Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
“Regna l’ordine le pattuglie canna in
alto”
E. Cacciatore
1. DEDICATO A …
a colore
che
che cadono, che hanno
la gola secca, che
per istinto si buttano fuori,
o se l’istinto
e la coscienza e tutto il
resto si
intrecciano e
operano
come in un sogno
come in una roulette
fluido caso e controllo
manipolazione cosciente
a coloro che
che cadendo rifiutano la caduta, che reagiscono
all’impotenza, che
pagano col sangue, che non si illudono, che li ritroviamo
nello squarcio, che nella crisi cercano l’uscita,
che
curano
la defezione, che sbagliano
il bersaglio, che
io so dove tirare la pietra
e il momento preciso, non so
come uscire dal labirinto, fuori è diverso, lo so
meglio
o peggio non so, diverso, e ciò mi basta
diverso da questo globale dall’aria trasandata
altro da questa sorte economica
tutt’ora gravida di pericoli
civiltà minacciosa, io so che
una serie di sbarramenti che funzionano come selezione
il succube e l’indottrinato che sono remunerati
paradigmi e modelli che ricorrenti
segni ripetitivi, io so che
consenso e
sicurezza, o anche percezioni più sottili
grotte, ripari, superfici rocciose, nulla sfugge
tutto è compreso, e non c’è esodo
delude la terra promessa
dio non è
più d’aiuto
nel cuore della notte, e
tradendo il pensabile, io so che
fissare una nuova distanza,
aprire un percorso nomade
o è già finita, io so
che serve sradicarsi, che serve
porre altre
domande, non abituali, che
dentro di
noi è la strada
e il deserto, che
deserto come destino, città come mèta, desiderio
come spinta centrifuga,
senso come movimento, senso come chiarezza, senso come ritmo,
è una miscela esplosiva, io so che il tempo rivela la sua
tomba
un rischio di
nullità che è questo
decadere, che è
questo
occidente-ghetto, che
allorché ogni legame, ogni
superficie o sguardo, ogni
valore, ogni teoria, ogni
luogo e ritmo, allorché
tutto è senza significato
la rapidità con cui l’idiozia ci trascina nel suo
vortice
dedicato a
coloro che
che scavano cercando punti di riferimento che
aprono tentativi, anche modesti, di comunicare dissenso che
restando fuori si buttano dentro che agitano una teoria critica
seditio e rebellio, razionalità, sfida, a coloro che a
dispetto di tutto
cercano un altro senso
2. DEDICATO A ROMANO LUPERINI (IMITAZIONE)
Poesia,
verbo, poesia, emozione, poesia, nomi di cose, custodi della tradizione
sostenitori ciechi.
E l’afasia. E l’ostilità verso la
storia. E la consacrazione.
A stento ci difendiamo dal museo, a stento dal feticcio.
Questa è la parola sacra – ci dicono; e siamo in
pochi a bloccare la via.
Per quanti la fama? Per quanti l’oblio? Chi sostiene, chi
nutre il poeta?
Ecco le truppe. Nascondiamoci, presto. La mentalità
affaristica è in arrivo.
S’odono le trombe.
Solo ciò che è chiaro merita di essere salvato
– dicono. Solo ciò che luccica.
Tradizione, regolamenti letterari, intimismo –
l’ombelico del poeta
unica materia. Petrarchismo. E io, che dico io?
Rivolta, certo. Lacerazione, scarto, negazione.
Distruzione e ricostruzione. Ecco quel che suggerisco, io che non ho
niente
da suggerire. Suggerisco altre sfide.
Lautréamont e Villon
Apollinaire e Breton
Majakovskij e Lucrezio
Brecht, Pagliarani, Gòngora,
Cacciatore, Ciabatti, Volponi
i tragici greci e Shakespeare
invenzione di altri modi, non solo
distruzione
parlare nelle crepe del linguaggio
futuro
Quanto resisterò? Poco, è certo. La
Società Letteraria è in agguato. Angoscia
e alterità. Isolamento. Disprezzo e indifferenza. Istoria
fecit saltus:
io salto nel fosso, al buio. Ho il piede nella trappola. Sono nel gorgo.
