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Carmelo Bene - Emilio Villa

di Marco Palladini

Articolo postato lunedì 4 giugno 2007
da Nevio Gambula

“… est-ce que vous en savez quelque chose / d’une Resurrection sans fin?” (Letania per Carmelo Bene, Emilio Villa). “… L’hanno portata via l’hanno portata / ’me il tutto ch’è mai stato e poi finì” (’l mal de’ fiori, Carmelo Bene).

Terminano idealmente quasi a chiasmo la Letania con cui Villa nei primi anni ’70 omaggiò il geniale attore salentino, e il polimorfico, ultrabarocco poema che Bene diede alle stampe nel marzo del 2000, due anni prima di morire. L’interrogazione bramosa di sapere qualcosa circa una “Resurrezione senza fine” sembra rovesciarsi nella desolata considerazione che è stata portata via come quel “tutto”, quell’assoluto che “mai” è stato e che, comunque, “poi finì”. Ma che cosa è questo “tutto”, questa imperfetta totalità che dovrebbe o potrebbe aspirare a una infinita resurrezione? È chiaramente per ambedue la Parola. Anzi come precisa Villa sono “… mes Mots troués par ma voix, brûles / dans la baie de mon cœur”. Dunque, la Parola bucata, traforata, trapassata dalla Voce. Ma pure la Parola perenta che, forse, per l’appunto risorge perennemente nella Voce. È il campo dove Carmelo è maestro in scena e che s’impone pure sulla sua pagina: “Voce mia tua chissà chiamare questo / Mia tua chissà la voce che chiamare / ventilato è suonar che ne discorre / in che pensar diciamo e siamo detti / vani smarriti soffi rauchi versi / prescritti da un voler che non si sa / disvoluto e alla mano intima incisi / segni qui divertiti disattesi / sensi descritti testi / d’altri che morti fiati / dimentichi ’n mia tua chissà la voce”. Qui c’è il plesso concettuale e mitopoietico di quello che Villa chiama il “Trout” ovvero il “bucotutto”, il tutto della Parola che transfinisce e ri-incomincia nel buco della Voce, in una sorta di mesmerico circolo ermeneutico all’interno del quale Villa e Bene dovettero evidentemente intendersi al volo. Del resto, Carmelo avrebbe un giorno dichiarato nei suoi tipici modi tranchants: “La grande poesia si rivolge solo ai poeti. Se ne offendano pure i ‘lettori comuni’ ”. È, quindi, in un esclusivo rapporto “tra poeti” che si situa l’incontro tra Villa e Bene che, secondo quanto riferisce Aldo Tagliaferri, ebbero modo di frequentarsi brevemente tra il ’69 e il ’71, giusto nel periodo in cui Carmelo aveva sospeso di fare teatro per dedicarsi unicamente al cinema. (C’è, infatti, nella Letania un riferimento – “in pilicula Salomé” – alla ipercolorata, corrosiva Salomè che Bene girò nel 1972).

