di Stefano La Via
Stefano La Via si è formato presso le Università di Roma "La Sapienza" e di Princeton.
È professore associato di Storia della poesia per musica presso la Facoltà di Musicologia di Cremona (Università di Pavia).
Ha pubblicato numerosi saggi sul rapporto fra poesia e musica in varie epoche storiche, dal medioevo ad oggi.
Fra i suoi libri:
Il lamento di Venere abbandonata. Tiziano e Cipriano de Rore, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 1994;
Poesia per musica e musica per poesia. Dai trovatori a Paolo Conte, Roma, Carocci, 2006
di Cecilia Bello Minciacchi,
Paolo Giovannetti,
Massimilano Manganelli,
Marianna Marrucci
e Fabio Zinelli
di Yolanda Castaño
di Domenico Ingenito & Fatima Sai
di Maria Teresa Carbone & Franca Rovigatti
a cura di Massimo Rizzante e Lello Voce
Continuo a sognare un Paese in cui non esistano più barriere fra ‘colto’ e ‘popolare’ (d’ora in poi da considerarsi implicitamente fra virgolette). Un Paese in cui pensatori ed esteti, critici e filologi, arbitri del gusto e sacerdoti delle belle arti, una volta discesi dall’alto delle loro cattedre e cattedrali, dai picchi vertiginosi della loro smisurata sapienza, abbiano finalmente smesso di guardare con repulsione e terrore a tutto ciò che possa ‘venire dal basso’. Ma anche un Paese in cui i cultori e gli adepti di tale presunta ‘sottocultura pop’ (così ho sentito più volte chiamarla) abbiano da parte loro riscoperto l’inestimabile arricchimento intellettuale, emotivo, spirituale, che può derivare (anche) dalla lettura, dall’ascolto, dalla contemplazione di una grande opera d’arte letteraria, musicale, visiva, non importa se del passato o del presente.
In ogni disciplina artistica di qualsiasi epoca, a ben vedere, non è poi così facile scovare un capolavoro che possa essere ricondotto a una tradizione puramente colta, interamente scevra di elementi culturali e linguistici, per così dire, alternativi—provenienti, chessò, dalla strada o dalla piazza, dai campi o dal mare aperto, oltre che dal chiuso di uno studio privato o di un salotto accademico. Rovesciando la prospettiva, si può forse constatare un maggior grado di autonomia della cultura popolare—in tutte le sue declinazioni e stratificazioni—rispetto a quella erudita ufficiale. Eppure non sono affatto pochi gli artisti alternativi, d’estrazione apparentemente ‘bassa’, che hanno saputo appropriarsi (anche) della lingua colta ufficiale per dialogare liberamente con le sue voci più alte—producendo, non di rado, autentici capolavori. Un simile fenomeno, come si vedrà meglio in seguito, si è potuto verificare soprattutto nell’ambito di un genere poetico-musicale ben preciso, che infatti—almeno nei suoi esiti più interessanti—rifugge allegramente da ogni rigida catalogazione: parlo, naturalmente, della canzone, e in particolare della canzone d’autore.
Lo speculare snobismo, la reciproca repulsione di cui parlavo in apertura, evidentemente, non riguarda tanto gli artisti quanto i loro fruitori ed esegeti (dal critico specializzato al semplice appassionato, dal più dotto dei professori universitari allo studente appena iscritto). Gli uni, in modo più o meno consapevole e spontaneo, colti o popolari che siano, tendono a creare per unire (e aprire); chi fra di essi ha realmente qualcosa da dire, e intende davvero comunicarlo attraverso la propria voce, è inevitabilmente portato ad abolire le distanze, ad abbattere le barriere, riuscendo non di rado a spalancare orizzonti prima impensabili. Gli altri, muovendosi nella direzione opposta, sono più interessati a giudicare per separare (e chiudere): la loro principale preoccupazione sembra essere proprio quella di tracciare confini netti e precisi, applicare etichette univoche e definitive, ricostruire vecchie barriere o alzarne di nuove; ma così facendo, essi rischiano ogni volta d’impedire all’aria fresca, alle idee più luminose e alle emozioni più autentiche, di circolare liberamente, di mescolarsi, di esprimersi in nuove forme.
Come si può spiegare un simile atteggiamento di ermetica chiusura? È forse una semplice questione di gusto? Non ne sono così sicuro. Un conto è preferire l’opera di un madrigalista o di un sambista, di un liederista o di uno chansonnier, etc. a quella un altro autore, a prescindere dal genere o ambito culturale di appartenenza. In casi simili, sì, tutto si risolve pacificamente con la solita formula: de gustibus, e amici come prima. (Tu vai matto per Sigismondo D’India e Schönberg, Gainsbourg e Gaber? Io preferisco Cipriano de Rore e Strawinsky, Barbara e Conte. Pazienza, parliamone, confrontiamoci, magari scopriamo entrambi di esserci persi qualcosa.) Altra cosa è, dall’una o dall’altra angolazione, cancellare dal proprio orizzonte conoscitivo un intero repertorio, e con esso un intero universo culturale, in ciascun caso (almeno per me) fonte inesauribile di meraviglie; e, di conseguenza, escludere a priori la possibilità che la ricchezza di entrambi gli universi sia (anche) il frutto della loro vitale interazione.
