Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce

Redatta da:

Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.

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Di cosa parliamo quando parliamo di poesia

un memorandum

Articolo postato domenica 17 giugno 2007

LE RICORDANZE

Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea

Tornare ancor per uso a contemplarvi

Sul paterno giardino scintillanti,

E ragionar con voi dalle finestre

Di questo albergo ove abitai fanciullo,

E delle gioie mie vidi la fine.

Quante immagini un tempo, e quante fole

Creommi nel pensier l’aspetto vostro

E delle luci a voi compagne! allora

Che, tacito, seduto in verde zolla,

Delle sere io solea passar gran parte

Mirando il cielo, ed ascoltando il canto

Della rana rimota alla campagna!

E la lucciola errava appo le siepi

E in su l’aiuole, susurrando al vento

I viali odorati, ed i cipressi

Là nella selva; e sotto al patrio tetto

Sonavan voci alterne, e le tranquille

Opre de’ servi. E che pensieri immensi,

Che dolci sogni mi spirò la vista

Di quel lontano mar, quei monti azzurri,

Che di qua scopro, e che varcare un giorno

Io mi pensava, arcani mondi, arcana

Felicità fingendo al viver mio!

Ignaro del mio fato, e quante volte

Questa mia vita dolorosa e nuda

Volentier con la morte avrei cangiato.

Né mi diceva il cor che l’età verde

Sarei dannato a consumare in questo

Natio borgo selvaggio, intra una gente

Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso

Argomento di riso e di trastullo,

Son dottrina e saper; che m’odia e fugge,

Per invidia non già, che non mi tiene

Maggior di sé, ma perché tale estima

Ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori

A persona giammai non ne fo segno.

Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,

Senz’amor, senza vita; ed aspro a forza

Tra lo stuol de’ malevoli divengo:

Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,

E sprezzator degli uomini mi rendo,

Per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola

Il caro tempo giovanil; più caro

Che la fama e l’allor, più che la pura

Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo

Senza un diletto, inutilmente, in questo

Soggiorno disumano, intra gli affanni,

O dell’arida vita unico fiore.

Viene il vento recando il suon dell’ora

Dalla torre del borgo. Era conforto

Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,

Quando fanciullo, nella buia stanza,

Per assidui terrori io vigilava,

Sospirando il mattin. Qui non è cosa

Ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro

Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.

Dolce per sé; ma con dolor sottentra

Il pensier del presente, un van desio

Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.

Quella loggia colà, volta agli estremi

Raggi del dì; queste dipinte mura,

Quei figurati armenti, e il Sol che nasce

Su romita campagna, agli ozi miei

Porser mille diletti allor che al fianco

M’era, parlando, il mio possente errore

Sempre, ov’io fossi. In queste sale antiche,

Al chiaror delle nevi, intorno a queste

Ampie finestre sibilando il vento,

Rimbombaro i sollazzi e le festose

Mie voci al tempo che l’acerbo, indegno

Mistero delle cose a noi si mostra

Pien di dolcezza; indelibata, intera

Il garzoncel, come inesperto amante,

La sua vita ingannevole vagheggia,

E celeste beltà fingendo ammira.

O speranze, speranze; ameni inganni

Della mia prima età! sempre, parlando,

Ritorno a voi; che per andar di tempo,

Per variar d’affetti e di pensieri,

Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,

Son la gloria e l’onor; diletti e beni

Mero desio; non ha la vita un frutto,

Inutile miseria. E sebben vòti

Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro

Il mio stato mortal, poco mi toglie

La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta

A voi ripenso, o mie speranze antiche,

Ed a quel caro immaginar mio primo;

Indi riguardo il viver mio sì vile

E sì dolente, e che la morte è quello

Che di cotanta speme oggi m’avanza;

Sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto

Consolarmi non so del mio destino.

E quando pur questa invocata morte

Sarammi allato, e sarà giunto il fine

Della sventura mia; quando la terra

Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo

Fuggirà l’avvenir; di voi per certo

Risovverrammi; e quell’imago ancora

Sospirar mi farà, farammi acerbo

L’esser vissuto indarno, e la dolcezza

Del dì fatal tempererà d’affanno.

E già nel primo giovanil tumulto

Di contenti, d’angosce e di desio,

Morte chiamai più volte, e lungamente

Mi sedetti colà su la fontana

Pensoso di cessar dentro quell’acque

La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco

Malor, condotto della vita in forse,

Piansi la bella giovanezza, e il fiore

De’ miei poveri dì, che sì per tempo

Cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso

Sul conscio letto, dolorosamente

Alla fioca lucerna poetando,

Lamentai co’ silenzi e con la notte

Il fuggitivo spirto, ed a me stesso

In sul languir cantai funereo canto.

Chi rimembrar vi può senza sospiri,

O primo entrar di giovinezza, o giorni

Vezzosi, inenarrabili, allor quando

Al rapito mortal primieramente

Sorridon le donzelle; a gara intorno

Ogni cosa sorride; invidia tace,

Non desta ancora ovver benigna; e quasi

(Inusitata maraviglia!) il mondo

La destra soccorrevole gli porge,

Scusa gli errori suoi, festeggia il novo

Suo venir nella vita, ed inchinando

Mostra che per signor l’accolga e chiami?

Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo

Son dileguati. E qual mortale ignaro

Di sventura esser può, se a lui già scorsa

Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,

Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?

O Nerina! e di te forse non odo

Questi luoghi parlar? caduta forse

Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,

Che qui sola di te la ricordanza

Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede

Questa Terra natal: quella finestra,

Ond’eri usata favellarmi, ed onde

Mesto riluce delle stelle il raggio,

È deserta. Ove sei, che più non odo

La tua voce sonar, siccome un giorno,

Quando soleva ogni lontano accento

Del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto

Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi

Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri

Il passar per la terra oggi è sortito,

E l’abitar questi odorati colli.

