di Luigi Nacci & Lello Voce

Luigi Nacci (Trieste, 1978) è poeta e performer. Nel 1999 ha co-fondato il gruppo de “Gli Ammutinati”. Ha pubblicato in poesia: Il poema marino di Eszter (Battello stampatore, 2005), poema disumano (Cierre Grafica, 2006; Galleria Michelangelo, 2006, con CD), Inter nos/SS (Galleria Mazzoli, 2007; finalista Premio Delfini e Lorenzo Montano), Madrigale OdeSSa (Edizioni d’if, 2008; Premio Mazzacurati-Russo), odeSS (in Decimo quaderno italiano di poesia contemporanea, Marcos y Marcos, 2010). Ha pubblicato inoltre il saggio Trieste allo specchio (Battello stampatore, 2006) e ha curato con G. Nerli Le voci la città. Racconti e poesie per ripensare spazi e accessi (Cadmo, 2008, con CD). Ha organizzato molti eventi letterari e dal 2008 collabora stabilmente alla realizzazione del Festival Absolute Poetry. Redattore della rivista di arti&linguaggi “in pensiero”, ha un piccolo blog: www.nacciluigi.wordpress.com.


Lello Voce, (Napoli, 1957) poeta, scrittore e performer è stato tra i fondatori del Gruppo 93 e della rivista Baldus. Tra i suoi libri e CD di poesia ricordiamo Farfalle da Combattimento(Bompiani,1999), Fast Blood (MFR5/SELF, 2005) e L’esercizio della lingua (Le Lettere, 2009). I suoi romanzi sono stati riuniti ne Il Cristo elettrico (No Reply, 2006).
Ha curato L’educazione dei cinque sensi, antologia del poeta brasiliano Haroldo De Campos.
Nel 2001 ha introdotto in Italia il Poetry Slam ed è stato il primo EmCee a condurre uno slam pluringue (Big Torino 2002 / romapoesia 2002).
Ha collaborato, per la realizzazione delle sue azioni poetiche, con numerosi artisti tra cui Paolo Fresu, Frank Nemola, Luigi Cinque, Antonello Salis, Giacomo Verde, Michael Gross, Maria Pia De Vito, Canio Loguercio, Rocco De Rosa, Luca Sanzò, Ilaria Drago, Robert Rebotti, Claudio Calia.
E’ Direttore Artistico di Absolute [Young] Poetry - Cantieri Internazionali di poesia.

pubblicato domenica 13 novembre 2011
Ei fu ( e speriamo mai più sia...) Per festeggiare (in attesa di iniziare a piangere per chi lo sostituisce) piace al sottoscritto offrirvi (...)
pubblicato giovedì 21 luglio 2011
C’è un aspetto particolarmente interessante nel dialogo che, a proposito di poesia, si è sviluppato tra Bordini e Mariani su queste medesime (...)
pubblicato domenica 6 marzo 2011
Da quando, nell’ormai lontano marzo del 2001, introdussi in Italia il Poetry Slam, a proposito di Slam ne ho viste di cotte e di crude. Dal (...)
 

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a cura di Massimo Rizzante e Lello Voce

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Contro i ciofani poeti

di Luigi Nacci

Articolo postato mercoledì 15 settembre 2010

Contro i ciofani poeti


Nasci! Sii madre e padre per te stesso!
Attila József


Ho cominciato a scrivere l’anno in cui si è sciolto il Gruppo ’93. L’anno in cui è morto Emilio Villa. L’anno in cui Berluskaiser è sceso in campo per appoggiare un missino che oggi gli ha voltato le spalle. Quando sono approdato all’Università, nella seconda metà degli anni Novanta, non ero che uno studentello alle prime armi di una città di confino, di una Facoltà di Lettere decadente, che leggeva Ungaretti, Apollinaire, Govoni, Prévert, Pavese, Ginsberg, Kerouac, e che in cuffia ascoltava De Andrè, Fossati, Guccini, il primo Venditti, il primo Ruggeri, nient’altro che i soliti cantautori. I soliti poeti da Oscar Mondadori, e se non da Oscar da antologia adolescenziale. Sapevo nulla o quasi – il quasi dei manuali sottoscolastici, dell’infrasentito dire, del rapido mezzoletto in piedi in biblioteca – dei Caproni, Sereni, Fortini, Pasolini, Porta, Giudici, Rosselli, Zanzotto, Villa, Balestrini, Sanguineti, Pagliarani, Raboni, Roversi, Spatola, Vicinelli, Costa, e ancor meno – nemmeno un sentitodiresottovoce – della generazione dei FrascaMagrelliValdugaVoce (e di quelli venuti dopo nemmeno l’ombra di un borino fuoristagione). Informarsi su quanto stesse accadendo nel resto dell’Itaglietta attraverso internet was niet possible (ché Internet non c’era, e se c’era, era per me come il Cubo di Rubik; per non parlare dei mobile phones: il primo Motorola di mezzo chilo mi passò tra le mani alla fine del 1997), e le poche letture che venivano organizzate nella mia ridente necropoli erano per lo più sfoghi ottocenteschi, rigurgiti pocomitteleuropei, in un italiano malmasticato o in un annacquato vernacolo da oratorio.

