro, e diano ad esso un senso e un fine. Il fiorire delle poetiche è strettamente legato all’autonomia dell’arte: l’arte che non ha più fondamento o legittimazione al di fuori dell’arte stessa è indotta, quasi forzata ad interrogarsi e a riflettere sulla propria natura, i propri mezzi, le proprie modalità: a trovare in se stessa, e in nient’altro, la sua natura, il suo fine, il suo ruolo. “Perdita d’aureola” e autocoscienza del poeta, delegittimazione storica e sociale dell’arte e dell’artista e necessaria importanza, o addirittura centralità, riconosciute alle poetiche sono elementi strettamente legati l’uno all’altro, soprattutto in quella che è stata definita “età post-baudelairiana” e che, almeno sotto questo aspetto, mi pare perduri ancor oggi.

7. Il sublime (di cui oggi molti, sia che aderiscano all’avanguardia e allo sperimentalismo, sia che abbraccino il minimalismo oggettuale, “lombardo”, fondato sulla realtà del quotidiano, ostentano sprezzantemente la negazione e il rifiuto, senza fare per questo nulla di nuovo o di originale) va forse inteso e ripensato a partire dalla sua duplice, intrinsecamente ambigua natura. Il sublime è, etimologicamente, ciò che sta sub limine, sotto la soglia, immediatamente al di sotto di un margine, di un confine, di un limite – per quanto in sé e per sé superiori, elevati, eccelsi –, verso cui la parola o il gesto, la forma o il colore, il suono o il silenzio si protendono quasi eroicamente, senza poterli mai raggiungere – quasi si trattasse di un eterno viaggio verso la linea dell’orizzonte, o magari di una tensione verso il limite inteso in senso fisico, verso la sottile ed illimitata curva astrale che separa la materia dall’antimateria, lo spazio dall’infinito, il tempo lineare dalla sua negazione o dalla sua interminabile regressione. Sublimi sono il discorso, o il suono, o la forma che si innalzano, o cercano di innalzarsi, al di sopra di sé, pur restando – anzi forse proprio perché sono titanicamente ed eroicamente, come Prometeo inchiodato alla rupe, condannati a restare – sempre al di sotto dello spazio o del regno rarefatti, luminosi, innominabili, oscuri per eccesso di luce, che li sovrastano. Né si deve credere che la scelta del prosaico, del reale, del concreto, o al limite dell’atroce, dell’orrido, addirittura dell’osceno, escluda di necessità il sublime. Già Baudelaire e Flaubert sapevano bene che al sublime d’en haut può affiancarsi, in modo solo apparentemente contraddittorio, un sublime d’en bas, che semplicemente alimenta ad una diversa, antitetica fonte una non dissimile aspirazione a trascendere, o a cercare di trascendere (non necessariamente in senso metafisico), i limiti della forma e dell’espressione – senza per questa vanificarle, annullarle, azzerarle, come l’avanguardia rischia a volte, forse nei suoi esiti e nelle sue applicazioni più meccaniche, manieristiche, direi manualistiche, di fare. La poesia non può, a ben vedere, che essere – nel senso più lato, nella più vasta delle accezioni, nella più ampia raggiera di direzioni possibili – sublime, nel suo tendere oltre il segno, la superficie, la parola, oltre la scorza dello scontato, dello strumentale, dell’ordinario, anche a costo di addentrarsi nelle regioni deserte del silenzio. Sublimi sono, poi (Subliminal Self li chiamavano, prima di Freud, certi psicologi inglesi), l’inconscio, il subconscio, l’Es, l’Autre, che nutrono, per quanto criticamente filtrati dalla soglia consapevole della riflessione e dell’espressione, l’avventura artistica. In questo senso, sorprendentemente sublime non finisce forse per apparire, nel suo attraversare la Palus putredinis per poi uscirne recandone ancora addosso le luride tracce, nel suo invocare la «tenue Ellie», simbolo dell’inconscio junghiano (e dunque, forse, anche di una trascendenza e di un divino rimossi, forclusi, totemicamente “uccisi”?), nel suo necessario richiamarsi a tutta una tradizione – onnivora, compressa, sovraccarica – che non esclude lo stesso Medioevo latino, anche il Sanguineti di Laborintus? Forse bisogna “tornare a Longino”: è lui, nel suo celebre trattato, a ricordarci che la fonte primaria del sublime è la phantasìa, la eidolopoiìa, l’ennóema ghennetikòn lógou, insomma il pensiero o il sogno generatori di parole, immagini, simboli, fantasmi. Una definizione apparentemente tautologica, ma in realtà ancor oggi vivida, duttile, capace di cogliere il nucleo essenziale del processo che, attraverso la mediazione della coscienza critica e della consapevolezza stilistica, dà corpo infine all’espressione artistica. E l’antisublime tante volte ostentato è, forse, simile all’antiaristotelismo della rivoluzione scientifica: rivolto cioè, consapevolmente o meno, non già contro il sublime autentico, quanto contro le sue manifestazioni storiche deteriori, accademiche, esteriormente ed ampollosamente retoriche (al di là del fatto che anche la retorica, anche il semplice, probo, scolastico esercizio stilistico e formale d’impronta classicistica, avevano una loro dignità, una loro rilevanza storica e sociale, un loro rispettabilissimo mestiere, che oggi si sono persi, non saprei dire quanto fortunatamente).