Ma rapida passasti; e come un sogno

Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte

La gioia ti splendea, splendea negli occhi

Quel confidente immaginar, quel lume

Di gioventù, quando spegneali il fato,

E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna

L’antico amor. Se a feste anco talvolta,

Se a radunanze io movo, infra me stesso

Dico: o Nerina, a radunanze, a feste

Tu non ti acconci più, tu più non movi.

Se torna maggio, e ramoscelli e suoni

Van gli amanti recando alle fanciulle,

Dico: Nerina mia, per te non torna

Primavera giammai, non torna amore.

Ogni giorno sereno, ogni fiorita

Piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,

Dico: Nerina or più non gode; i campi,

L’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno

Sospiro mio: passasti: e fia compagna

D’ogni mio vago immaginar, di tutti

I miei teneri sensi, i tristi e cari

Moti del cor, la rimembranza acerba.

17 commenti a questo articolo

Di cosa parliamo quando parliamo di poesia
2007-06-19 10:30:53|di Martino

Pare che il Poeta, dopo aver scritto questi versi, presagendo con pessimismo gli sviluppi futuri della poesia italica, si sia lasciato sfuggire un "ma che ve lo dico a fare...".


Di cosa parliamo quando parliamo di poesia
2007-06-19 01:47:37|di Martino

[...] ed aspro a forza

Tra lo stuol de’ malevoli divengo:

Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,

E sprezzator degli uomini mi rendo,

Per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola

Il caro tempo giovanil; più caro

Che la fama e l’allor [...]


Di cosa parliamo quando parliamo di poesia
2007-06-18 23:14:12|

Un caro saluto, Lorenzo.
Fammi scherzare un po’, che ne ho bisogno!
Un abbraccio di stima e di affetto ai redattori di Absolute.
Gianfranco


Di cosa parliamo quando parliamo di poesia
2007-06-18 18:17:39|di lorenzo

sai dunque gli altri, e ciò sia sufficiente.

lorenzo per intero


Di cosa parliamo quando parliamo di poesia
2007-06-18 18:03:50|

Franco a metà, ma forse Gianni a mezzo. I’ non lo so chi legge o non legge, e in base a che cosa forse lo legge o forse no.
Gianfry


Di cosa parliamo quando parliamo di poesia
2007-06-18 17:58:00|di lorenzo

gianfranco, franco a metà, poveri i posteri se ancora parleranno, di chi mette due spazi tra ogni punto " . ", di chi nel cassettino, con la pistoletta, ha chiuso pure il referente, o di chi, beato d’un edulcorato allegorismo, legge e non legge.

lorenzo


Di cosa parliamo quando parliamo di poesia
2007-06-18 17:54:25|

Vedere ’i vorrei cosa diranno li posteri del nostro tempo ( sull’arte che si fa oggi del verso). Ponso preso a sberleffi; Sinicco, spluledrato assai dalla metropoli; Massari con assai falcidia de’ punti dimagrito; Gezzi, deriso per la sua marchigiana stazza; gl’inglesi e gl’italiani di quel dell’Atelier; Fantuzzi e Fantuzzini; Ariani & Cangianini; Davoli macerati; ecceterà ecceterà.
Gianfranco


Di cosa parliamo quando parliamo di poesia
2007-06-18 14:15:41|di Christian Sinicco

mi sa che ti scriverò qualcosa di immortale, l’aggettivo grande è troppo limitante Carlucci. Cmq la cosa che mi piace di più della questione Baldus, è il lavoro sul dialetto, che non è lavoro, è poesia e basta. Siccome su altri siti si parla solo della funzione politica del dialetto, in antitesi alla società attuale, e io mi son spaccato i maroni di queste semplificazioni, riprenderò la riflessione di Baldus, significativa. Posso dire che a me la poesia di Manzoni mi piace un sacco? Lo so che ci sono troppi cori, e che sembra di essere nell’800, ma magari lo salviamo:-)


Di cosa parliamo quando parliamo di poesia
2007-06-18 08:50:02|di lorenzo

certo silvia per questo sono possibili autori grandi come sinicco e me soltanto oggi. isella se n’è reso conto.

lorenzo


Di cosa parliamo quando parliamo di poesia
2007-06-18 02:12:40|di molesini

Ho letto da poco un libro piuttosto interessante, "L’idillio di Meulan" di Dante Isella, filologo.
Sostiene, questi, che la lingua italiana, diversamente da altre belle lingue madamadorè, sia in pieno rinascimento (o risorgimento?)perché praticamente nata con Manzoni nella metà dell’ottocento.

Gli fa dire questo la separazione imponente tra italiano scritto (piuttosto sapientone e tutto filologato) e italiano parlato non ancora per niente nato pressapoco centocinquanta anni fa.

Fautori del rinascimento del secolo diciannovesimo : l’unità d’Italia combattuta a sangue, i bravi congiuntori della lingua (che però ahiloro sciacquavano i panni in Arno) e, udite, udite, i grandi dialetti, vere lingue parlate e scritte con rinnovato ardore e fior di dizionari
"gergali" dal Manzoni stesso e Dossi e Porta e altri... Da questi arriva a Gadda, ne fa una "funzione".

Sembra, insomma, che la nostra lingua vera sia giovanissima, e che proprio adesso si possa passare alla sua fase matura.


http://www.silviamolesini.splinder.com

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