Ora vengono le truppe con le loro parole innamorate, ora vengono
i dialetti della provincia. Portano
poesia, verbo, poesia, emozione, poesia, nomi di cose, custodi della
tradizione
sostenitori ciechi vengono in truppe e portano
polvere
sapienza
luce
evidenza
cultura
cultura, cultura da bestseller,
cultura volgare, cultura dell’illibertà.
Strepitano forte, applaudono. Il futuro della poesia è nelle
loro
mani
(R.
Luperini, La fine del
postmoderno, Guida editore)
3. DEDICATO A HEINER MULLER
Poesia
concreta, che non s’illude,
radicale perché non evade,
e ignorante; poesia
di teatro, ma non rappresentazione,
poesia della disperazione,
che non approva.
Invenzione di lingua, lingua
intrigante, seminale,
lingua risonante in parecchi significati
invenzione interessata non decorativa
sincopata lingua alterata nuovi sensi
lingua in contrasto.
Al di là della lingua.
Al di là del teatro.
Al di là della poesia.
Al di là di ogni identità.
Al di là degli spazi circoscritti.
Al di là degli spari.
Al di là di dio.
Al di là dei pruriti dell’io.
Al di là del sacro e del codice.
Al di là dell’amore cortese.
Dentro le contese.
Poesia-carne, poesia scortese, come ricerca di rapporti nuovi,
poesia come un brivido di freddo, ch’esce dal panorama
abituale e s’avvia nel vento, al di là del decoro,
dell’innocenza, sempre strisciando
tra un boato e l’altro, al di là
del coro e com’è tremendo
il viso di chi la
evita,
quel viso è una grata, è un abisso, è
un artiglio, è un albero gelato, è una
radice divelta, è l’impietrimento, è
l’ipocrisia, è un deserto di lingua, parla
una lingua radioattiva, arrogante, come quella di un pessimo
allibratore di
borsa. Poesia brutale.
Fecale. Poesia che incede come schianto d’animale.
Poesia che non smette d’ululare, che emette
guaiti, belati, singhiozzi, eretici suoni
favolistici cazzi
pazzi lemmi
macerie
dice
fa.
Senza calma, senza le parole giuste, senza il tono che serve, senza
racconto,
la poesia si scioglie nel grumo, ora preme nella gola e sgorga in
invenzione
fonica, nelle lingue
della voce. Carezza d’acciaio, grido
d’allarme, ninfa desiderante,
putrida, tortuosa, solare
e cantante, la voce
sfida il silenzio, l’afasia, invade
la poesia.
(H.
Muller, L’invenzione del silenzio,
Ubulibri)
4. DEDICATO A ANTONIO ATTISANI
Corri
troppo, Antonio, sei già oltre
la repressione del tempo,
e non hai torto:
si lavora su
ciò che manca
e ciò che
manca è l’attore.
Ma la tua corsa, credimi, anche se solitaria,
è necessaria: senza seguito
tu séguita a cercare, senza premi
continua: ogni gesto
che concedi, anche il meno convincente,
rompe il cerimoniale risaputo,
apre la cicatrice
del tempo.
Tu sei nel grumo,
senza lirismo.
Ciò che dici è, per il tempo, infamia radicale.
E gli altri, quelli che ne controllano il flusso, ti cercano
per evitarti: non sei merce di scambio
e la tua irrequietezza riluce
sui banconi: la restaurazione pesa
come un incubo e resistere
non è da tutti.
Dunque, Antonio, fai
rumore:
si lavora su ciò che manca e ciò che manca
è l’attore
a disagio estraneo al flusso del tempo
il cui solo scopo è ricordarsi
rinascere mettendosi
a morte.
Se scavo nel senso
del tuo discorso ne ricavo lo stimolo ulteriore
allegoria grottesco crudeltà
poesia:
senza lamento
per l’esclusione, senza cedimento
all’omologazione:
si lavora su
ciò che manca
e ciò che manca è l’attore
in rivolta suono e sintassi d’errore
corpo irriducibile non conforme ai ricevimenti
ritmo-voce a muso duro interior vitae & reale
per sempre uniti nella disputa
e perché tutto è tutt’altro che dato
è nel divenire il suo senso
l’attore
in eccesso
nel tempo insensato.