8. Non direi che il mitomodernismo, come vorrebbe qualcuno, sia già morto sul nascere. Esso ha prodotto opere innegabilmente ragguardevoli (basterà qui citare L’Oceano e il ragazzo di Giuseppe Conte o Splendida lumina solis di Rosita Copioli). O forse si può anche parlare di un’ambigua, e direi fatale, nascita-morte del mitomodernismo, privandola però di ogni venatura spregiativa: lo Schiller di Agli dei della Grecia, il Monti del Sermone sulla mitologia, il Leopardi delle Favole antiche (ma si potrebbero citare anche Hölderlin o il D’Annunzio di Alcyone) insegnano che la modernità può riappropriarsi del mito proprio e soltanto a partire dal dato storico della sua morte, della sua lontananza, del suo silenzio – che possono però divenire spazio e semenza di una palingenesi, di una nuova nascita, di una laica risurrezione (solo il seme che muore può dare frutto e solo il tempo che si è perduto può essere ritrovato, fatto proprio, autenticamente vissuto). Personalmente credo che soprattutto certi miti limpidi e potenti, gravidi di risonanze archetipiche e di stratificazioni ermeneutiche (basti pensare a quello orfico, da Pavese alla Cvetaeva, da Milosz a Bonnefoy), possano essere ancora ricchi e fecondi fra le mani di un poeta moderno, essere cioè “universali fantastici” in senso vichiano, fonti e riserve perenni e inestinguibili di significazione e di mitopoiesi.

9. Di contro ad Umberto Eco, che metteva in guardia dai rischi della overinterpretation derivante dall’indebita ed arbitraria enfatizzazione di un dato marginale o dalla lettura fuorviante e tendenziosa di un segno o di un gruppo di segni, la quale può finire per generare una “deriva” ermeneutica tale da compromettere l’intero processo di decodifica e di esegesi dell’opera, i decostruzionisti più radicali difendono invece, provocatoriamente, un certo margine di “diritto alla sovrainterpretazione” che spetterebbe comunque al critico e all’interprete (in tutte le varie accezioni e sedi che quest’ultimo concetto può abbracciare). In effetti, non credo che, almeno nel campo umanistico, e forse nemmeno in quello scientifico (penso al principio di indeterminazione di Heisenberg, al falsificazionismo, all’epistemologia relativistica), possa davvero darsi, come pretenderebbe certo incrollabile accademismo, un’assoluta oggettività. La pretesa “oggettività scientifica” è anzi ancor più arbitraria dell’onesto, dichiarato soggettivismo, perché vuole imporsi agli altri come verità incontrovertibile. Per contro, del resto, un relativismo assoluto rischierebbe di sfociare nello smarrimento, nel caos, nel nichilismo, sul piano estetico non meno che su quelli della religione, dell’etica, dell’ideologia….. In conclusione (ma è difficile, ripeto, pervenire ad una soluzione definitiva), credo che ogni attività intellettuale umana sia, e debba essere, agitata da una problematica, talora tormentosa, ma vitale e necessaria, tensione dialettica fra oggetto e soggetto, principio di realtà e istanza individuale, verità singolare e verità plurali (la Verità, ricordava Anceschi, non deve mangiarsi le verità, che sono tante, molteplici, «che agiscono e hanno agito»), evitando sia la deriva del “pensiero debole”, il relativismo assoluto, il nichilismo, sia gli irrigidimenti e le preclusioni del dogmatismo. Una “sistematicità aperta”, insomma, come insegnava la fenomenologia. Deve crearsi, fra soggetto ed oggetto, quel rapporto ricorsivo e fecondo di reciproco arricchimento, di speculare “aumento di essere”, di rispettiva e mutua crescita ed intensificazione di valore e di senso, a cui si dà il nome di “circolo ermeneutico”, e che abbraccia e coinvolge anche il legame – certo importante, ma non necessitante o deterministico – fra testo e contesto, fra opera e scenario storico. Ma, come ho detto, non è possibile dare una risposta definitiva. Forse l’essenza dell’esperienza estetica ed interpretativa consiste proprio nel cercare questa risposta: giacché l’atto interpretativo, prossimo e simile anche in ciò a quello poetico, non può che interrogarsi ostinatamente su se stesso, e anzi forse si risolve, in definitiva, proprio in quel perpetuo interrogarsi, e in quell’interrogare, attraverso di sé, tramite il proprio specchio limpido o torbido, sereno o cupo, il Lebenswelt, il mondo del pensiero e della vita.