È verosimile che i due si odorarono ed “empatizzarono”, sentendo di essere entrambi grandi irregolari, ribelli anarcoidi, soggetti artistici idiosincratici. Entrambi, ad esempio, sono dentro/fuori l’avanguardia. Ne sono dentro perché la loro multiforme azione di sovversione linguistica, di sfondamento del senso comune, di azzeramento nichilistico, di radicale abolizione della dimensione consolatoria del fare arte coincide in larga misura con i caratteri fondanti, con i cromosomi operativi dell’avanguardia novecentesca. Ne sono fuori perché irriducibili alla logica programmatica e “ideologica” dell’avanguardia, perché estranei ai movimenti e ai gruppi che hanno ipostatizzato l’esperienza avanguardistica sino a ridurla ad una comoda rendita di posizione cultural-accademica. È probabile che, in quel crepuscolo degli anni ’60, Villa si approssimò a Bene (“mon ton nom Carmel le Bien du Béné / en vain le souffle du Carmel, Déveine, / ira s’éteindre au bout de poitrine / et la pétillante puissance-prince des saintes saisons Rien…”) perché attratto da una sorta di suo virtuale “doppio”. Il pastiche plurilinguistico, la disarticolazione polisemantica e gnoseologica della poesia villiana che sospendeva il realismo e l’ego lirico, non potevano non rispecchiarsi nella dis-articolazione fonetica-espressiva, nel gioco di massacro teso all’in-dicibile del teatro di Carmelo che sospende la rappresentazione, non mette in scena, bensì “toglie di scena” tutti i puntelli condivisi e i valori comuni del fare spettacolo, fino allo svuotamento del soggetto stesso, tramutato in macchina attoriale, congegno autoestraniante che si performa sull’orlo dell’afasia, che si dà come mancanza, abissale absentia (secondo poeta Bene medesimo: “Siamo fuor del marcire dentro un sacco / morente assenza Resti / di che mai fu In provincia / la stessa che ritorna tourne à naître / in tour-nées poveri guitti / babalbutiti ’n vuota scena da / nostradonnamaria insignificanza…”). Il lombardo Villa e il pugliese Bene che s’incontrano fatalmente a Roma, in anni certo di grande effervescenza artistica e creativa, ma pur sempre in seno all’eterna città mater e matrix del cattolicesimo, sono del resto due eterodossi italici il cui genio poetico è palesemente segnato dallo strappo, dallo scarto, dalla blessure rispetto alla comune scaturigine cattolica. Il transito in seminario di Villa non gli ha lasciato soltanto la dimestichezza con le antiche lingue, ma ha impresso nel tessuto della sua scrittura il marchio di un Logos divinizzante che quanto più ha smarrito il soffio misterico dell’Inizio, tanto più cerca le tracce sincretiche di una phoné dell’Origine assoluta del Verbo. Le visioni del barocco religioso salentino hanno a tal punto impressionato l’adolescente Bene che ne hanno, poi, per sempre formato-informato-deformato l’immaginario artistico (basti soltanto pensare a un film-capolavoro come Nostra Signora dei Turchi), sino a tradursi in un metodo di eresia teatrale che nella dissacrazione oltranzista ricercava accanitamente il dis-senso del sacro, e che nell’effusione della sua ammaliante, magistrale phoné ambiva, come massima prova della “voce-Narciso”, a transustanziarsi nel silenzio dell’Io e di Dio, o meglio dell’Io in Dio (“Tutto mi deborda, mi travalica, mi supera: è proprio laddove mi supero… solo ciò mi interessa… il resto è poesia”).

