di Cecilia Bello Minciacchi,
Paolo Giovannetti,
Massimilano Manganelli,
Marianna Marrucci
e Fabio Zinelli
Cecilia Bello Minciacchi, nata nel 1968 a Roma, vive a Firenze. Collabora all’Archivio del Novecento dell’Università di Roma «La Sapienza» e alla redazione del «Bollettino di Italianistica», alle riviste «Avanguardia», «Istmi», «Poetiche», «il verri», «Semicerchio» e «l’immaginazione», nonché ad «Alias», supplemento del «manifesto». Ha pubblicato, fra gli altri, studi su Marinetti Ungaretti e Nono, Cacciatore, Sanguineti, Manganelli, Porta, Niccolai, Volponi. Di Emilio Villa ha curato Zodiaco (insieme ad Aldo Tagliaferri, Empirìa, 2000), e Proverbi e Cantico. Traduzioni dalla Bibbia (Bibliopolis, 2004). Con Alfano, Baldacci, Cortellessa, Manganelli, Scarpa, Zinelli e Zublena ha curato Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani tra due secoli (Sossella, 2005). Nel 2006 ha curato e introdotto il volume di Vittorio Reta, Visas e altre poesie (Le Lettere). Ha pubblicato l’antologia di scrittrici futuriste Spirale di dolcezza + serpe di fascino (Bibliopolis, 2007). Nel 2009 ha curato il volume delle opere complessive di Patrizia Vicinelli, Non sempre ricordano. Poesia Prosa Performance (Le Lettere). Ha in corso di stampa la monografia Scrittrici della prima avanguardia. Concezioni, caratteri e testimonianze del femminile del futurismo.
Paolo Giovannetti (Milano 1958) insegna Letteratura italiana all’Università Iulm di Milano. Le sue referenze nel mondo della poesia si legano soprattutto agli studi di metrica: nel 1994, con Metrica del verso libero italiano (Marcos y Marcos) ha pubblicato il primo studio sistematico sulle forme italiane non tradizionali. Dentro quel filone: Modi della poesia italiana contemporanea (Carocci 2005) e Dalla poesia in prosa al rap (Interlinea 2008). Si è occupato inoltre di canzoni e (in Nordiche superstizioni, Marsilio 1999) delle cosiddette ballate romantiche. Da qualche anno, anche perché insegna in una facoltà di comunicazione, si è lasciato attrarre dagli ibridi mediali, dalla contaminazione dei modi enunciativi (qualcosa si legge in Retorica dei media, Unicopli, 2004). Ciò che forse spiega la sua presenza in un blog.
Massimiliano Manganelli è nato a Tripoli, in Libia, nel 1966; vive a Roma, dove lavora come insegnante e traduttore. Come critico letterario si occupa prevalentemente di letteratura contemporanea. Ha pubblicato saggi su Ungaretti, Sanguineti, Volponi, Lucini, Porta; con il Gruppo Laboratorio ha curato le raccolte di saggi Luigi Malerba (1994) e Paolo Volponi: scrittura come contraddizione (1995). È stato inoltre uno degli otto curatori dell’antologia di poesia Parola plurale (2005). Ha tradotto saggistica e narrativa dall’inglese (Jameson, Kelman, Canin, tra gli altri).
Marianna Marrucci (1972) è attualmente borsista al Centro Studi Fabrizio De André (Università di Siena), con cui collabora dal 2007, quando ha curato la segreteria scientifica di un convegno sui rapporti tra poesia e canzone d’autore, in cui sono stati chiamati a dialogare critici letterari, musicologi, linguisti, giornalisti, poeti, cantautori, artisti, e i cui risultati sono ora raccolti nel volume Il suono e l’inchiostro (Chiarelettere, 2009). Tra il 2003 e il 2006 è stata tra gli ideatori e i docenti del Master universitario senese di scrittura creativa, in cui si è sempre occupata di poesia e di teatro. Questa esperienza ha dato luogo ad alcune riflessioni poi confluite in un volumetto scritto a quattro mani con Valentina Tinacci (Scrivere per leggere, in uscita per l’editrice zona). Ha curato, sempre con Valentina Tinacci, l’edizione dell’opera inedita di Franco Fortini Un giorno o l’altro (Quodlibet, 2006). I suoi interessi di studiosa, da un decennio, sono rivolti alla poesia contemporanea, alle sperimentazioni di confine e ai rapporti tra la poesia e altri linguaggi. Ha scritto su Elio Pagliarani, Giorgio Caproni, Franco Fortini, Antonio Porta, Fabrizio De André, Lello Voce.