Tutto è cambiato quando ho incontrato altri disperati scriba come me, nel 1999. Coetanei che vagavano incazzati e senza pace, saltando da un’oscura via di città vecchia all’altra. Non ci conoscevamo, eppure tutti desideravamo la stessa cosa. Cresciuti in un cimitero a cielo aperto, rivolto ad un gloriosasburgico passato che forse così gloriousfranzjoseph non era mai stato, volevamo mettere le parole nella voce, e volevamo che la voce cacciasse le lapidialvalorletterario e i bustidibronzo sei o sette piedi sottoterra. Volevamo tirar fuori la voce, e pure la faringe all’occorrenza, e pure lo stomaco, e gli intestini. Abbiamo iniziato a leggere in pubblico perché ne sentivamo la necessità, era una questione fisica, muscolare, duodenale. Pensavamo che le nostre parole avrebbero potuto rovesciare i volti tristi e cadenti che incrociavamo sugli autobus, avrebbero potuto mettere sottosopra i caffè storici, avrebbero svegliato le menti migliori della nostra generazione dal torpore che avvertivamo diffondersi mediaticamente. Niente di nuovo sul fronte euocentricoccidentale: pensavamo che la poesia avrebbe potuto ribaltare il mondo, come un devastante refolo di bora nera (Visions! omens! hallucinations! miracles! ecstasies!). Non sopportavamo la poesia da torretta d’avorio, da salottino volemosebbene, da iniziati orfici, da specializzandi in filologia romanza. Sì perché un po’ di poesia italica del secondo Novecento avevamo iniziato a leggerla anche noi. E ci sembrava spesso così lontana, spesso così muta, spesso così romanomilanese, spesso così arrogante nella propria pretesa di essere illuminante e foriera di chissà quale veritas accessibile a quattrogatti. A me (forse potrei dire a noi) piaceva gente tipo Majakoskij, gente che non le mandava a dire. Non solo gente così, anche gente che le cose le diceva pianopiano, o che le sussurravasssst, ma mai gente che le mandava a dire. E così nemmeno noi ce le mandavamo a dire. Ci criticavamo, ci facevamo male assai, ci distruggevamo, perché nella voce avevamo nidiate di Fenici, e ci piaceva abbattere l’opera altrui per vedere nascere qualcosa di nuovo dalla cenere. Avevamo poco, poco o niente in comune poeticamente, ma avevamo tutti la stessa cupiditas fremente di comunicare, fosse in strada o in un’osteria o in un teatro, dovevamo parlare a qualcuno, anche se oltrelerighe, anche se con parole imprecise, ritmi sbagliati, rime facili. Il passo successivo, quello di organizzare dibattiti, rassegne, festival, è stata la naturale prosecuzione del cammino precedente. Volevamo confrontarci, guardare in faccia gli altri poeti che leggevamo in riviste o antologie, parlare con loro, ascoltare le loro voci, volevamo criticarli e volevamo da loro essere criticati. Abbiamo chiesto finanziamenti, imparato cos’è la burokrazia, cercato spazi, noleggiato attrezzature, prenotato alberghi, riempito ristoranti, portato a zonzo poeti ciofani e non, li abbiamo sistemati nei nostri letti, gli abbiamo offerto i nostri vinelli, regalato i nostri versi ciclostilati e li abbiamo pagati (quasi sempre, anche se poco, anche se un misero rimborsospeseminime). Pensavamo che la poesia non fosse solo lì, nella pagina, e nemmeno solo lì, nella voce, ma anche nel corpo del poeta, ragion per cui del corpo del poeta avevamo bisogno (e rispetto!), lo dovevamo toccare, dovevamo mangiare alla stessa tavola, espletare i nostri bisogni nello stesso bagno.
Se non avessi incontrato quegli scribammutinati, se non li avessi cercati, se non ci fossimo cercati a vicenda, forse avrei smesso di scrivere a vent’anni (e forse sarebbe stato meglio, starete pensando, e non fate peccato a pensarlo). Perché di essere pubblicato su “Poesia” non me ne fregava un cazzo. Volevo fare come Cecco: il mondo arderlo, tempestarlo poi annegarlo poi mandarlo a picco. E poi rifarlo.

Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del nuovo millennio bombarolo molti ciofani poeti italioti sono venuti allo scoperto. Alcuni volevano solo mettersi in vetrina, altri invece no, avevano cose da dire, alcuni addirittura sapevano dirle bene, le cose. Basti pensare al furor antologico di quegli anni (e mi fermerò al 2006, perché mi pare – ma smentitemi pure – che di lì a poco la spinta si sia smorzata): L’opera comune. Antologia di poeti nati negli Anni Settanta, 1999; I cercatori d’oro. Sei poeti scelti, 2000; I poeti di vent’anni, 2000; Gli Ammutinati, 2000; Nodo sottile, 2000; Nodo sottile 2, 2001; Dieci poeti italiani, 2002; Nodo sottile 3, 2002; Parco poesia. Primo festival della Giovane poesia italiana 2003; Quattro poeti, 2003; Tutta la forza della poesia. Il talento, l’esperienza, la scintilla, 2003; Lavori di scavo. Antologia di poeti nati negli Anni Settanta, 2004; Di sale, sole e di altre parole. La nuova generazione in poesia a Trieste. Iz soli in sonca in drugih besed. Nova generacija v tržaški poeziji, 2004; Nuovissimi poeti italiani, 2004; If music be the food of love, play on, 2004; Oltre il tempo. Undici poeti per una metavanguardia, 2004; Nodo sottile 4, 2004; Parco poesia 2004; Conatus. L’utopia come bisogno, la poesia come soluzione, 2005; Poeti circus. I nuovi poeti italiani intorno ai trent’anni, 2005; Samiszdat. Giovani poeti d’oggi, 2005; La qualificazione urbana e altre poesie, 2005; Il presente della poesia italiana. Nuova antologia di poesia contemporanea, 2006; Poeti italiani underground, 2006; Incastri metrici, 2006. E come non menzionare i Quaderni di poesia italiana curati da Franco Buffoni, usciti a partire dal 1991 e arrivati quest’anno al decimo volume? Si potrebbero aggiungere alla lista altre antologie, nonché quelle che hanno messo accanto ad autori ciofani autori più maturi, come ad esempio Ma il cielo è sempre più blu. Album della nuova poesia italiana (2002), Poesia del dissenso I e II (2004, 2006), Nuovi poeti italiani (in "Nuova Corrente", n. 52, 2005), o La linea del Sillaro (2006). Che si tratti di antologie generiche, in cui gli autori vengono selezionati sul gusto easy del curatore, attraverso criteri localistici, anagrafici, oppure antologie di movimento, nate per sostenere un’idea forte di poetica, poco importa. Un montón de jóvenes aveva voglia di tirare la testa fuori dal fango e dire ‘oh, estoy aquí y tengo palabras para vosotros!’ (cfr.: qui). E c’erano anche ciofani che avevano voglia di tirare fuori dal limo le mani, gli avambracci, i bicipiti. Per fare riviste, o metter su convegni, reading (e negli ultimi anni anche slam). In Piemonte il gruppo della rivista “Atelier” e Sparajurij; in Lombardia Dome Bulfaro, che è riuscito a coinvolgere molti ciofani attorno al progetto di PoesiaPresente; in Veneto il Porto dei Benandanti; in Friuli Venezia Giulia Gli Ammutinati e i Trastolons; in Emilia Romagna il gruppo della rivista “Daemon”, e poi iniziative promosse da ciofani come Matteo Fantuzzi, Stefano Massari, Alessandro Ansuini, Isabella Leardini; in Toscana si sono dati da fare ciofani come Francesca Matteoni, Marco Simonelli, Alessandro Raveggi, Martino Baldi; nelle Marche Luigi Socci, Valerio Cuccaroni e il gruppo NieWiem, Alessandro Seri e il gruppo di "Licenze poetiche"; nel Lazio i ciofani che hanno collaborato a Romapoesia, oltre a "La Camera Verde"; in Puglia Rossano Astremo e Luciano Pagano. Et cetera et cetera. Sono nomirandom, i primi che mi sono venuti in mente (non si offendano quelli che ho dimenticato), ciofanpoeti che ho conosciuto, che ho visto lavorare alacremente per un’idea, non per soldi e nemmeno per gloria, ché la gloria transit e la poesia non ti fa andare in television, né trasforma un contratto a progetto in uno a tempo indeterminato. Molti dei citati continuano ancora, hanno ancora voglia di sporcarsi le manine e, a dire il vero, più tanto ciofanpoeti non sono. Stiamo tutti veleggiando verso i 35, i 40, 45. Per il mercato del lavoro siamo fuoritarget, invece per il pascolo della poesia nostrana, dicono i pastorelli attempati, siamo ancora vitellini che si devono fare (e poi un giorno, d’un tratto, ci diranno in quarta di copertina che siamo manzidamacello, ah).