10. Insisterei, in un modo che può forse apparire anacronistico, più sulla perennità, sull’eternità di certi valori estetici, che non sulla cesura o sulla frattura fra antico e moderno, tradizione e innovazione, “museo” e sperimentazione. Il classico è per definizione “contemporaneo” a tutti i tempi, è l’opera che non ha mai finito di dire quello che ha da dire, se vogliamo riprendere una fortunata definizione; la temporalità intemporale o sovratemporale del classico si raccoglie e si condensa, direbbe Dante, in quel punto «a cui tutti li tempi son presenti», è per così dire la plenitudo temporum di un’attesa soddisfatta, e insieme inesauribilmente rinnovata, ad ogni rilettura, ad ogni ripensamento, ad ogni nuova interpretazione. Dante stesso temeva «di perder viver fra coloro / che questo tempo chiameranno antico»; Baudelaire forse non diceva qualcosa di troppo dissimile quando (in pagine su cui ha attentamente meditato Habermas nel Discorso filosofico della modernità) osservava che la modernità cerca di rendersi degna di divenire antichità, e che ogni antichità è stata, a suo tempo, moderna. Per converso, forse non aveva torto chi affermò che ogni storia è storia contemporanea, e che l’interpretazione è un salvifico e salutare “ringiovanimento del passato”, perché ogni epoca non può che far rivivere il passato in sé, rileggendolo attraverso le proprie idee e i propri canoni. L’artista insegue, in fondo, la pulchritudo tam antiqua et tam nova, eterna e proprio per questo sempre rinnovata e rinnovantesi, di cui parlava Agostino nelle Confessiones. L’arte e il pensiero, antichi, moderni o contemporanei che siano, non possono, credo, ardere, cancellare, svellere dalla radice quella trascendenza, quella possibilità di assoluto, quell’apertura metafisica che ne sorreggono e ne scandiscono il perpetuo rinnovarsi nella durata e l’assiduo perdurare nel mutamento. Le epoche, le fratture, le cesure non sono, in fondo, che battiti di ciglia, lampi, brevi riflessi cangianti.

11. Immaginando un museo immateriale, metafisico, virtuale, una specie di Limbo in cui convivano tutte le età e tutti gli artisti, salverei dal rogo fatale la statuaria greca, la pittura italiana del Quattrocento, Cézanne, De Chirico, Morandi, Lucio Fontana, e tutto ciò che è ordine, controllo formale, coscienza critica, disciplina del pensiero e del gesto, equilibrio e misura nella concezione e nell’esecuzione. Brucerei le avanguardie storiche: in fondo avrebbero voluto esse stesse che i Musei fossero bruciati, e il loro agonismo, il loro terrorismo culturale, per riprendere le efficaci definizioni di Renato Poggioli, avrebbero forse trovato proprio in una totale ekpyrosis, in una universale conflagrazione (che a Novecento inoltrato la minaccia nucleare pareva ad un passo dal realizzare), il loro compimento più coerente. La “”museificazione dell’avanguardia” che le nuove avanguardie hanno rivendicato a sé negli anni sessanta è una – del resto consapevole, voluta e provocatoria – contraddizione in termini, che si giustifica essa stessa nel grande gioco alchemico e metamorfico, nel ribollente opus magnum, nell’athanor sfavillante, della tradizione e del canone (o dell’anticanone).

12. Autori ed opere di estetica da salvare, da meditare, da rileggere senza sosta: la Poetica di Aristotele, che – ben la di là degli irrigidimenti della precettistica cinquecentesca, rivisitata nel Novecento da Galvano Della Volpe – mostrò la natura catartica, purificatoria, e insieme la dimensione in certo modo sacrificale, liturgica, rituale, dell’atto poetico; l’anonimo Del sublime, che mostrò la dismisura e insieme il limite, la violazione della regola e insieme il suo porsi, incisivo e dialettico; Graciàn e Tesauro, che additarono alla modernità (prata rident…) le vie e gli intrichi dell’«immense analogie universelle», come la chiameranno i simbolisti; Baumgarten, che prima di Kant marcò lo spazio dell’autonomia dell’estetico, e mostrò che la sfera estetica è un analogon rationis, una facoltà dinamica e contrastata che non si identifica pacificamente con la rigorosa e perentoria ratio ratiocinans della metafisica ma neppure con la totale soppressione di ogni limite e di ogni freno; l’Estetica di Hegel, che tracciò il percorso dell’Aufhebung, e segnò la via non della “morte”, come intendevano e traducevano alcuni, ma del “superamento” dell’arte, che oltrepassa se stessa proprio nel momento in cui accenna a lasciarsi oltrepassare da altre forme dello spirito umano (religione, filosofia), ed entra con esse, in virtù di una sorta di ricorsivo e reciproco Anders-Streben, in vitale conflitto, o in intersecante, e fecondamente contaminante, dialogo; l’Estetica di Adorno, che illumina la “razionalità estetica”, stilistica e insieme ideologica, formale e costruttiva, e che oppone alla “cattiva razionalità”, solo apparente, e in realtà inumana e cieca, dell’alienazione sistematica, la salvifica ”irrazionalità razionale”, programmatica, consapevole, voluta, militante, dell’arte; per contro (ma ad integrazione, e non in opposizione), Arte e scolastica di Maritain, che dimostra come questa razionalità estetica, questa coscienza critica e formale dell’artista non escludano per forza qualsiasi apertura alla trascendenza e al divino, e possano anzi essere eco o riflesso, nel cuore stesso del fare artistico, della medesima facoltà operativa e fabrile, del medesimo supremo artificium che presiedette alla Creazione prima, la quale dovette essere, a sua volta, opera di intelletto e insieme di amore, di sapienza e insieme di volontà; l’Anceschi di Fenomenologia della critica e degli Specchi della poesia, che ha dato dignità scientifica e spessore concettuale alle varie figure e categorie (dal “critico saggista” al “critico poeta”) della soggettività interpretativa; La critica nel deserto di Hartman, che rinunciando coraggiosamente alle certezze dell’Accademia ha mostrato quanto vivi sappiano essere ancora i problemi sollevati dal poème critique, dalla scrittura critico-creativa, riflessiva e insieme espressivamente e creativamente connotata e animata, di Walter Pater, di Mallarmé e di Derrida.