Fabio Zinelli (1965) insegna filologia romanza all’EPHE di Parigi. Le sue ultime pubblicazioni portano sulla poesia trobadorica e sulla dialettologia francese medievale. Si occupa di poesia italiana contemporanea per la rivista Semicerchio. Con Elisa Biagini codirige Nodo sottile, laboratorio di poesia per giovani autori.
di Yolanda Castaño
di Domenico Ingenito & Fatima Sai
di Maria Teresa Carbone & Franca Rovigatti
a cura di Massimo Rizzante e Lello Voce
Nel mio lavoro càpita spesso di essere informalmente reclutati nel ruolo di ‘presentatori’ di opere – in particolare di poesia – fresche di stampa. Sono una persona fondamentalmente gentile, soprattutto uno che non sa dire di no: per cui accetto di presentare anche cose non bellissime, scritte però da persone che conosco, che mi sono simpatiche, che mi sembra abbiano da dire qualcosa sulla vita (al di là della qualità dei loro versi) e con le quali è bello passare una serata. Poi c’è il pubblico, gli amici degli amici, gli organizzatori: presentare un libro è un momento di socializzazione.
Tre opere di poesia ho presentato negli ultimi 3-4 mesi; e in due casi si è verificato lo stesso (nella mia prospettiva) incidente, anche se manifestatosi in modo opposto. A domande da me poste intorno alla fattura del ritmo poetico, è successo che un autore (autrice, nella realtà) dichiarasse che i suoi versi costituivano in origine una prosa, in un secondo tempo spezzettata in linee; e che un autore (maschio) all’opposto confessasse che le sue ‘prose liriche’ dapprima erano versi, i quali però – anche per ragioni di spazio (sic!) – si erano poi compattati in prosa. In nessuno dei due casi, i poeti – nient’affatto giovani, tra l’altro – consideravano le loro scelte un problema. Si trattava di questioni tutto sommato ovvie, naturali, normali nel loro laboratorio.
Ho sul tavolo da mesi due libri importanti, riusciti, molto ben pensati e architettati – due veri libri di poesia, non due raccolte. Guido Mazzoni, I mondi (Donzelli); Massimo Gezzi, L’attimo dopo (Luca Sossella). Si tratta di voci sicure, tutt’altro che eclettiche, opere che certo resteranno, e che giustamente la critica ha apprezzato. Quando le presi in mano, mi accorsi che entrambe erano tramate da una quantità davvero impressionante di ‘falsi endecasillabi’: versi cioè che per un attimo ti portano lì, sulla soglia del ritmo e del sillabismo canonico, ma poi sviano in altre direzioni, con esiti che, certo, possono essere notevoli (vedi l’attacco di Mazzoni: “Ogni voce torna nel risveglio / quando le forze compresse in questo sogno / sono il mondo che attraverso”; o un certo tipo di endecasillabo eccedente – dodecasillabo ad accenti regolarmente distanziati – di Gezzi: “Una nòtte spesa màle è poca còsa: / se la guàrdi in filigràna è solo un pùnto”).
E tuttavia. Devo confessarlo. Ci vedo anche una forma di incertezza, di indecisione. E’ come se quei versi non sapessero da che parte collocarsi: se suonare per l’orecchio o suonare per l’occhio. Non c’è nulla di male, almeno in linea di principio. Se per caso qualcuno non lo sapesse ancora, il Novecento ha vissuto su questa ambiguità, e ne ha fatto la propria forza. Il verso di Montale (come quello di Eliot o di Valéry) lavorava per l’occhio ricordando però al lettore le ragioni dell’orecchio. La sua era una sonorità tanto più percepibile quanto più silenziosa, cioè virtuale, difficilissima da realizzare. Provate a ‘dire’ davvero ad alta voce, chessò, l’intera “Non recidere forbice”; e vi accorgerete che vi sfugge da tutte le parti, che la fonicità che conoscete fatica molto a trasferirsi nell’oralità. Con il primo Ungaretti va persino peggio: L’allegria è, di fatto, impronunciabile.