I passaggi incrociati di Villa e di Bene, artisti patologici e mai patetici, sono post-artaudianamente pellegrinaggi nel deserto della “crudeltà”, ovvero della perdita, della dépense, dove l’attentato permanente al linguaggio si fa “spreco” di corpo-scrittura senza organi, torsione dis-organica verso ogni ordine discorsivo della Ragione. Perciò la tensione “gnostica”, enigmatica dell’opera di Villa si rapprende, in ogni caso, in una dimensione “ateologica”, irrelabile a modalità New Age tanto quanto a recenti derive poetiche neo-orfiche e neo-spirituali. Del pari, la risonanza controrituale e di degenerazione ontologica del teatro di Bene è lontanissima, anzi antitetica rispetto alle etiche ed estetiche para-monastiche del Terzo Teatro di Grotowski e Barba, che Carmelo detestava senza presumibilmente averlo mai visto. D’altronde, se i due guru del teatro antropologico coltivavano l’aspirazione a farsi santi, lui di contro ghignava: “La mia massima ambizione è sempre stata quella di diventar cretino”. Nella Letania è manifesto che Villa celebra l’inarrivabile dismisura di Bene e, quasi come un “poeta innamorato o apologetico”, non esita a esprimere la fascinazione per la hybris della sua oralità (“sa voix Charmehêlée”). E la oralità intrisa di charme di Carmelo è anche, però, una Via, forse addirittura il “Tao della Parola” (“Bien, Béné! c’est ta Voix en Goître / ta Voie Sablé qui t’Alignée / tarissable…”). Villa per l’intero poemetto litanieggia a cascata metaforiche iperboli: “voix diacre voix à raid grenu… Thèbes / règne et défait ta voix toute nue noircie… ta Voix oblique remplie d’air… c’est ta Voix en Gouffre / aux luxures exposées dégorgées vives… folle voix écrite martyrisée sur l’écran… mon ami aimé, le Grand Aimé, des tempêtres!… ma si spalanca / a stuolo colorito cangiante cagionevole / di vocali marinate o convocate o contestate… voix de Matière séduite par scissures / voce di sedotta Orma, voce di fluida Grinta… la vulva vanesia dell’eidolon labiale… vox hi hi, vox hi fi, vox hieroglypha / vox labilis, vox lubidinis, vox labyrintha… anima di voce Assolta all’elabia… carmèlange mélangé en voix et lait… Vocis Voce Iridescens Ridens vix… genio vocis vox Uta maxima Mundi, / flatus Mundi… cosa / conviene di voce alla criniera immatura, demetriaca, / della tua voce… in ultimatis vocibus: / Bene è il / non causato, l’histrio aeternalis, da Eleusi… nell’aria minacciosa velata dal turbine / fonocriptico… l’Epi de Voix en ce qu’elle souffre / la Spiga di Voce in Eleusis… d’son  me même qui s’aime… in pegno e offerta attraverso la / phonosensitivity… en fait de Mémoir phonétisée sur face… et tu iras crier par l’hymène vocal / jusqu’à ce que que ton époux apparaîtra…”. Ma a dispetto della vertiginosa efflorescenza di neologemi, Villa intende perfettamente che la Voce-Via di Bene non conduce ad alcun salutare approdo, anzi (“… en se refuser au Salut…”) essa si sottrae, si denega alla salvezza. Essa si propone, semmai, come una camera karmica di tortura dove l’arte dell’attore viviseziona se stessa e si espone “pornograficamente” in una scena-obitorio abitata dalla nostalgia per qualcosa che probabilmente non fu mai, ossia quella “parola prima delle parole” di artaudiana memoria. Cos’è allora che Villa trova di definitivamente “fraterno” in Carmelo? Probabilmente il suo essere più che attore, sommo Istrione, Sciamano e Clown. Ecco, è questa interfaccia tra lo sciamano e il clown che qualifica anche il cammino poetico villiano, la sua schisi tra un’alta esplorazione filosofica e proto-religiosa e la continua lacerazione del tessuto verbale in sublimate, iridescenti parodie e in irridenti formulazioni e concettualizzazioni.

Se è evidente l’omaggio e il debito per rispecchiamento che Villa riconosce a Bene, assai meno evidente è l’eventuale debito e influenza che Bene dovrebbe riconoscere a Villa. Ch’io sappia Carmelo non l’ha mai citato tra i suoi autori di riferimento: tra gli italiani suoi contemporanei, l’unica menzione che si lasciò sfuggire fu per Elsa Morante. E anche per ’l mal de’ fiori tra gli autori che amava citare quali compagni di viaggio letterario c’erano Joyce, Rabelais, Villon, Arnaut Daniel e poi pensatori del calibro di Schopenhauer, Wittgenstein e il diletto Lacan. Eppure a ben guardare e ben leggere questo poema disforme e screziato che si agglutina in un girotondo mistilingue in cui si annoverano l’italiano e il francese, il vetero-italiano di cadenza tardomedievale e il provenzale duecentesco, e poi vari dialetti dal pugliese al siciliano sino al meneghino, col complemento di espressioni in latino, in greco, in inglese, e in una permanente, fluida sovrimpressione di lingue culte e volgari abbondantemente neologizzate, è difficile non pensare a Villa e alla sua poesia. Bene era bravissimo, con la sua consumata arte di attore-vampiro, ad appropriarsi e reinventare cose altrui o ad occultare e manipolare le sue fonti d’ispirazione. D’altronde, come ricorda Tagliaferri, era solito affermare “poesia è la voce, il testo la sua eco”. Ma qui abbiamo un suo testo che non è solo l’eco della sua voce, è bensì eco di altri testi, tra i quali non è implausibile che possano esserci quelli villiani. Bastano un paio di esempi per rendersi conto della cospicua contiguità tra la scrittura di Carmelo e quella di Emilio: “Ché porannoi! ’n poeticasofia l’ipperuranio / eidetic l’è costì Oh adventurosa inerte / che umani eh li trasforma ’n de’ poveti / Oh trascritti ’n cucito libri d’ore / Stupidità dell’arte! ’n son no more // Dans la poesielavie / le toût que s’offresouffre / éclate jamais de rire / - ah le bleu charme du gouffre! - / n’ importequoiismetriste / de cette vielapoesie / au bain-marie artiste” ; “Lettante tombes pas ’n l’ pecatasc / de suivre auteur ’n so’ qu ’ est vanitaa / Toi! Tu es pas mon frère nì nul d’ rien / que m’ ressemble ’n ça qu’est exparaître / Hélas! c’ s’ha da fa’ pe’ ’nun campare!”.