Quello che mi domando è dove si siano ficcati i ciofani poeti d’oggi. Quelli di 20, 25 anni, per intenderci. Oh ciofincelli, dove siete finiti? A parte scrivere versi, leggiucchiare, studiacchiare all’Università, lavoricchiare precariamente (uh, non vi lamentate mica, perché anche noi, che abbiamo più artrosi di voi, c’abbiamo dei contratti da sputarci su fino a esaurire la saliva), scribacchiare su feisbuk e sui vostri privateblogs, farvi anche giustamente i cavolfiori vostri, aparteciò, in do’ state?
Le letture, i dibattiti, i convegni, i festival, li organizzate?
Le riviste, di carta o sul web, le case editrici, clandestine&senzaschei, le fondate, le fate?
Con altri poeti, per demolirvi amorevolmente, vi incontrate?
I poeti che vi hanno preceduto, li leggete?
Le poesie degli altri, le recensite, le stroncate?
Una poetica, ce l’avete?
Il mondo, lo volete fare a pezzi?
Rispondete a queste domande, ciofinetti, e solo poi dite se avete pubblicato un libro. Il libro viene alla fine. Serve a mettere un punto. Se pensate che il poeta debba starsene tutto il dì placidamente disteso sul sofà di casetta a rimuginare sul destino proprio e delle altrui genti, allora non rispondete. Se pensate che il compito del poeta si esaurisca nella scrittura, non rispondete. Se pensate che il poeta non debba insudiciarsi le mani, non rispondete. Lo so che vi provoco. Ma vi provoco perché vi voglio vedere in faccia. Perché mi interessa sapere se esistete. E per piacere, non dite che tutto è cambiato, che apparteniamo a generazioni differenti, che la vita l’è dura. Non dite che avete spedito i vostri dattiloscritti a qualche seniorpoet e non avete ottenuto risposta. Non dite che avete chiesto a qualche seniorpoet di essere invitati e non siete stati invitati. Non dite che i seniorpoets non vi danno spazio. Non dite quello che gli altri non vi danno. Dite se voi date qualcosa. Se avete braccia per sgomitare. Se avete orecchi per seguire il consiglio del dèmone (Stănescu): trasforma il tuo occhio in parola / il naso e la bocca / l’organo virile della procreazione, / i piedi che corrono, / i capelli che hanno preso a imbianchire / la troppo spesso curvata spina dorsale – / trasformati in parole, in fretta, finché c’è tempo!
Dite se avete la forza di lottare per quello che desiderate o se (Guy Debord) vi accontentate di desiderare quello che trovate.

106 commenti a questo articolo

Contro i ciofani poeti
2012-03-31 13:07:22|di jingoebbels

ti rispondo: SUCA


Contro i ciofani poeti
2012-03-26 03:16:12|di hPkggmNiOuzSAfVjK

A notedcia que eu recebi essa ansmea, e9 que esses certificados sf3 sere3o entregues no prf3ximo EREL, porque ainda este3o esperando a liberae7e3o de um dinheiro Sinceramente, eu tf4 envergonhada com a organizae7e3o dos estudantes da UFPI quanto a isso, eles ne3o este3o nem aed, e o Raimundo fica fazendo a gente de idiota, sf3 adiando isso.Se vcs ne3o ficarem em cima disso, ngm vai receber esse certificado!!