Oggi, versi scritti in modi che a quella tradizione si rifanno rischiano di lasciarci insoddisfatti. Mi lasciano insoddisfatto. E allora azzardo un’ipotesi. Ho l’impressione che da una trentina d’anni a questa parte quella tradizione si stia esaurendo. Una delle manifestazioni di una nuova emergenza ritmica è l’aumento esponenziale di poesie scritte in forma di prosa. Vale a dire poesie che scoronano in partenza l’attesa di sonorità, desublimando ogni idea di ritmo e in qualche modo dichiarando: muto sono e muto voglio restare, discorso sono e discorso voglio restare. La recente proposta dell’antologia di una doppiamente ossimorica Prosa in prosa (Le Lettere, 2009) costituisce un segnale abbastanza eloquente. E l’altra manifestazione è quella del cosiddetto neometricismo, nelle sue numerosissime variazioni (si può arrivare all’impiego di metriche rigorose ma non sillabiche), che viceversa grida in maniera sin troppo forte il proprio bisogno di oralità. E’ da pochissimo uscito un libro di Marco Ceriani, Memoriré (Lavieri), in cui del fenomeno si fornisce un’esecuzione inedita, se non altro perché l’autore ha fatto un percorso curiosissimo, scoprendo per tappe successive il verso e i metri che si nascondevano ‘dentro’ le sue prose: ha snidato la voce – dico – che in esse parlava sin dall’inizio, e che il non-verso tacitava.
E’ un’impressione, ripeto. Davvero siamo schiacciati da un troppo di sonorità e, insieme, da un troppo di silenzio? E la poesia deve sempre più scegliere fra questi opposti, evitando la zona grigia dell’ambiguità, disertando proprio il “fantasma del verso” su cui tanto avevano lavorato i maestri della modernità? Se la risposta fosse affermativa, saremmo forse di fronte a un segnale ‘mediale’: quello di una poesia che vuole (tornare a) significare con la forza di uno statuto condiviso, eccitatore di senso (e dei sensi), oppure che intende – come nella prosa in prosa càpita – realizzarsi quale virus della lingua, annidandosi nei lapsus che essa stessa procura entro il “tuttoparla” della comunicazione quotidiana.
(Ma quanti versi falsi nello splendido Corpo stellare di Fabio Pusterla, quanti piccoli, riuscitissimi imbrogli del ritmo nelle migliori poesie di Cesare Viviani...)
2 commenti a questo articolo
Con che orecchio odono i poeti, e con che occhio?
2010-11-04 20:21:32|di Daniele Barbieri (guardareleggere.wordpress.com)
I quasi-endecasillabi producono una tensione nei confronti della forma normale, sinché essa è familiare all’orecchio - e la poesia di Montale è intrisa di questa tensione.
Ma dopo un secolo di verso libero le forme normali non sono più tali, perché il nostro orecchio non le riconosce allo stesso modo dei lettori di Montale. Un endecasillabo eccedente non è più percepito dunque come un quasi-endecasillabo, e - a meno che non abbia una forte accentazione interna regolare, tipo doppio senario - non viene più percepito davvero come un verso; a meno che la forma normale non venga portata continuamente e nuovamente all’orecchio. Ma se così non è, quello non è un quasi-endecasillabo, e la sua qualità metrica si perde, non viene sentita. Quindi, a questo punto, tanto vale scriverlo in prosa.
In alternativa, viceversa, si recupera il verso normale, facendo il verso alla tradizione (almeno metricamente). Mi sa che questa dialettica è inevitabile per il verso libero, alla lunga, proprio per il suo essere quasi-metrico: o si ribadisce la norma, o la si abbandona.
Difficile è passare l’intera esistenza senza toccare né Scilla né Cariddi, quando sia l’uno che l’altro sono essenziali per la tua esistenza.
Bel post. Ciao
db
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Con che orecchio odono i poeti, e con che occhio?
2010-11-11 09:30:04|di enrico dignani
Il significante ha le sue idèe
i concetti utili in ordine :
le connessioni ontologiche
il Caso
le occasioni
le convenzioni
e l’aggancio dell’interesse
che ingegnerizza l’azione.