C’è, in ogni caso, materia per gli esegeti che potranno, un domani, appurare quanto di Bene ci sia in Villa e quanto di Villa in Bene. A me qui interessa segnalare che, al di là dell’occasionalità degli incontri, quello tra Emilio e Carmelo è stato un rapporto necessitato da ragioni cogenti, che si riassumono in un reciproco posizionamento ereticale rispetto agli orientamenti egemoni del sistema culturale, artistico e antropologico italiano. Villa e Bene come eretici e non miscredenti, perché la loro energia oppositiva quantunque innervata da una volontà di dissipazione, di rottura, di interdizione e, vieppiù, di autointerdizione, è sempre a ben vedere nell’orizzonte dinamico della ricerca di uno nuovo piano dell’essere, dove ri-trovarsi sia pure a forza di catabasi, salti nel buio, disparizioni e distonie estreme. E in tale parabola del “diverso sentiressere” ciò che conta è, più che il parlare, l’essere parlati, il diventare canale, anche onirico, di una alterità “metaspaziotemporale” di cui consistiamo anche o soprattutto se non lo sappiamo. Secondo versifica Carmelo: “Noi non ci apparteniamo È il mal de’ fiori / Tutto sfiorisce in questo andar ch’è star / inavvenir / Nel sogno che non sai che ti sognare / tutto è passato senza incominciare / ’me in quest’andar ch’è stato”. In questo comune senso di disappartenenza, le mirabili cadute artistiche di Villa e Bene non sono né finite né definite, ma stanno ancora lì ad incominciare, a fermentare. Sono preziosi semi di un futuro “inavvenire”.

Questo testo di Marco Palladini è stato pubblicato sulla rivista “Hortus Musicus”, anno VI, n. 24, ottobre-dicembre 2005, e su "Le reti di dedalus", numero di Marzo 2007.

1 commenti a questo articolo

Carmelo Bene - Emilio Villa
2007-06-05 13:11:33|di nevious

Carmelo Bene su Emilio Villa:

“Forse il più grande genio che abbia mai conosciuto. Fu Gino Marotta a presentarmelo. Abbiamo vegliato non so quante notti tra damigiane di vino, bottiglie di whisky, accovacciati sulla mia moquette, a sentire musica sinfonica. Emilio Villa era incantato dalla mia voce. Un fissazione, la sua. “Anche da ubriaco, non dici mai parole”, mi ripeteva. Stranamente in sintonia con Eduardo: “Tutti parlano, solo tu sei parola”. un genio supercolto e un artista tutto istinto che arrivarono alla stessa conclusione. Ci frequentammo pochissimo ma intensamente. Un giorno sparì del tutto, si isolò nella sua campagna e da allora non ci siamo più visti.
Stiamo parlando del più affilato critico d’arte del Novecento. I più grandi artisti dell’avanguardia si sono sentiti spiegati da lui. Fece esplodere il caso Burri (fin lì considerato un pittore minore e un fascista impresentabile), su cui scrisse un saggio stupefacente. Le opere di Burri sono, difatti, uno sputo in faccia al concetto di capolavoro, contro l’espressività volgare dell’arte. Sette, otto anni dopo ricevetti una telefonata da Burri. “Hanno intenzione di girare un documentario sulle mie opere. Accetterò solo a condizione che sarà lei a occuparsene”.
Il Villa poeta fu, se possibile, ancora più grande del critico d’arte, proibitivo a leggersi e folgorante. Studioso di filologia semitica e paleo greca, conoscitore dell’assiro, dell’aramaico e del greco antico, mirabile traduttore dei Vangeli e dell’Odissea, una sterminata, vitale erudizione. Ho incontrato recentemente l’editore Scheiwiller a Otranto. Fu lui a informarmi d’aver pubblicato una Letania per Carmelo Bene di Emilio Villa. Non ne sapevo nulla.”

Da “Vita di Carmelo Bene”, Bompiani, pag. 301-302.


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