13. Si potrebbe ripetere, con Wilde, che la vita imita l’arte molto più di quanto l’arte non imiti la vita. La vita importa, conta ed esiste, per l’artista in quanto artista, solo nella misura in cui può essere filtrata, attraversata, decantata (non certo edulcorata e mistificata, anzi semmai criticamente riletta, o al limite deformata parodisticamente, nel senso del criticism of life di cui parlava nell’Ottocento Matthew Arnold) in vista della sua trasfigurazione artistica. Altrimenti si cade in forme di “realismo ingenuo” che non mi sembra abbiano più (dopo il naturalismo, e a maggior ragione dopo il neorealismo, e oggi il minimalismo) grande significato.

14. L’”educazione estetica” nel senso più ampio, schilleriano, non dovrebbe certo essere limitata alle arti figurative, ma spaziare su un àmbito più vasto, e divenire, anzi, una sorta di habitus mentis, un “modo di vedere le cose” (per riprendere una delle definizioni più felici che siano state del concetto di stile), una maniera di “essere-nel-mondo” e di porsi nei confronti dell’essere, del tempo, dell’altro. L’educazione estetica dovrebbe insomma fondare un vero ed autentico umanesimo, insegnare a vedere nelle creature, nella natura, negli uomini, nel mondo (esattamente come nelle opere d’arte, le quali non esistono che per essere belle, per offrire piacere estetico, ricchezza spirituale e intellettuale, oblio dei mali, serenità che pacifica o angoscia che purifica), un fine e non un mezzo, una possibilità di essere e di esperienza che deve essere sprigionata e realizzata appieno, più che uno strumento per raggiungere uno scopo mirato, contingente, egoistico. Ma si rischia, dicendo tutto questo, di cadere in una retorica umanitaria o, per così dire, veteroumanistica. Per chi opera nella scuola, questa missione o questa utopia sono divenute – visto l’imperare di modelli di vita individualistici ed utilitaristici, imposti dall’industria e dai media – praticamente irrealizzabili, se non in casi eccezionali.

15. Ancora sul girotondo delle arti. Plutarco, nel De audiendis poetis, definiva la pittura “poesia muta”, la poesia “pittura parlata”. Leonardo, nel Trattato della pittura, ribatteva che la poesia non è “pittura parlata”, ma piuttosto “pittura cieca”, pur concedendo al poeta (in una pagina di cui si ricorderà il D’Annunzio delle Vergini delle rocce) la facoltà, o quantomeno l’ambizione, di creare una «finzione che significherà cose grandi». Bisognerebbe forse ripensare l’antica questione dei rapporti fra le arti proprio a partire da questa idea essenziale e fondante di significazione, e rileggere in questa luce i versi dell’Ars poetica di Orazio che contengono la celebre, e tanto spesso banalizzata, definizione dell’ut pictura poësis: poesia, pittura e musica, cioè, come sistemi di segni: segni tendenzialmente più astratti, convenzionali, concettuali nel caso della parola, meno strettamente vincolati, invece, ai referenti concettuali e alle formalizzazioni astratte, convenzionali, arbitrarie, in quello della pittura (peraltro capace, ben più della parola, di rappresentare in modo diretto, immediato e universale una figura, uno scenario, un oggetto), e del tutto incorporei, alati, puri, eterei, nel caso della musica (“metafisica in suoni più pura della stessa ragione”, secondo Schopenhauer), e nondimeno capaci essi stessi di evocare, per mimesi, onomatopea, suggestione figurativa, aspetti della natura, dell’uomo, del mondo, e tutt’altro che privi, come dimostra il Leitmotif wagneriano, della facoltà di veicolare quelle valenze simboliche, o anche semantiche, indagate oggi dalla semiologia della musica. Proprio la semiologia delle arti mostra quel “continuum semiotico” che lega fra loro messaggi e linguaggi artistici diversi. Come già intuivano i simbolisti, è possibile, per via analogica, una traduzione dei messaggi e dei simboli, delle idee e delle suggestioni, dall’uno all’altro di questi linguaggi. Anche se la musica e la pittura difficilmente potranno avrere la precisione concettuale del linguaggio verbale, né quest’ultimo attingerà mai l’evidenza plastica e rappresentativa della forma figurativa o l’incorporea suggestione evocativa del segno musicale (pur potendo presentare, con quest’ultimo, come mostra ad esempio Debussy a contatto con i versi di Mallarmé o di D’Annunzio, o Wagner con la sua “opera d’arte totale”, con la sua sinergia di Wort, Thon e Drama, salienti affinità ed omologie strutturali, e in senso lato anche semantiche), nondimeno uno stesso clima, uno stesso spirito, una stessa temperie, forse anche una consimile imagery potranno, all’interno di sistemi culturali particolarmente ricchi, maturi, coesi, in una parola classici, riflettersi, rivelarsi, venire alla luce in forme e linguaggi artistici diversi.

