Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce

Redatta da:

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DIECI DEDICHE (NELLA DECADENZA)

poesia e contraddizione

Articolo postato sabato 25 novembre 2006
da Nevio Gambula

Regna l’ordine le pattuglie canna in alto
E. Cacciatore
 

1. DEDICATO A …


a colore che 
 che cadono, che hanno la gola secca, che
 per istinto si buttano fuori, o se l’istinto
 e la coscienza e tutto il resto si
 intrecciano e
  operano
  come in un sogno
  come in una roulette
 fluido caso e controllo
 manipolazione cosciente
  a coloro che
  che cadendo rifiutano la caduta, che reagiscono all’impotenza, che
  pagano col sangue, che non si illudono, che li ritroviamo
  nello squarcio, che nella crisi cercano l’uscita, che 
 curano la defezione, che sbagliano
  il bersaglio, che


  io so dove tirare la pietra
  e il momento preciso, non so
  come uscire dal labirinto, fuori è diverso, lo so 
 meglio o peggio non so, diverso, e ciò mi basta
  diverso da questo globale dall’aria trasandata
  altro da questa sorte economica
  tutt’ora gravida di pericoli


  civiltà minacciosa, io so che
 una serie di sbarramenti che funzionano come selezione
 il succube e l’indottrinato che sono remunerati
paradigmi e modelli che ricorrenti
segni ripetitivi, io so che


consenso e sicurezza, o anche percezioni più sottili
grotte, ripari, superfici rocciose, nulla sfugge
tutto è compreso, e non c’è esodo
delude la terra promessa
 dio non è più d’aiuto
  nel cuore della notte, e tradendo il pensabile, io so che
  fissare una nuova distanza, aprire un percorso nomade
  o è già finita, io so che serve sradicarsi, che serve
  porre altre domande, non abituali, che
  dentro di noi è la strada
  e il deserto, che
deserto come destino, città come mèta, desiderio come spinta centrifuga,
senso come movimento, senso come chiarezza, senso come ritmo,
è una miscela esplosiva, io so che il tempo rivela la sua tomba
 un rischio di nullità che è questo
 decadere, che è questo
 occidente-ghetto, che
 allorché ogni legame, ogni
 superficie o sguardo, ogni
 valore, ogni teoria, ogni
 luogo e ritmo, allorché
 tutto è senza significato
la rapidità con cui l’idiozia ci trascina nel suo vortice


dedicato a coloro che
che scavano cercando punti di riferimento che
aprono tentativi, anche modesti, di comunicare dissenso che
restando fuori si buttano dentro che agitano una teoria critica
seditio e rebellio, razionalità, sfida, a coloro che a dispetto di tutto
cercano un altro senso

 


2. DEDICATO A ROMANO LUPERINI (IMITAZIONE)

Poesia, verbo, poesia, emozione, poesia, nomi di cose, custodi della tradizione
sostenitori ciechi.
E l’afasia. E l’ostilità verso la storia. E la consacrazione.
A stento ci difendiamo dal museo, a stento dal feticcio.
Questa è la parola sacra – ci dicono; e siamo in pochi a bloccare la via.
Per quanti la fama? Per quanti l’oblio? Chi sostiene, chi nutre il poeta?
Ecco le truppe. Nascondiamoci, presto. La mentalità affaristica è in arrivo. S’odono le trombe.
Solo ciò che è chiaro merita di essere salvato – dicono. Solo ciò che luccica.
Tradizione, regolamenti letterari, intimismo – l’ombelico del poeta
unica materia. Petrarchismo. E io, che dico io?
Rivolta, certo. Lacerazione, scarto, negazione.
Distruzione e ricostruzione. Ecco quel che suggerisco, io che non ho niente
da suggerire. Suggerisco altre sfide.
 Lautréamont e Villon
 Apollinaire e Breton
 Majakovskij e Lucrezio
 Brecht, Pagliarani, Gòngora, Cacciatore, Ciabatti, Volponi
 i tragici greci e Shakespeare
 invenzione di altri modi, non solo distruzione
 parlare nelle crepe del linguaggio
 futuro
Quanto resisterò? Poco, è certo. La Società Letteraria è in agguato. Angoscia
e alterità. Isolamento. Disprezzo e indifferenza. Istoria
fecit saltus
: io salto nel fosso, al buio. Ho il piede nella trappola. Sono nel gorgo.
Ora vengono le truppe con le loro parole innamorate, ora vengono
i dialetti della provincia. Portano
poesia, verbo, poesia, emozione, poesia, nomi di cose, custodi della tradizione
sostenitori ciechi vengono in truppe e portano
polvere
sapienza
luce
evidenza
cultura
cultura, cultura da bestseller, cultura volgare, cultura dell’illibertà.
Strepitano forte, applaudono. Il futuro della poesia è nelle loro
mani