Ecco allora l’appassionato di folk-song o di rock, di chanson o di bossa nova, considerare via via la musica classica, di ogni genere ed epoca, terribilmente noiosa, inutilmente complicata, polverosa, sorpassata; ma ecco anche il raffinato melomane, cultore di monodia antica, opera e liederistica, rifiutare in blocco qualsiasi forma di quella che chiama con sprezzo ‘canzonetta’, genere per lui ‘minore’, sempre e comunque ‘commerciale’, privo di reale qualità o dignità estetica, al quale vale la pena di dedicare tutt’al più indagini sociologiche. Chissà se entrambi i soggetti cambierebbero opinione nell’apprendere, ad esempio, che Monteverdi o Purcell non avrebbero mai potuto scrivere molti dei loro madrigali, lamenti ed arie senza aver ascoltato e studiato le formule estemporanee, vocali e strumentali, già inventate e ampiamente praticate dai cantori e improvvisatori della tradizione popolare; e che, a loro volta, innumerevoli canzoni di Brel e Ferré, Jobim e Buarque, o anche dei Led Zeppelin, Sting, Guccini (sono solo i primi nomi che mi vengono in mente), non sarebbero mai esistite se i già citati Monteverdi e Purcell non avessero composto, quattro secoli prima, i rispettivi lamenti della Ninfa e di Dido.
Potrei fornire tanti altri esempi, ma non sarei affatto sicuro di riuscire ad abbattere, su entrambi i fronti, un pregiudizio culturale così tenace e granitico, così fortemente radicato. Non è una mera questione di gusto, ripeto; e neanche d’ignoranza. Indipendentemente dall’estrazione sociale e dal curriculum, dalla vastità e raffinatezza delle competenze, c’è qualcosa, più in profondità, che inibisce anche il minimo sforzo di apertura, di curiosità, nei confronti di ciò che risuona dall’una o dall’altra parte del muro. Di che cosa si tratta? E che altro si può fare per abbattere quel muro, per ricominciare a far circolare l’aria, soprattutto nel nostro Paese? Chiunque abbia qualche idea in proposito, per favore, batta un colpo. Per quanto mi riguarda, cercherò prossimamente di illustrare con esempi più concreti e particolareggiati come spesso e volentieri la fusione testuale, strutturale ed espressiva, fra parola e musica (il mélos già definito nel post introduttivo) vada di pari passo con la commistione più ampiamente contestuale, culturale e linguistica, fra colto e popolare (qui malamente riassunta nel coltoPop del titolo). Per il momento chiudo dando la parola a due grandi voci della canzone moderna (popolare? colta? o entrambe le cose? a voi la risposta), più di altri capaci di mettere a fuoco in poche e lucide parole il succo della questione.
Così l’esordiente CHICO BUARQUE, poco più che ventenne, nelle note di copertina del suo primo LP (Chico Buarque de Hollanda, RGE, 1966):
Confesso che devo molto all’esperienza compositiva di “Morte e vida Severina” [poema di João Cabral de Mello Neto, 1956, in parte posto in musica per una pièce teatrale del 1965] [...]: quel lavoro mi ha dimostrato una volta per tutte che melodia e parola devono e
possono formare un solo corpo. È stato così che ho cercato di frenare l’orgoglio delle melodie, sposandole ad esempio col fraseggio e la ripetizione di “Pedro Pedreiro”, con la nostalgia e le speranze di “Olê Olá”, con l’angoscia e l’ironia di “Ela e Sua Janela”, con l’allegria e ingenuità di “A Banda”, etc. D’altra parte l’esperienza compositiva pura, senza parole, per il teatro e il cinema mi ha rivelato l’importanza dello studio e della ricerca musicale, mai intesa come ostentazione o come distanziamento dal “popolare”, ma
semmai come contributo allo stesso.
Così FABRIZIO DE ANDRÉ in alcune dichiarazioni rilasciate, con ammirevole coerenza, nei tre decenni successivi (tratte da Claudio Sassi – Walter Pistarini, De André Talk. Le interviste e gli articoli della stampa d’epoca, Roma, Coniglio Editore, 2008, pp. 141, 201, 275, 400):
La canzone è considerata un genere minore e i livori di Gaber non le fanno bene. Montale non ha mai polemizzato con Ungaretti. Io invece non considero la canzone un’arte minore: Orfeo parlava con la lira, Pindaro con la cetra, Cecco Angiolieri aveva degli ‘uditori’ perché s’esprimeva accompagnandosi col liuto. Bob Dylan o Brassens hanno significato
qualcosa di più di certi crostaroli spacciati per gran pittori. Ecco perché non voglio rispondere a Giorgio, polemizzare.