16. È difficile trovare, dare un senso all’arte; altrettanto alla vita. Forse ci si deve rassegnare – mi si perdoni il gioco di parole – alla loro completa e profonda e desolata insensatezza, fare di quella stessa insensatezza un senso. Diceva Jaspers che, se l’essere è nulla, se infine, in ultima analsi, come vuole Heidegger, «dell’essere ne è nulla», perché arrivare al suo senso nudo, essenziale, «svelato», «non-nascosto», significherebbe privarlo di tutte le forme attraverso cui si manifesta ed appare nel tempo, nella storia, nella molteplicità labirintica, casuale, erratica degli enti – allora forse proprio accettando e vivendo il nostro nulla, facendo vivere ed esistere (ek-sistere) quel nulla in cui l’essere si annida e dimora, noi riveliamo, pardossalmente, il senso dell’essere. La forma artistica, nel suo definire, nel suo finire l’infinità dell’essere facendolo consistere, dandogli spessore e concretezza per cercare di renderlo percettibile, e dunque conoscibile, è luogo eminente di quel nulla, spazio di quell’annichilimento, athanor oscuro e ribollente di quella fusione di essere e non-essere, di realtà e negazione, che alimenta ogni pensiero, e di cui è materiata ogni espressione.

Matteo Veronesi

10 commenti a questo articolo

CLASSICITÀ, SUBLIME, AVANGUARDIA. DA UN COLLOQUIO CON FABRIZIO CORSELLI
2007-02-21 19:26:26|di Matteo Veronesi

A conferma della mia non eccelsa dimestichezza con le nuove forme di diffusione del sapere letterario, ho dimenticato di firmare l’intervento appena inoltrato......


http://it.geocities.com/matteoveronesi

CLASSICITÀ, SUBLIME, AVANGUARDIA. DA UN COLLOQUIO CON FABRIZIO CORSELLI
2007-02-21 19:22:58|

Forse è possibile trovare un punto di riferimento comune in questi termini: il "test continuo" a cui le nuove tecnologie sottopongono il fare poetico nella sua "formatività" (come la chiamava Pareyson) consiste oggi, essenzialmente, nel confrontarsi con le nuove possibili dimensioni della fruizione poetica salvaguardando, però, l’autonomia, la specificità, lo spessore culturale e stilistico che la parola letteraria (comunque scritta prima che pronunciata, definita nella coscienza dell’autore e nella compiutezza della pagina prima che affidata all’alea dell’esecuzione e delle molteplici ricezioni possibili) mantiene in sé e per sé, in quanto tale.

Ma indubbiamente il mondo della "poesia diffusa", che io devo confessare di non conoscere abbastanza, è molto vario e ricco di sfumature; e riconosco che il mio discorso rischia di risultare troppo, e forse indebitamente, generalizzante.


CLASSICITÀ, SUBLIME, AVANGUARDIA. DA UN COLLOQUIO CON FABRIZIO CORSELLI
2007-02-21 10:27:21|di Fabrizio Corselli

Passo per fare un saluto a tutti.

Ritrovo qui il caro Giampiero che nemmeno più mi degna di una risposta via email. Ciao carissimo.

Ora mi è più chiaro perché Marano non condivide i miei scritti. Io vivo nelle nervature delle Facoltà di Lettere Classiche e nella Comunità ellenica laddove la percezione del mito è giustificata, ma non agogno la fama mediatica... forse il Cleos, ma per quest’ultimo si deve fare la guerra.

Veronesi è una grande persona come Marano del resto, di cui ho grande stima.

Un caro Abbraccio


http://www.fcorselli.splinder.com

CLASSICITÀ, SUBLIME, AVANGUARDIA. DA UN COLLOQUIO CON FABRIZIO CORSELLI
2007-02-19 13:34:31|di Christian Sinicco

Matteo, il problema, è anche quello di dire, di indicare, di orientare, l’opera e nell’opera e dall’opera, e ciò lo fai in questa contemporaneità, che ha a che vedere certo con l’influenza delle "correnti" che attraversano la poesia, ma ci sono i mari che ognuno deve esplorare perché inesplorati.
Quando si parla di spettacolarizzazione - questo è una cosa che ho già detto circa due anni fa su universo poesia - si trascura la formatività con cui è stato concepito il testo, che è decisamente il processo che mi interessa, piuttosto che il pubblico, i cui umori sono insondabili quanto le diverse possibilità interpretative delle persone, possibilità che tu appiattisci nella mediocritas del pubblico, e che io non posso che considerare in questa sorta di "vittimismo" o "passività" dell’artista rispetto l’altro da sé, pubblico, massa, etc,... Dalle mie frequentazioni alle manifestazioni, assidue, e che si avvalgono di forte spirito critico e di osservazione, se dovessi accettare la tua tesi, verrebbe fuori che quando legge un Pagliarani, a stento, i suoi testi, e comunica, accidenti se comunica, e il pubblico risponde perché qualcosa muove le persone, ogni persona, tutto ciò è la stessa cosa di quando Antunes fa rock con la propria poesia, e comunica, accidenti se comunica, e muove qualcosa, in modo diverso, ma un modo che il poeta ha scelto tra i molteplici modi a disposizione.
La domanda è: perché in entrambi i casi questi poeti comunicano? Forse perchè la scrittura dell’opera svolge le sue funzioni, indipendentemente dal contesto?
Questo è, oltre il reading, le performance, il canto, il fatto che deve interessare, oltre il proprio piacere personale rispetto una scrittura o un’altra - almeno dal mio punto di vista. Ovviamente la formatività contemporanea esplicità alcune problematicità, anche perché si può assumere come teoresi a supporto della scrittura qualsiasi cosa: di conseguenza siamo di fronte ad un test continuo delle nostre possibilità interpretative in quanto "critici", proprio perché il concetto di scrittura stesso si è modificato. Ma è evidente il test continuo a cui è sottoposta l’opera, da parte nostra, perché l’opera per essere tale ha sì più possibilità che in passato, ma è esposta a molte più intemperie che nel passato, a più sguardi e ascolti: l’amore è una cosa che si differisce e si moltiplica, si libera da sé, non una cosa fissa immutabile nei tempi, ed è così l’operatività dell’arte.