(R. Luperini, La fine del postmoderno, Guida editore)



3. DEDICATO A HEINER MULLER


Poesia concreta, che non s’illude,
radicale perché non evade,
e ignorante; poesia
di teatro, ma non rappresentazione,
poesia della disperazione,
che non approva.
Invenzione di lingua, lingua
intrigante, seminale,
lingua risonante in parecchi significati
invenzione interessata non decorativa
sincopata lingua alterata nuovi sensi
lingua in contrasto.
Al di là della lingua.
Al di là del teatro.
Al di là della poesia.
Al di là di ogni identità.
Al di là degli spazi circoscritti.
Al di là degli spari.
Al di là di dio.
Al di là dei pruriti dell’io.
Al di là del sacro e del codice.
Al di là dell’amore cortese.
Dentro le contese.
Poesia-carne, poesia scortese, come ricerca di rapporti nuovi,
poesia come un brivido di freddo, ch’esce dal panorama
abituale e s’avvia nel vento, al di là del decoro,
dell’innocenza, sempre strisciando
tra un boato e l’altro, al di là
del coro e com’è tremendo
il viso di chi la
evita,
  quel viso è una grata, è un abisso, è un artiglio, è un albero gelato, è una radice divelta, è l’impietrimento, è l’ipocrisia, è un deserto di lingua, parla una lingua radioattiva, arrogante, come quella di un pessimo allibratore di borsa. Poesia brutale.
Fecale. Poesia che incede come schianto d’animale.
Poesia che non smette d’ululare, che emette
guaiti, belati, singhiozzi, eretici suoni
favolistici cazzi
pazzi lemmi
macerie
dice
fa.
  Senza calma, senza le parole giuste, senza il tono che serve, senza racconto, la poesia si scioglie nel grumo, ora preme nella gola e sgorga in invenzione fonica, nelle lingue
della voce. Carezza d’acciaio, grido
d’allarme, ninfa desiderante,
putrida, tortuosa, solare
e cantante, la voce
sfida il silenzio, l’afasia, invade
la poesia.


(H. Muller, L’invenzione del silenzio, Ubulibri)

 


4. DEDICATO A ANTONIO ATTISANI

Corri troppo, Antonio, sei già oltre
la repressione del tempo,
e non hai torto:
 si lavora su ciò che manca
 e ciò che manca è l’attore.
Ma la tua corsa, credimi, anche se solitaria,
è necessaria: senza seguito
tu séguita a cercare, senza premi
continua: ogni gesto
che concedi, anche il meno convincente,
rompe il cerimoniale risaputo,
apre la cicatrice
del tempo.
 Tu sei nel grumo, senza lirismo.
Ciò che dici è, per il tempo, infamia radicale.
E gli altri, quelli che ne controllano il flusso, ti cercano
per evitarti: non sei merce di scambio
e la tua irrequietezza riluce
sui banconi: la restaurazione pesa
come un incubo e resistere
non è da tutti.
 Dunque, Antonio, fai rumore:
si lavora su ciò che manca e ciò che manca è l’attore
a disagio estraneo al flusso del tempo
il cui solo scopo è ricordarsi
 rinascere mettendosi a morte.
Se scavo nel senso
del tuo discorso ne ricavo lo stimolo ulteriore
allegoria grottesco crudeltà
poesia:
 senza lamento
per l’esclusione, senza cedimento
all’omologazione:
 si lavora su ciò che manca 
e ciò che manca è l’attore
in rivolta suono e sintassi d’errore
corpo irriducibile non conforme ai ricevimenti
ritmo-voce a muso duro interior vitae & reale
per sempre uniti nella disputa
e perché tutto è tutt’altro che dato
è nel divenire il suo senso
 l’attore in eccesso
nel tempo insensato.
Qui, Antonio, serve un po’ di ironia:
siamo fottuti, in ogni caso;
tanto vale buttarla in ridere. Ma sì, se restiamo nella collera
il tempo ci agguanta: l’attore ha bisogno
di irridersi, e il suo diritto al delirio,
il suo desiderio in atto,
non può che essere
 comicamente autodistruttivo.
 Ma morendo, davvero,
 e morendo col ghigno sulle labbra,
rinasce, e non dà tregua: consumarsi
è per lui non cedere allo spettacolo.
Ne vale la pena? Sempre conviene
confrontarsi, sempre; altrimenti vince
il degrado. Ma sempre
la ferocia del tempo supera
il tentativo. E allora?
 E allora
 si lavora su ciò che manca
 e ciò che manca è l’attore
manca la maschera solidale, dove il senso
non è di dominio, e il gesto etico
e la raffinata tecnica
e l’eros segreto dell’attore, o l’osceno
del suo esporsi in una società
di troppe parole, e false, manca
la caduta senza scampo,
la poesia, manca 
  l’eresia (l’afasia?).