Contro i ciofani poeti
2010-10-13 15:54:49|di Marco Aragno

L’unica cosa che mal sopporto dell’articolo - e che forse è la principale - è l’idea di un dover essere della poesia. Come se per far poesia un poeta debba necessariamente cercarsi una dimensione pubblica e/o associativa: readings, festival, discussioni, poetry slam ecc, tutte cose che nel mio piccolo ho sperimentato almeno una volta, ma che difficilmente hanno alimentato la mia scrittura. Vivo in un cesso di provincia che è quella napoletana. Ho scritto e letto quasi tutto tra le quattro mura di casa mia. Ho coltivato la mia passione in piena solitudine. Ho letto tanto e mi aggiorno in via esclusiva su internet. Ma solo per questo la mia poesia dovrebbe essere meno poesia di quelli che vivono in piazza? Se la mia fosse una scelta tanto radicale quanto la vostra? Rivendico la libertà di scrivere e vivere la poesia in qualunque modo e in qualunque luogo. Ancor più oggi, in un’epoca post-moderna, post-strutturalista e post-culturale.

M. Aragno


Contro i ciofani poeti
2010-10-02 16:19:12|di renatamorresi

bello questo thread, mi ha fatto l’effetto di una terapia di gruppo

ho capito 2 cose:

1) - di “ricambio generazionale” c’è bisogno nell’attivismo culturale locale
(dopo dieci, quindici anni ti stanchi – mi ricordo di aver perso tre chili per un festival e d’essermi ammalata per sfinimento... alla fine persino se fai il poeta devi ammettere che il corpo non sempre je ’a fa’)

- di “ricambio generazionale" non c’è bisogno nella poesia in sé (sempre che una cosa simile esista)

- di “ricambio generazionale” ci sarebbe tanto bisogno anche nelle istituzioni culturali, ma sappiamo bene che da lì non si schiodano

2) il sapere è cambiato – l’ha cambiato (anche) la diffusione del sapere, il “grande numero”. Conoscere tutto quello che succede, conoscere tutti, leggere tutto quello che esce, e così via, è impossibile (o forse è possibile solo a un paio di geniacci col turbo, con cui mi complimento). Essere “vicini” a tutti è impossibile. E i progetti “quantitativi” sono molto difficili, ci vuole grande forza per sostenerli (nonché: fondi). Dobbiamo cercare di venire a patti con i nostri limiti oggettivi.
Al tempo stesso dobbiamo pensare a modelli di organizzazione e condivisione articolati e flessibili. (S’è mai pensato a forme di consorzio, per esempio? Con cui andare a chiedere, visto che in Italia non ci cagano, fondi europei?)

Abigail Adams, la moglie di uno dei firmatari della dichiarazione di indipendenza, il futuro presidente John Adams, scrisse al marito che stava partecipando alla costituente dicendogli “remember the ladies”, le donne che non erano lì a prendere decisioni, eppure costituivano un buon terzo della cittadinanza (l’altro terzo erano gli schiavi).
Mi è venuta in mente questa cosa per dire: ricordiamoci allora di quelli che non “possono” parlare. Perché sono timidi, sono soli, sono insicuri, sono impauriti o disgustati o imbarazzati dalle nostre voci scafate. Da giovani (ma non solo) spesso ci si avvicina alla scrittura proprio per questi motivi.

Malgrado tutto conoscersi è una questione delicata, e per rompere gli indugi occorre tempo, riflessione. Sono sicura però che se ci cerchiamo abbastanza, ci troveremo. Qui nel nostro gruppetto di Macerata ce ne sono almeno quattro di giovanissimi (appena diplomati) che hanno voglia e talento. Magari finiranno a fare chi l’attrice, chi il professore. Per ora stanno (anche) con noi e incontrarli è stata una gran cosa.

Un saluto caro,

renata


Contro i ciofani poeti
2010-09-26 11:04:24|di enrico dignani

a me sembra che le costruttive cattiverie se devono essere dette bisogna saperle dire e argomentare, che il fare e il dire di questo blog sia bello e bravo e in prospettiva fantastico non ci sono dubbi, gli adolescenti, belli e freschi siccome il mattino un po alla volta ci vorranno bene.
L’importante è progredire.