Qui, Antonio, serve un po’ di ironia:
siamo fottuti, in ogni caso;
tanto vale buttarla in ridere. Ma sì, se restiamo nella
collera
il tempo ci agguanta: l’attore ha bisogno
di irridersi, e il suo diritto al delirio,
il suo desiderio in atto,
non può che essere
comicamente
autodistruttivo.
Ma morendo, davvero,
e morendo col ghigno
sulle labbra,
rinasce, e non dà tregua: consumarsi
è per lui non cedere allo spettacolo.
Ne vale la pena? Sempre conviene
confrontarsi, sempre; altrimenti vince
il degrado. Ma sempre
la ferocia del tempo supera
il tentativo. E allora?
E allora
si lavora su
ciò che manca
e ciò che
manca è l’attore
manca la maschera solidale, dove il senso
non è di dominio, e il gesto etico
e la raffinata tecnica
e l’eros segreto dell’attore, o l’osceno
del suo esporsi in una società
di troppe parole, e false, manca
la caduta senza scampo,
la poesia, manca
l’eresia (l’afasia?).
(A.
Attisani Un teatro
apocrifo, Medusa Edizioni)
5.
DEDICATO A SLAVOI ZIZEK (GIOVANNI ROVESCIATO)
Al
principio la parola non esisteva
e la parola sgorgò dalla gola
e l’uomo disse la sua prima parola
“merda!” disse e cominciò a invocare
dio.
(S. Zizek, Credere, Melteni
Editore)
6.
DEDICATO A IEAN-LUC NANCY
Il
corpo è: è la fonte, questo corpo
sempre all’opera, fuori misura, fuori parte;
lo stesso corpo è già voce, e ormai anche senso,
rottami di senso, disordine vocale, torsione,
quel che dico lo dico nella tensione
dei muscoli, lo Spirito non esiste, ossa,
nervi, colpo di glottide, selezione.
Ogni
filosofia è la morte del corpo: tira il freno,
nasconde; e così divaga e offre un limite,
estende il dominio del Verbo sul corpo,
uccide, come ogni religione.
Il corpo è
sintassi: del dolore e del desiderio,
della coscienza; è putrefazione lenta, scadere
del tempo; partitura di gesti, ogni corpo
è il presupposto di ogni scrittura, essenza del linguaggio e
di ogni valore; geroglifico essenziale.
Mi
cercano, per legarmi al palo;
per entrare nel mio corpo e misurarmi con grafici e tabelle;
corpo misura di tutte le cose, potere sul corpo,
e segue l’abuso, il contagio, il putrido lavoro,
è lo strazio dell’economia politica, la pena
del lavoro; questo pensiero fa impazzire.
Che rimane
del mio corpo una volta esposto?
rimane la possibilità di enunciarsi come contestazione
del privilegio, nel movimento che fa deragliare
l’esperienza vissuta; corpo sporco, che si ribella,
che apre uno squarcio; corpo saturo
di morte, che resiste; ciò che conta
è che il corpo esiste:
abisso, sfacelo,
catastrofe,
rissa.
E si
passa, coi drappi, nello stridore della lotta;
unica certezza: la morte; si passa;
tenebra, fango, caos,
stanco, steso a terra, senza gloria
si passa sino all’al-di-là; a
quell’al-di-là che è del corpo
la verità più falsa, è la sua
speranza vana.
(J-L.
Nancy, Corpus, Cronopio Editore)
7.
