Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce

Redatta da:

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Di un’altra lingua, il bisiàc di Ivan Crico

il poeta si racconta e racconta il "dialetto"

Articolo postato sabato 3 febbraio 2007
da Christian Sinicco

Le acque verdi dell’Isonzo, oltre gli argini, scorrono a poche centinaia di metri da casa mia, a Pieris. Fin da piccolo, in pochi minuti, potevo raggiungere di corsa i grandi, aridi greti di ciottoli bianchi dove qua e là, timidamente, spuntavano i fiori gialli di topinambùr. Il verde intenso di quelle acque ed il biancore silenzioso di quelle distese senza fine, che mettevano ancora più in risalto l’azzurro sfolgorante del cielo, iniziavano a diventare, così, i colori della mia anima. Quel paesaggio, conosciuto in ogni sua impercettibile mutazione, nell’oro dei tramonti come nelle nevi sui salici, per me diventava un varco verso l’invisibile, il mondo dei morti, la corrente a cui affidare le mie domande senza risposta. La mano che si posava sul mio cuore per portare pace. Per anni ho continuato, quasi ogni giorno, a camminare lungo le sue rive franose, i boschetti, i greti dove le notti d’estate mi addormentavo con gli occhi perduti in un’infinità buia e meravigliosa che non voleva, o non poteva ancora, spiegarmi il perchè del mio essere lì a contemplarla.
A quel tempo, per me, non esisteva nulla all’infuori dell’amore per l’arte e la natura. Erano passioni rapinose e totalizzanti. Dipingevo fin da piccolo, scrivevo poesie e andavo in cerca, sempre, di nuovi libri che mi facessero sognare, oltrepassare con la fantasia il grigiore in cui mi sentivo imprigionato. Vivevo difatti in un piccolo paese, in una zona ai margini dei grandi eventi culturali, abituata, rassegnata direi, praticamente da sempre ad essere tenuta in disparte da tutti coloro che nei secoli qui avevano governato. La gente che ci viveva (allora mi pareva ma, in parte, sbagliavo) non sembrava per nulla interessata alle cose che interessavano a me e, così, vivevo in una situazione di solitudine psicologica, ma anche fisica, quasi totale. Da una parte desideravo dunque distaccarmi in ogni modo da quel mondo che mi appariva limitato, soffocante, privo di slanci ideali, mentre, dall’altra, quella natura continuava ad esercitare su di me un’attrazione fortissima che mi impediva di andarmene. Soltanto lì - pur sentendomi sempre come un esiliato nel mondo - riuscivo in qualche modo ad essere me stesso. Così, pur essendo nato in una famiglia dove non si è mai parlato in italiano (penso di averlo sentito per la prima volta a scuola), per anni ho avuto come una specie di rigetto verso tutto ciò che riguardava il dialetto e la cultura locale. Volevo emanciparmi e, per far questo, diressi ogni mio interesse verso autori come Leopardi, Nietzche, Schopenauer, Baudelaire, Rimbaud e poi Char, Saint John Perse, RilKe, Celan e tanti altri capaci di mostrarmi il mondo da altri, inediti punti di vista. Non volevo, soprattutto, accettare supinamente le cose come mi erano state insegnate; non volevo vivere secondo regole ispirate dal comune buon senso senza aver capito prima se avessero davvero un senso, se non fossero, cioè, il frutto di quelle scorciatoie che sono di solito le paure o i preconcetti. Nell’attesa di trovare qualcuno che mi comprendesse o meglio, più semplicemente, con cui poter parlare, mi abituai così a scrivere e dipingere come uno che lancia le sue richieste di aiuto nel mare del tempo e non sa né dove arriveranno, se arriveranno, e tantomeno se qualcuno le raccoglierà. Ho sempre, e sempre profondamente, vissuto l’arte come un bisogno primario di comunicazione in cui, però, non ci si deve mai porre il problema di essere immediatamente compresi. Possiamo avere la fortuna di essere capiti ed accettati da chi ci sta intorno o da qualcuno che non conosceremo mai, quando non ci saremo più. L’importante è credere che stiamo parlando a qualcuno e lo stiamo facendo soppesando le nostre parole con la bilancia della vita e della morte. In questo senso, davvero, a volte i discorsi più veri li facciamo dialogando con autori scomparsi da secoli, in immaginarie stanze illuminate dalla luce tremante di una candela, o con qualcuno che, ancora non nato, un domani coglierà dai rami delle nostre parole frutti impensati.