Io credo non ci sia alcun effetto di snaturalizzazione creato da contesti spettacolari o performativi - Shakespeare non avrebbe potuto scrivere nulla, o Dante o Alfieri o Manzoni o Ungaretti (innamorato dei francesi), senza considerare le proprietà di ciò che stavano facendo e che si poteva eseguire, e che altri o loro stessi eseguivano; per non parlare dei processi di elaborazione a cui, come autori, sottoponiamo i nostri testi, oggi. Poi, sinceramente, che il libro trovi l’autore, al poeta non deve interessare: sa che morirà, e ciò che ha fatto, non gli è mai appartenuto, se non nel momento stesso del fare, o del rieseguire, come qualsiasi altra persona.


CLASSICITÀ, SUBLIME, AVANGUARDIA. DA UN COLLOQUIO CON FABRIZIO CORSELLI
2007-02-18 15:49:05|di Matteo Veronesi

Cari amici, vi ringrazio per l’acutezza e la competenza consuete con cui mi avete indotto a rivisitare e a far più chiaro a me stesso il mio pensiero.

Mi sembra che le due insidiose e fondate obiezioni che mi vengono rivolte (legate, in estrema e un po’ banalizzante sintesi, l’una all’importanza dell’oralità, dell’esecuzione, della performance per l’espressione poetica, l’altra alla distanza, all’alterità, all’irrecuperabilità del mondo classico, con la conseguente inattualità di ogni classicismo pacificato, metastorico, non agitato da conflittualità e da tensioni dialettiche) possano in qualche modo essere entrambe ricondotte al nodo essenziale del rapporto fra la parola scritta e quella detta, fra l’assoluto della parola poetica nella sua essenza incorporea e la sua incarnazione, la sua epifania nella presenza del corpo e della voce.

Spesso, chi sostiene, con le sue ragioni e motivazioni, l’importanza del reading, della performance, della lettura, insomma dell’oralità, e la necessità che la poesia recuperi (magari in contesti di fruizione collettiva e corale, per quanto a volte un po’ caotica, come gli slam) il legame con la musica e con gli altri mezzi espressivi, si richiama all’epica e al teatro greci, o alla straordinaria avventura fiorentina della Camerata dei Bardi: in ogni caso, ad esperienze che realizzarono, in vario modo, l’unità e la sinergia delle arti, e che contemplarono un altissimo grado di diretto coinvolgimento del pubblico, nella collettività e nella coralità dell’esecuzione, dell’evento, quasi del rito.

Ma mi viene in mente, a questo proposito, un passo delle Rane di Aristofane (vv. 1323 sgg.) citato malinconicamente da Serra in Intorno al modo di leggere i Greci. Eschilo, impegnato nell’agone poetico con Euripide, chiede all’avversario, coinvolgendo indirettamente anche il pubblico: «Vedi questo piede?». Il riferimento era ad un presunto errore metrico del rivale, ad un inammissibile anapesto. Ciascuno degli spettatori, d’altro canto, come ancora Aristofane dice in un passaggio enigmatico, quasi a voler smentire in anticipo ogni vagamente neoromantico mito di un’oralità e di una collettività spontanee, naturali, “ingenue”, aveva «il suo libro», giungeva all’ascolto e alla visione dello spettacolo e della rappresentazione armato di una consapevolezza culturale che del resto non doveva fare difetto, pur se in un contesto di oralità pura, nemmeno al pubblico degli aedi e dei rapsodi (il cui canto o la cui recitazione nascevano, d’altra parte, da un paziente lavorio di intarsio intertestuale, da un sapiente intreccio di richiami ad una secolare tradizione preomerica, ed erano condotti katà kósmon, secondo un ordine ed una scansione coscienti e ponderati).

Serra rimpiangeva che la sensibilità e la percezione metriche e ritmiche moderne non fossero più in grado di afferrare senza fatica le peculiarità e le sfumature su cui ironizzava argutamente l’antico commediografo. Noi, diceva Serra, «non poniamo l’accento della nostra voce e l’enfasi del nostro spirito là dove essi la ponevano». Noi non leggiamo come loro, la nostra voce non è la loro voce.