(A. Attisani Un teatro apocrifo, Medusa Edizioni)
 


5. DEDICATO A SLAVOI ZIZEK (GIOVANNI ROVESCIATO)

Al principio la parola non esisteva
e la parola sgorgò dalla gola
e l’uomo disse la sua prima parola
“merda!” disse e cominciò a invocare dio.


(S. Zizek, Credere, Melteni Editore)
 


6. DEDICATO A IEAN-LUC NANCY

Il corpo è: è la fonte, questo corpo
sempre all’opera, fuori misura, fuori parte;
lo stesso corpo è già voce, e ormai anche senso,
rottami di senso, disordine vocale, torsione,
quel che dico lo dico nella tensione
dei muscoli, lo Spirito non esiste, ossa,
nervi, colpo di glottide, selezione.


Ogni filosofia è la morte del corpo: tira il freno,
nasconde; e così divaga e offre un limite,
estende il dominio del Verbo sul corpo,
uccide, come ogni religione.


Il corpo è sintassi: del dolore e del desiderio,
della coscienza; è putrefazione lenta, scadere
del tempo; partitura di gesti, ogni corpo
è il presupposto di ogni scrittura, essenza del linguaggio e
di ogni valore; geroglifico essenziale.


Mi cercano, per legarmi al palo;
per entrare nel mio corpo e misurarmi con grafici e tabelle;
corpo misura di tutte le cose, potere sul corpo,
e segue l’abuso, il contagio, il putrido lavoro,
è lo strazio dell’economia politica, la pena
del lavoro; questo pensiero fa impazzire.


Che rimane del mio corpo una volta esposto?
rimane la possibilità di enunciarsi come contestazione
del privilegio, nel movimento che fa deragliare
l’esperienza vissuta; corpo sporco, che si ribella,
che apre uno squarcio; corpo saturo
di morte, che resiste; ciò che conta
è che il corpo esiste:
abisso, sfacelo,
catastrofe,
rissa.


E si passa, coi drappi, nello stridore della lotta;
unica certezza: la morte; si passa;
tenebra, fango, caos,
stanco, steso a terra, senza gloria
si passa sino all’al-di-là; a quell’al-di-là che è del corpo
la verità più falsa, è la sua
speranza vana.


 (J-L. Nancy, Corpus, Cronopio Editore)
 


7. DEDICATO A DAVID HARVEY
 
La condizione e la sua esperienza, in punto di morte, sempre, e la dedizione
alla patria, poi la salita breve e lo schianto, con le ali bruciate e la scia
di fumo, in caduta libera, finché dopo il volo c’è l’impatto a terra
e la città rasa al suolo, la stessa morte alla stessa ora, corpi
diversi:
  si conficca così la scheggia nella delizia
del gioco, morire così, a tre anni, braccia conserte
alla messa di quartiere, un sibilo atroce, un fiore
in bocca, un ricordo nell’assedio, è marzo
la fine di marzo:
    è l’assedio, crolla
ogni minuto e la strada è una sola
macchia di sangue, sangue
chiama sangue, le ali
dunque bruciate:
  gabbiano caduto
in volo caduto mille morti lo stesso aereo colpito lo stesso che ha sganciato
colpito due volte e la strage è senza testimoni, ti sei divertito
vicino al garage con la pistola in mano, poi sei caduto
davanti a tua madre che ha pianto:
  esiste fuori di me esiste la guerra
lo stesso aereo.
 