[Intervista di Giorgio Speroni, “Domenica del Corriere”, 1 gennaio 1974, in merito ad una dichiarazione polemica di Giorgio Gaber.]
Un tempo, dicevi di essere un poeta fallito e venduto… "Sì, perché rifiutavo questa etichetta di poeta che volevano per forza appiccicarmi addosso: cercavo soltanto di gettare un ponte tra la poesia e la canzone, e mi servivo della musica come un pittore si serve della tela".
[Intervista di Rosaria Dall’Argine, “Parma mese”, febbraio 1979.]
Per quanto riguarda l’ipotesi di differenza fra canzone e poesia, io non ho mai pensato che esistessero arti maggiori o arti minori ma, casomai, artisti maggiori e artisti minori. Quindi se si deve parlare di differenze fra poesia e canzone credo che la si dovrebbe ricercare soprattutto in dati tecnici.
[Video intervista di Vincenzo Mollica, RAI, 1984.]
Credo che la musica sia un fiume, che si nutre di tanti affluenti, di tanti rigagnoli: pop, classico, jazz, rock, musica etnica. Nessuno è ancora riuscito ad imbrigliare questo fiume…
[Intervista di Cinzia Marongiu, “Sorrisi e Canzoni TV”, novembre 1997.]
Vivete felici
7 commenti a questo articolo
ColtoPop (senza Snob).
2010-06-18 14:33:24|di Daniele Barbieri (guardareleggere.wordpress.com)
Sul principio non si può che essere d’accordo; ma la sua applicazione è complicata, e mette di mezzo convenzioni sociali e propensioni all’ascolto. Io sono di quelli che ascoltano sia De Rore che Boulez che Buarque, e il problema mi tocca da vicino.
Mi tocca così da vicino che ne avevo già scritto anch’io, poco tempo fa, per cui mi permetto di segnalare il mio post sul tema, come contributo alla discussione.
db
ColtoPop (senza Snob).
2010-06-17 17:38:43|di fabio luise
Concordo, é riduttivo il solo argomento ’de gustibus’. E tutto il resto. Al prossimo post.
Finalmente!
2010-06-17 00:28:06|di Maria
Ci faccia ricredere, continui ad insegnarci - e ora grazie a questo blog non solo a noi della nostra piccola facoltà- la "buona" musica. Non quella colta, quella popular, quella rock...quella "buona", quella che fa crescere e che fa riflettere.
"Io non ho mai pensato che esistessero arti maggiori o arti minori ma, casomai, artisti maggiori e artisti minori".
ColtoPop (senza Snob).
2010-06-15 01:30:24|
Fantastico Stefano!!
Hai perfettamente ragione, è molto difficile (ma non impossibile) abbattere quel maledetto muro...
Iniziare a parlarne seriamente in questo spazio che abbiamo a disposizione sul Web può essere certamente un ottimo punto di partenza!
Largo dunque alle idee!
’Abertura’ culturale
2010-06-14 22:46:09|di Medea
inutile dire che approvo in pieno...
da un’educazione classica,rock e metal..ho scoperto-e l’ho fatto con piacere e sete di conoscenza-infinite sfumature di infiniti repertori di infiniti compositori geniali!!!E ringrazio chi,come lei,ha permesso ciò!!!
Vivete felici...ma davvero...
"se todo mundo sambasse seria tao facil viver"
ColtoPop (senza Snob).
2010-06-12 23:49:06|
Bravo La Via!
Di più: bravo, e incazzato. Una bella mazzata a tutti questi sacerdoti del gusto che ci circondano, questi sottrattori d’aria...che provino a rispondere loro!
Il pregiudizio è una brutta bestia, e tocca sempre a chi resiste rimediarne i danni. Tu resisti.
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ColtoPop (senza Snob).
2010-06-29 00:21:27|di Giovanni Guaccero
Caro Stefano, come sai tocchi "il" problema, soprattutto per chi fa musica qui in Italia. Paese dove non manca la qualità del singolo, ma dove forse manca un tessuto sociale di condivisione. E le reciproche chiusure che riscontriamo, non fanno altro che sostenersi a vicenda. E così come non c’è una cultura musicale di base pienamente condivisa, così spesso manca anche la curiosità e la spinta per varcare quei confini che altrove (vedi ad esempio il Brasile) sembrano essere un po’ più indefiniti... Insomma, parlando da compositore sento fondamentalmente l’assenza di un contesto...