Ecco, forse il nodo essenziale è proprio questo. Oggi il pubblico medio (a parere di alcuni per colpa della scuola, a mio avviso semplicemente per l’evoluzione o l’involuzione, naturali o condizionate che siano, dei mezzi e dei canali di comunicazione e della scala dei valori sociali e culturali) non ha più la competenza, la capacità e l’interesse necessari per poter recepire ed apprezzare la poesia, a maggior ragione se si tratti di una poesia densa e complessa (almeno nei suoi esiti più seri e più meditati) come quella contemporanea, e tanto più se attraverso una fruizione di necessità rapida, fluttuante, vaga, inevitabilmente epidermica e superficiale, com’è quella veicolata dall’oralità e dall’ascolto.

Il mio timore, forse infondato, è che l’odierna moda dei festival e dei reading (motivata in certi casi da un sincero intento divulgativo, in altri, forse, da semplici finalità autopromozionali) porti ad una tendenziale metamorfosi del poeta in performer, in moderno menestrello, se non in cabarettista, e che sul valore e sulla sostanza dei testi finiscano per prevalere il modo di porsi di fronte al pubblico, la capacità di atteggiarsi a “personaggio”, se non, più banalmente, l’abbigliamento o l’aspetto fisico.

Non vorrei, in altre parole, che la poesia finisse (senza peraltro che la sua visibilità, la sua risonanza e il suo peso ne vengano accresciuti in modo significativo) per essere fagocitata e snaturata dalle logiche di quello stesso sistema mediatico – piatto, omologato, alienante, ossessivo, opprimente – a cui dovrebbe, per la sua natura di Casa dell’Essere, di Parola autentica, di «osso senza carne in gola al capitale» come diceva Raboni, cercare di opporsi.

Non so come ringraziarvi per avermi fatto scoprire la poesia di Rosaria Lo Russo, «poetrice ovver attressa», che conoscevo, lo confesso, solo di nome: una poesia tutta attraversata dalle tensioni e dagli spasmi di un Verbo, di un lógos spermatikòs, di una “ragione seminale” vivida, mobile, fecondante, che si fa carne e corpo (e dunque voce, parola, gesto, actio) e nel contempo tende al silenzio, all’ammutolimento, alla nullificazione nella tomba delle membra («morte è silenzio o memoria dei suoni?»).

Ma ho la sensazione che, alla lettura solitaria e silenziosa, certi suoi stridori e contrasti da cantabilità settecentesca alterata e straniata (che fanno pensare, in un contesto e in uno spirito avanguardistici, al Lucini dei Drami delle maschere), certi suoi insistiti bisticci e giochi di parole, che senza dubbio ne evidenzieranno le doti esecutive di attrice e di perfomer, non possano che suonare sgradevoli ad un orecchio poeticamente educato.

La «scrittura a voce alta», in certo modo, sconta e paga sulla pagina quella stessa efficacia che certo riveste sulla scena, calata ed incarnata nell’immediatezza e nell’intensità della promuncia, del movimento, del gesto. Proprio le caratteristiche, i tratti stilistici che certo esaltano l’abilità del performer rischiano di indebolire la poesia sul piano squisitamente letterario, sul versante dell’elaborazione testuale autonoma e pura.

Noi non possiamo che rammaricarci, con il Mallarmé di Crisi di verso, che la parola poetica non sia in grado di riprodurre appieno i «coloriti» e le «andature» che «esistono nello strumento della voce». Ma io credo che la musicalità della poesia colta, della lirica d’arte, debba continuare a risiedere nella quieta purezza della pagina scritta, senza cercare l’appagamento e il riscontro, immediati e fugaci, della lettura e dell’esecuzione pubbliche.

La poesia alluderà al suono, al movimento, al gesto attraverso la materia verbale e stilistica che le è propria, senza cercare in essi un prolungamento, un complemento, un potenziamento. Il poeta, per citare McLuhan, deve guardarsi dal divenire un Narciso stregato dalle sue stesse appendici, stordito dai suoi stessi prolungamenti, dagli stessi effimeri ed illusori supporti che ne moltiplicano l’immagine e il messaggio.

La consapevolezza e la maturità del mondo classico non appartengono più all’oralità o all’immagine, reificate ed appiattite da un mercato e da una logica mediatica a cui la poesia non ha né può avere la forza di opporsi sul loro stesso terreno. Guardare al classico significa, oggi, recuperare la stabilità, la purezza, la certezza della scrittura.

Io credo, citando proprio Nietzsche, che la poesia debba tendere in ogni epoca ad un «grande stile» che pacifichi e domi i contrasti e i conflitti (fra cui anche quello fra oralità e scrittura, fra parola e corporeità) pur serbando in sé, nella «profondità della superficie», l’impronta del loro movimento e la favilla del loro stridore.

Noi ora dobbiamo, credo, deporre le nostre parole nel silenzio e nell’ombra, con pazienza e con fede.
E un giorno, forse, «il nostro libro troverà il suo lettore».

Matteo Veronesi


CLASSICITÀ, SUBLIME, AVANGUARDIA. DA UN COLLOQUIO CON FABRIZIO CORSELLI
2007-02-14 21:41:54|di Christian

intendevo bagliori...non bagliri!