Contro i ciofani poeti
2010-09-25 22:59:59|di lorenzo carlucci

ciao nacci, c’è un passaggio logico che non capisco nel tuo testo. non è che se non li vedi fare alcune di quelle cose che speri facciano (leggere chi li ha preceduti, leggersi tra loro, stroncarsi) vuol dire che non le fanno. magari le fanno senza voglia di farle in luogo pubblico, o di mandartelo a dire a te.

il tuo ragionamento può valere (in parte) solo per le altre cose che tu speri che facciano: "Le letture, i dibattiti, i convegni, i festival, [...] Le riviste, le case editrici, clandestine&senzaschei, le fondate, le fate?" ma ora, francamente..., queste possono piacere a te ma non sono esattamente necessarie alla poesia. e l’alternativa non è che sia solo restare sul sofà... ci si può "insudiciare le mani" anche facendo altre cose (che so, facendo volontariato, girando il mondo, !lavorando!).

infine (spero in linea di principio che ciò ti rassicuri): per esperienza (esperienza da redattore della vecchia edizione di *questo* blog) so che diversi poeti di vent’anni quando leggono *questi* blog di poesia hanno il voltastomaco (tipo: ma perché parlate così? ma fate sul serio? ma perché perdete tempo così?). salutare, non credi? e ragionevole.

ciao!
lorenzo


Contro i ciofani poeti
2010-09-24 00:06:05|di absoluteville



francesco terzago rilancia, qui:
http://www.absolutepoetry.org/Figli...


Contro i ciofani poeti
2010-09-23 11:30:52|di Fabiano

@ ANNARUZ

Giuseppe (GiusCo)non itendeva redditizio in senso pecuniario, quanto invece morale, formativo, utile, etc etc ..


Contro i ciofani poeti
2010-09-22 14:57:22|di annaruzz’

se fare traduzione (poetica e letteraria) è redditizio, caro giuseppe, non so se bazzichi tanto quell’ambiente...


Contro i ciofani poeti
2010-09-22 14:45:06|di Il fu GiusCo

Penso che i giovani poeti italiani, date le condizioni di partenza (scuola sfasciata, canoni liquidi, eccesso di rumore), debbano anzitutto lavorare sullo sviluppo del loro senso estetico, quindi su quello del loro senso critico. Imparare cioe’ a distinguere l’ottima poesia dalla buona, dall’accettabile e dalla scadente.

Il compito e’ difficile perche’ le istanze sono varie: sociali, culturali, contingenti. Non esistono le Olimpiadi della Poesia ne’ rilasciatori di patenti certificate. Il pericolo di legittimarsi in un piccolo bozzolo e’ dunque concreto se non si tengono gli occhi aperti; se non si legge/conosce cioe’ la poesia mainstream anzitutto italiana e poi delle diverse aree linguistiche a noi culturalmente vicine. Questo prima di rimboccarsi le maniche e iniziare a lavorare sulla propria voce.

L’aspetto operativo invocato da Nacci e Fantuzzi e’ un lavoro diverso, da operatori culturali, da militanti in campo aperto; puo’ servire ma non legittima la voce. Alla fine contano solo i libri che scrivete, conta l’unico libro (o altro supporto) che raccoglie la vostra produzione e testimonia il vostro percorso. Potete maturarlo a 20, 30, 40, 50, 60, 70, 80 anni o 90 anni, ecco perche’ Guglielmin scrive che non esistono generazioni ma siamo tutti contemporanei.

Sinceramente non mi aspetto molto dai singoli nomi, mi aspetto invece almeno una-due opere poetiche originali che valgano lo sforzo collettivo che tutti voi iniziate a sostenere. A chi tocchera’ in sorte, e’ abbastanza casuale, le istanze sono appunto varie e non tutte concorrenti.

Ma ci sono altre strade per fare poesia, maggiormente redditizie del sognare e sperare di essere Rimbaud: c’e’ ad esempio la traduzione, cosi’ come la critica, cosi’ come appunto il lavoro sul campo. In tempi come questi in Italia e in generale nell’Occidente europeo, il poeta e’ sempre un poeta-x, un poeta-equalcosaltro (poeta-insegnante, poeta-critico, poeta-narratore, poeta-traduttore, poeta-operatore, anche poeta-editore). Magari educarsi ad un mestiere all’interno della letteratura, uno di quelli detti, potrebbe aiutarvi a maturare il senso estetico e la capacita’ critica per poi calibrare la vostra voce propria.

E in tutto questo dire ho volutamente lasciato da parte l’aspetto umano, la contingenza contemporanea dell’emotivita’ superficiale che regola tante relazioni, tanti rapporti e anche tanti giudizi sulla poesia. Quello e’ necessario che impariate a riconoscerlo da voi e non sara’ nessuno di noi ad insegnarvi come fare (perche’ ognuno di noi ha prodotto anche tanto tanto rumore e dalla base di quello si permette di parlare).


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