DEDICATO A DAVID HARVEY
La condizione e la sua esperienza, in punto di morte, sempre, e la
dedizione
alla patria, poi la salita breve e lo schianto, con le ali bruciate e
la scia
di fumo, in caduta libera, finché dopo il volo
c’è l’impatto a terra
e la città rasa al suolo, la stessa morte alla stessa ora,
corpi
diversi:
si
conficca così la scheggia nella delizia
del gioco, morire così, a tre anni, braccia conserte
alla messa di quartiere, un sibilo atroce, un fiore
in bocca, un ricordo nell’assedio, è marzo
la fine di marzo:
è l’assedio, crolla
ogni minuto e la strada è una sola
macchia di sangue, sangue
chiama sangue, le ali
dunque bruciate:
gabbiano
caduto
in volo caduto mille morti lo stesso aereo colpito lo stesso che ha
sganciato
colpito due volte e la strage è senza testimoni, ti sei
divertito
vicino al garage con la pistola in mano, poi sei caduto
davanti a tua madre che ha pianto:
esiste fuori di me esiste la
guerra
lo stesso
aereo.
Messo in posa non resisto, luci abbaglianti, la foto morbida, prima di
era la compagnia migliore per le feste, ci siamo sposati presto, lei
era
uno dopo l’altro abbiamo fatto sei figli, uno ha fatto le
scale per
uscire
all’aria aperta per vedere il colore del rombo la forma, ha
pianto al
dilatarsi delle pupille colpite dal ferro, ha pianto
all’inizio per la
foto
il giornale l’ha pagata bene la foto con mio figlio che
schizzava via
colpito dalle schegge e si vedeva l’ombra
dell’aereo, scura, l’ombra
e sulla foto è rimasto il sangue, uno schizzo, non sono
degno del
pianto
ma ho pianto mio figlio, poi ho venduto la sua nube, la pioggia la
non sono geloso mi riguardo amo gli altri miei cinque figli il quarto
è partito, non voleva che gli vendessi il rene, allora mi ha
sputato
ed è fuggito, via, lontano, scrive solo a natale, dal
carcere dell’isola
di
esiste fuori di me esiste la pace
la
stessa merda.
Il mondo, la sera calante, la luna, guarda com’è
lucida
l’immensità, anche la notte è lucida,
anche lurida,
le cose oscure, o la scure sul collo, le labbra,
il fragore della testa quando cade, ed esce
dalla bocca un urlo, oh senti
che accade a quest’ora
di notte che
è la notte che ci
uccide, i nostri gesti inutili impossibile
resistere, sirene, luci spente, i rifugi, stretti uno accanto
all’altro nei rifugi, luci spente, nell’impasto
viscoso della sera, mescolati
al sudore allo sterco
nei campi
nei campi di corsa
immobili alle origini d’ogni speranza
restare in vita un sogno, è l’usuale della condanna
quotidiana, è questo il giorno, ogn’ora
è questo patimento, acqua
sporca, fuga, panni
logori
cos’è il dolore?
cos’è che cosa? cos’è un
bacio?
esiste fuori di me esiste
l’agguato
la
stessa sorte.
Il piacere della guerra ha preso un po’ tutti è
come un gioco
ci si difende o si attacca è una festa anche lo spavento poi
si
perde o si vince si cade a terra in armonia col sole si cerca
una via di fuga tra le rane nei canneti solitari o in gruppo
col groppo in gola un ultimo sguardo alla casa natale giù
di corsa verso un altro esilio incontrando altri bagliori la
siepe bruciata l’occhio strappato il braccio fedeli si seguita
a correre fedeli alla vita la vita che ti resta dentro non cede
ma si scompone allora si invoca dio che abbia pietà di noi
ci risparmi è presto per morire la preghiera è
ornamento
come quando da bambini si è costretti a pregare per giocare
si invoca la salvezza un attimo prima del colpo alla tempia
esiste fuori di me esiste la festa
la
stessa morte.
(D.
Harvey, La guerra perpetua, Il
Saggiatore)
8. DEDICATO A VLADIMIRO
GIACCHE’
Molto mi
manca, la pace o un lido;
non c’è nemico, non c’è forma
turpe
o senso; e i vicini un muto gregge;
e non c’è gioia, solo angoscia e tempo,
abisso ma solo abisso e sfacelo e pianto;
non ho più fuoco; sfigurato, brucio;
venire a patti?