CLASSICITÀ, SUBLIME, AVANGUARDIA. DA UN COLLOQUIO CON FABRIZIO CORSELLI
2007-02-14 21:40:59|di Christian

Il concetto di frattura, in questo caso, è decisivo, ma credo che oggi possiamo intenderlo in senso positivo: il bufalo può scartare di lato e cadere, la ferrovia ha la strada segnata, e noi possiamo essere bufalo e ferrovia: ogni autore può moltiplicare la propria formatività in un senso piuttosto che in un altro, o in entrambi i sensi. La disponibilità di opzioni teoretiche è immensa, ed è frutto del passato, ed è verissimo però anche che abbiamo la presunzione di poterlo comprendere con assolutezza, quando in fin dei conti siamo investiti solo da tracce, bagliri, impressioni, più che segnavia lucidi.


CLASSICITÀ, SUBLIME, AVANGUARDIA. DA UN COLLOQUIO CON FABRIZIO CORSELLI
2007-02-14 17:31:04|di Giampiero Marano

"civiltà che nei LORO caratteri di fondo...": intendo dire che le civiltà classiche erano tanto fortemente teocentriche quanto la nostra è tecnocentrica ecc.(gm)


http://www.dissidenze.com

CLASSICITÀ, SUBLIME, AVANGUARDIA. DA UN COLLOQUIO CON FABRIZIO CORSELLI
2007-02-14 13:37:53|di Giampiero Marano

Matteo ha quella preparazione culturale e quella capacità argomentativa di cui il movimento mitomodernista da lui troppo generosamente difeso fu privo, anche perché le considerò entrambe come una zavorra, un intralcio per i suoi obiettivi esclusivamente mediatici. L’altrettanto indifendibile Conte disse una volta che l’avanguardia è finita nella pubblicità dell’acqua Ferrarelle: ancora peggio, se posso azzardare un paragone così impari, è andata al mitomodernismo… Ma paulo maiora canamus: a me pare che il difetto del ragionamento di Matteo sia quello tipico di ogni classicismo, e consista cioè nel minimizzare la frattura, ma sarebbe meglio dire l’abisso, che separa l’antico dal moderno. Noto che fra i molti autori citati non compaiono Hoelderlin, Nietzsche, Artaud, che hanno vissuto questa frattura in prima persona e con un coinvolgimento che forse li ha disintegrati… non credo si tratti di un’assenza casuale. Anche sul tema della nostalgia ci sarebbe da meditare parecchio: quale sincero rimpianto è dato provare per civiltà che nei suoi caratteri di fondo ci sono completamente incomprensibili e dunque radicalmente ostili?


http://www.dissidenze.com

CLASSICITÀ, SUBLIME, AVANGUARDIA. DA UN COLLOQUIO CON FABRIZIO CORSELLI
2007-02-13 12:23:49|di Christian

Secondo me, Matteo, si parla tanto di spettacolarizzazione, ma non si rileva l’impossibilità dell’opera "poesia" senza la sua esecuzione, privata o pubblica, dalla lettura silenziosa al reading alla performance alla drammaturgia al concerto. C’è un pregiudizio enorme sulla spettacolarizzazione in Italia, ma chi è colpevole di questo pregiudizio, poco sa del nostro Novecento e poco comprende ciò che importanti filosofi hanno spiegato riguardo l’opera. Io non credo si possa affrontare un argomento del genere senza approfondire le possibilità dell’artista-poeta contemporaneo, che ha a che fare con le altre discipline. In secondo luogo non parlerei di spettacolarizzazione, parlando dell’artista che si fa "basso" o gioca all’abbassamento - basti pensare ai discorsi di Antonio Porta sulla pubblicità - e sinceramente questo tuo relazionare alla questione del pubblico mi lascia profondamente indifferente, poiché l’impegno dell’artista è di fare bene il suo mestiere (fare l’opera) attraverso tutte le urgenze che sente e con tutto ciò che ritiene indispensabile.
Partire per una fascinazione del genere senza avere per le mani la materia contemporanea, mescolando il tutto con aspetti che non riguardano l’arte, crea certamente il sospetto sulla "spettacolarizzazione", ma è un discorso che non sta in piedi, proprio se vado a pensare al lavoro sul linguaggio, che ne so, della Lo Russo - che è ospitata ora su LiberInVersi tra l’altro - per cui musica e teatro sono stati indispensabili nello scatenare l’energia formativa; basti pensare a Penelope e al lavoro con Luigi Cinque.
Io credo, percorrendo un’analisi di Quirino Principe, che non esista civiltà senza la musica con tutto ciò che le imprime vita, crescita, compresa l’esecuzione; quindi prima di parlare di spettacolarizzazione, forse, bisognerebbe portare a scuola ciò che di interessante osserviamo. E poesia è anche musica. Allora quando i ragazzi mi capiscono la Lo Russo, proprio nel suo essere spettacolare esecuzione, nonostante le difficoltà del linguaggio che propone, vuol dire che ciò era necessario all’opera, e che l’opera è alta anche grazie a questo, non che l’arte (o un discorso su di essa) abbia subito un abbassamento.


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