Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
Cominciamo a esercitare un pensiero critico sulla critica letteraria, e diciamo in prima istanza, a costo di apparire paradossali, che della critica letteraria possiamo anche fare a meno. Anzi, diciamo pure che non ne possiamo più dei dibattiti sulla critica letteraria, delle polemiche e degli scontri su questa disciplina che appare così secondaria, così lontana dalla gente comune, anche dalla media dei lettori - in Italia così pochi - e infine così regolata da interessi di casta, che nel nostro paese si traducono subito in interessi di cosca. Proviamo a dire, provvisoriamente e provocatoriamente, che della critica letteraria al momento non ce ne frega niente. E meno che mai della critica cosiddetta militante. Ripetiamo con Luigi Russo che ogni buona critica è critica militante, e basta. Quale saggio più militante dei Preliminari sulla lingua del Petrarca di Contini? E ancor più militante è l’edizione critica del Fiore e Detto d’amore dello stesso Contini. E quanto militanti sono i grandi libri di Curtius sulla Letteratura europea e il Medioevo latino, di Bachtin su Rabelais o Dostoevskij, e infine, per citare il capolavoro dei capolavori, il Dramma barocco tedesco di Benjamin, nato per l’accademia e subito morto per una snaturata accademia?
Nessuno si offenda, ma io non credo a una critica militante come scienza e professione con statuti autonomi e definiti. Non esiste né un dono né un mestiere particolari per analizzare testi contemporanei piuttosto che antichi. Direi che non esiste neppure la "contemporaneistica" come scienza a sé, se non rischiassi così di essere linciato dai membri appunto di una casta peraltro in molti autorevoli. Io credo che sia illusorio quindi il primato della contemporaneistica come ambito epistemologico di elezione per la militanza. Si è necessariamente militanti se si ha qualcosa di importante da dire, così come si è necessariamente filologi se si vuole interpretare una qualunque sorta di documento, di prodotto artistico. Direi allora che "critica militante" e "contemporaneistica" sono due miti da sfatare, o almeno da riconfigurare.
Ci aiuta a capire cosa veramente intendiamo quando ci diciamo contemporanei l’ultimo libro-lezione di Giorgio Agamben, che si intitola appunto Che cos’è il contemporaneo? , appena pubblicato da Nottetempo. Leggiamo: «contemporaneo è colui che percepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda e non cessa di interpellarlo, qualcosa che, più di ogni luce, si rivolge direttamente e singolarmente a lui. Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo. […] Percepire nel buio del presente questa luce che cerca di raggiungerci e non può farlo, questo significa essere contemporanei. […] Cioè ancora: essere puntuali a un appuntamento che si può solo mancare».
Per Agamben, sulla scia di Nietzsche ognora riletto, il contemporaneo è inattuale, o meglio intempestivo. Vero contemporaneo è chi non coincide perfettamente con la contemporaneità, non vi si adegua, ma ci vive dentro più che mai perché «intinge la penna nella tenebra del presente». Il vero contemporaneo è in continuo asincrono con la contemporaneità, perché vi si relaziona «attraverso una sfasatura e un anacronismo». Ecco che essere contemporanei diventa, diremmo noi, il contrario di essere contemporaneisti. E d’altra parte essere militanti significa così militare in un esercito indistinguibile se non con occhiali secolari e sovratemporali al contempo.
Il pensiero critico invece ci interessa sempre, eccome, massime in questo momento storico. E massime, mi sia concesso di dirlo, in questa università, proprio in questa Sapienza che ha visto recentemente rispondere al pensiero critico di alcuni l’ululato del pensiero unico di molti. Se il pensiero critico che si esercita sulla società, sui comportamenti comunitari, sulle istituzioni, soprattutto sui padri e sui finti padri che sono in realtà fratelli maggiori assassini, Caini travestiti, se il pensiero critico che si esercita sul pensiero unico, sulla civiltà della perenne ripetizione dell’identico (come ci insegnano ancora Adorno e Horkheimer), sulla umiliazione oscena del sorvegliare e punire (come ci insegna ancora Foucault), sulla incapacità di farsi penetrare dall’alterità e quindi sui miti identitari, se insomma questo pensiero critico si esercita anche sul prodotto artistico come sugli altri prodotti umani, allora il pensiero critico è la critica letteraria. E lasciamo stare anche questo termine, critica letteraria, e parliamo di critica artistica, di pensiero sui prodotti artistici, o se volete di critica filosofica dell’arte, come diceva lo stesso Benjamin, e non solo. Critica senza steccati, né cronologici né geografici né disciplinari. Forse solo così potremo recuperare la nozione di critica letteraria dissolvendola in un pensiero critico sulla bellezza e il dolore, sulla grazia e la disgrazia.
L’ultima obiezione potrebbe venire dal pregiudizio anti-estetico. Per cui esercitarsi a criticare la bellezza sarebbe un ozio intellettuale che condurrebbe diritti all’irrazionalismo estetizzante. Ma il punto è nell’esercizio critico del pensiero proprio sull’incrinatura nella bellezza, ovvero sulla bellezza incrinata. Pensiamo al dipinto di Cézanne che sta a New York in cui si vede una casa dal muro incrinato, crepato. Per scoprire il senso della bellezza, che non è mai irrazionale e basta, bisogna cogliere la facies hippocratica della bellezza, e non dimenticare Benjamin. Non per sposare una poetica e assolutizzarla, ma per imparare a farsi investire dalla tenebra che ci viene addosso anche quando osserviamo l’arte classica dell’età di Pericle o quando leggiamo l’ode "Ottima cosa è l’acqua" di Pindaro. Il buio che dobbiamo investigare non è solo quello dell’espressionismo, ma anche quello del classicismo, per intenderci con parole summative. Quindi non dobbiamo temere che il nostro mestiere possa spegnere il pensiero critico annegandolo nella contemplazione gratuita. Tenere viva la complessità e tenere viva la ricerca dell’oscuro, anche quando non sembra tale: ecco il nostro compito.
31/01/200
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