(V. Giacché, con M. Dinucci e A. Burgio, Escalation. Anatomia della
guerra infinita, DeriveApprodi)
9.
DEDICATO A CARMELO BENE
ma
lo
spettacolo domina, al pari
d’un ombra imprevedibile di rovina, nei panni
d’eroina
sconcia
sebbene io non sia nulla
ti scrivo a te, unico poeta
ti scrivo
è la
galanteria del disgusto
tu il fuoco, il
furioso
transfuga rispetto alla parola, tu unico poeta, preciso, oscuro,
evidente
lava turbata butti fuori, la
tua bocca unica
bocca che non dice, o un
battibecco
ti scrivo
non esiste l’anima bella
o di recitarla in generale, ma nemico
ecco, nemico dell’epoca mi ripugna quest’epoca ma
la tua voce
ascoltarla, una pausa
versi d’amore e
risonanti per lo fuoco è quel ch’io
odo
il fuoco dei versi e la voce tua
dunque una guerra ti scrivo
della tua guerra
è la mia malattia – ascoltarti
nel delirio ti ascolto
solo il diavolo
fallisce
è denuncia la tua voce non c’è
riscatto, è inammissibile è l’evidenza
di una necessità la necessità della discordia
è la tua voce
tutto il contrario di certi famosi attori
la tua, invece, c’è come militia non è
adulazione non è cortese
è piuttosto strillo nei ruderi, scatto gesto esemplare
di rifiuto è invettiva contro la lingua
contra ‘l piacer suo
(C. Bene, Majakovskij
, Fonit
Cetra)
10.
DEDICATO A ANNA T. (SARA’ DüRA)
Quivi
è l’alta velocità, o marcia
campestre.
La valle
si riprende se stessa. Bene, bene così.
Sappi, mio sinistro
ministro,
sappi che:
chi
entra con le armate
scappa
a gambe levate. Ma tu, non perderti
d’animo,
avrai la tua occasione. Però
ricorda
questo: si insorge
contro
una condizione demente, sempre
si
insorge. E in questi casi
l’eccesso
è l’unica arma. Tu deplora,
è
il tuo mestiere, e deflora
la
verità … Ma sappi, davvero,
che
in ognuno di noi c’è un casseur,
c’è un autonomo, un antagonista, un
anarco-insurrezionalista, e che ogni valle, ogni anfratto, ogni strada,
è per
noi una banlieue parigina
…
Evita
i luoghi oscuri, se puoi. Gira armato.
La
tua ritirata è la nostra festa. Abbiamo infranto
il
sacro recinto, ci siamo ripresi
ciò
che ci apparteneva. Domani
tornerai
alla carica, lo sappiamo.
Ti
aspettiamo, sotto questo albero di castagne. Vuoi del caffè?
Siediti
qui, c’è ombra. Se vuoi ti spiego: vedi, so bene
che
hai pronto l’ordine di cattura, ma, credimi,
la
rivolta non è una festa. Se credi che la trattativa
nell’agone democratico
possa risolvere positivamente la questione, studiati gli ultimi decenni
di
storia; potresti ricavarne l’assoluta
irriformabilità di un sistema che ha alla
sua base
l’espropriazione
delle nostre vite.
Il
“pacifismo sociale” ci ha fatto accettare di tutto,
in questi ultimi anni,
aumentando la nostra stessa fragilità. Ben venga allora il
conflitto
dispiegato, caro mio, ben venga la rivolta.
Vuoi
dello zucchero? Guarda la neve … Tu dici che siamo
estremisti …
Va
bene così, siamo solo alle parole. Non abbiamo mendicato
attenzione,
ce
la siamo presa. Hai invaso le nostre terre,
ce
le siamo riprese. Che la furia dilaghi, questo
è
l’unico mio credo. Non ci sono regole da rispettare, ma tu
questo lo sai bene.
Noi siamo qui, adesso, coperti di neve, felici per un giorno, al di
là di ogni
disciplina
democratica.
Al di là di te
e
delle tue divise …
e
ricorda questo: sarà düra
(Anna T.
lasciò la scena e scelse la
prassi nei
campi)