Messo in posa non resisto, luci abbaglianti, la foto morbida, prima di
era la compagnia migliore per le feste, ci siamo sposati presto, lei era
uno dopo l’altro abbiamo fatto sei figli, uno ha fatto le scale per uscire
all’aria aperta per vedere il colore del rombo la forma, ha pianto al
dilatarsi delle pupille colpite dal ferro, ha pianto all’inizio per la foto
il giornale l’ha pagata bene la foto con mio figlio che schizzava via
colpito dalle schegge e si vedeva l’ombra dell’aereo, scura, l’ombra
e sulla foto è rimasto il sangue, uno schizzo, non sono degno del pianto
ma ho pianto mio figlio, poi ho venduto la sua nube, la pioggia la
non sono geloso mi riguardo amo gli altri miei cinque figli il quarto
è partito, non voleva che gli vendessi il rene, allora mi ha sputato
ed è fuggito, via, lontano, scrive solo a natale, dal carcere dell’isola di
  esiste fuori di me esiste la pace
  la stessa merda.
 
Il mondo, la sera calante, la luna, guarda com’è lucida
l’immensità, anche la notte è lucida, anche lurida,
le cose oscure, o la scure sul collo, le labbra,
il fragore della testa quando cade, ed esce
dalla bocca un urlo, oh senti
che accade a quest’ora
di notte che
  è la notte che ci uccide, i nostri gesti inutili impossibile
resistere, sirene, luci spente, i rifugi, stretti uno accanto
all’altro nei rifugi, luci spente, nell’impasto
viscoso della sera, mescolati
al sudore allo sterco
nei campi
  nei campi di corsa immobili alle origini d’ogni speranza
restare in vita un sogno, è l’usuale della condanna
quotidiana, è questo il giorno, ogn’ora
è questo patimento, acqua
sporca, fuga, panni
logori
  cos’è il dolore? cos’è che cosa? cos’è un bacio?
  esiste fuori di me esiste l’agguato
  la stessa sorte.
 
Il piacere della guerra ha preso un po’ tutti è come un gioco
ci si difende o si attacca è una festa anche lo spavento poi si
perde o si vince si cade a terra in armonia col sole si cerca
una via di fuga tra le rane nei canneti solitari o in gruppo
col groppo in gola un ultimo sguardo alla casa natale giù
di corsa verso un altro esilio incontrando altri bagliori la
siepe bruciata l’occhio strappato il braccio fedeli si seguita
a correre fedeli alla vita la vita che ti resta dentro non cede
ma si scompone allora si invoca dio che abbia pietà di noi
ci risparmi è presto per morire la preghiera è ornamento
come quando da bambini si è costretti a pregare per giocare
si invoca la salvezza un attimo prima del colpo alla tempia
  esiste fuori di me esiste la festa
  la stessa morte.

 (D. Harvey, La guerra perpetua, Il Saggiatore)
 


8. DEDICATO A VLADIMIRO GIACCHE’

Molto mi manca, la pace o un lido;
non c’è nemico, non c’è forma turpe
o senso; e i vicini un muto gregge;
e non c’è gioia, solo angoscia e tempo,
abisso ma solo abisso e sfacelo e pianto;
non ho più fuoco; sfigurato, brucio;
venire a patti?

 
(V. Giacché, con M. Dinucci e A. Burgio, Escalation. Anatomia della guerra infinita, DeriveApprodi)



9. DEDICATO A CARMELO BENE

ma lo spettacolo domina, al pari
d’un ombra imprevedibile di rovina, nei panni d’eroina
sconcia  sebbene io non sia nulla
ti scrivo a te, unico poeta
 ti scrivo
 è la galanteria del disgusto
 tu il fuoco, il furioso
transfuga rispetto alla parola, tu unico poeta, preciso, oscuro, evidente
 lava turbata butti fuori, la tua bocca unica
 bocca che non dice, o un battibecco
 ti scrivo
non esiste l’anima bella
o di recitarla in generale, ma nemico
ecco, nemico dell’epoca mi ripugna quest’epoca ma la tua voce
 ascoltarla, una pausa
 versi d’amore e risonanti per lo fuoco è quel ch’io odo
 il fuoco dei versi e la voce tua
dunque una guerra ti scrivo
della tua guerra
è la mia malattia – ascoltarti
 nel delirio ti ascolto
  solo il diavolo
  fallisce
è denuncia la tua voce non c’è riscatto, è inammissibile è l’evidenza
di una necessità la necessità della discordia è la tua voce
tutto il contrario di certi famosi attori
la tua, invece, c’è come militia non è adulazione non è cortese
è piuttosto strillo nei ruderi, scatto gesto esemplare
di rifiuto è invettiva contro la lingua
contra ‘l piacer suo


(C. Bene, Majakovskij , Fonit Cetra)
 


10. DEDICATO A ANNA T. (SARA’ DüRA)
 
Quivi è l’alta velocità, o marcia
campestre. La valle
  si riprende se stessa. Bene, bene così. Sappi, mio sinistro
ministro, sappi che:
chi entra con le armate
scappa a gambe levate. Ma tu, non perderti
d’animo, avrai la tua occasione. Però
ricorda questo: si insorge
contro una condizione demente, sempre
si insorge. E in questi casi
l’eccesso è l’unica arma. Tu deplora,
è il tuo mestiere, e deflora
la verità … Ma sappi, davvero,
che in ognuno di noi c’è un casseur, c’è un autonomo, un antagonista, un anarco-insurrezionalista, e che ogni valle, ogni anfratto, ogni strada, è per noi una banlieue parigina …
Evita i luoghi oscuri, se puoi. Gira armato.
La tua ritirata è la nostra festa. Abbiamo infranto
il sacro recinto, ci siamo ripresi
ciò che ci apparteneva. Domani
tornerai alla carica, lo sappiamo.
Ti aspettiamo, sotto questo albero di castagne. Vuoi del caffè?
Siediti qui, c’è ombra. Se vuoi ti spiego: vedi, so bene
che hai pronto l’ordine di cattura, ma, credimi,
la rivolta non è una festa. Se credi che la trattativa nell’agone democratico possa risolvere positivamente la questione, studiati gli ultimi decenni di storia; potresti ricavarne l’assoluta irriformabilità di un sistema che ha alla sua base
l’espropriazione delle nostre vite.
Il “pacifismo sociale” ci ha fatto accettare di tutto, in questi ultimi anni, aumentando la nostra stessa fragilità. Ben venga allora il conflitto dispiegato, caro mio, ben venga la rivolta.
Vuoi dello zucchero? Guarda la neve … Tu dici che siamo estremisti …
Va bene così, siamo solo alle parole. Non abbiamo mendicato attenzione,
ce la siamo presa. Hai invaso le nostre terre,
ce le siamo riprese. Che la furia dilaghi, questo
è l’unico mio credo. Non ci sono regole da rispettare, ma tu questo lo sai bene. Noi siamo qui, adesso, coperti di neve, felici per un giorno, al di là di ogni disciplina
democratica. Al di là di te
e delle tue divise …
e ricorda questo: sarà düra
 
(Anna T. lasciò la scena e scelse la prassi nei campi)

1 commenti a questo articolo

> DIECI DEDICHE (NELLA DECADENZA)
2006-11-25 18:03:20|di Martino Baldi

Bel colpo, Nevio. Dieci dediche precise come proiettili. Non mi piace molto la prima, in cui trovo un quid di troppo di "programmaticità", didascalia, controllo, ma dalla seconda in poi è un crescendo. Luperini e Muller mi convincono meno, per i motivi di cui sopra; poi via via si apre la valvola dell’esistenza bruciante e bruciata, del dubbio, del pathos e della rappresentazione deflagrante (se vuoi, della teatralità) e allora queste dediche diventano, secondo me, micidiali. Stendono.


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