Sono arrivato, dopo lunghe e inquiete peregrinazioni, sulla soglia dei vent’anni scrivendo soltanto poesie in lingua e mai avrei immaginato di poter scrivere impiegando quella parlata così come l’avevo appresa a casa “de garzonét” (“da bambino”). Avevo già letto qualcosa di Marin, che stimavo, e di qualche altro autore in dialetto; ma, devo dire la verità, in quel tempo amavo infinitamente di più altri poeti. Come Pasolini, di cui cercavo avidamente in biblioteca ogni opera. Fino a quando non mi capitarono tra le mani “Le poesie a Casarsa”. E, da quel momento, la mia vita cambiò. Quelle poesie davvero segnarono una svolta poichè, fino ad allora, in ciò che scrivevo non mi era mai sembrato di riuscire a definire le cose come le sentivo. L’italiano non era la mia lingua vera, seppure molto amata, e quindi tra le cose e i nomi che le definivano si apriva, per me, come una sorta di abisso incolmabile. Queste cose, devo dire, però le ho capite più tardi; allora, semplicemente, mi sembrava di essere o troppo letterario o troppo sofisticato nella scelta dei termini. In realtà, tutti questi non erano altro che tentativi, perlopiù vani, di restituire a quelle cose la parte per me mancante, la realtà tangibile con i suoi profumi, i suoi sempre diversi colori, una realtà che io avevo conosciuto però con altri nomi. E questi nomi li ritrovai nelle poesie di Pasolini. C’erano difatti, in quelle liriche, molti termini che avevo sentito ed anche adoperato nell’infanzia (il bisiàc, pur essendo una parlata fondamentalmente veneta, ha in comune con il friulano numerosi vocaboli), ma soprattutto - ed è la primissima impressione - ciò che più mi meravigliò fu come quelle parole, che per tanto tempo avevo voluto rimuovere, ritraessero alla perfezione i paesaggi da me tanto amati di queste terre di confine. Il suono di quei termini era un tutt’uno con le cose che definivano, per cui leggevo e, all’istante, vedevo davanti a me rogge, salici, argini come in una fotografia incredibilmente nitida. Questo fece sì che la mia parlata nativa, per lungo tempo snobbata, acquistasse all’improvviso ai miei occhi un prestigio, fino a qualche istante prima, del tutto inimmaginabile.
Da qui nacque anche l’impulso a scrivere in dialetto bisiàc, un raro “sermo rusticus” di tipo arcaico veneto - ma che al suo interno contiene anche numerosi termini ladini, sloveni, tedeschi e francesi - parlato ancora nei paesi del monfalconese. Il che si rivelò, però, una cosa per nulla semplice. Questo soprattutto perchè nel frattempo avevo espunto dal mio lessico quotidiano molte parole che nell’infanzia impiegavo normalmente (e che nel frattempo avevo dimenticate). Non possedevo, inoltre, nemmeno un vocabolario del mio dialetto ma comunque scrissi, come potevo, un certo numero di testi che mi fecero finalmente sperare di essere su una buona strada. Per quasi un’intera annata (era il 1989 e avevo vent’anni) mi dedicai forsennatamente alla scrittura in dialetto ed allo studio di una parlata che non avrei mai creduto così insospettabilmente ricca. Ricordo le notti intere passate a riscoprire termini dimenticati, a scrivere e riscrivere liriche che ancora rimanevano non altro, a volte, che delle traduzioni in dialetto di versi ancora pensati in italiano. Ben presto mi accorsi, anche grazie a persone come l’amica poeta Marilisa Trevisan, che soltanto riappropriandomi totalmente di quella perduta parlata, conoscendola in tutte le sue minime sfumature, avrei potuto creare qualcosa di originale e veritiero. In sostanza, mi ritrovavo ad essere come un pittore quasi senza colori, con pochi pennelli, che vorrebbe ritrarre un paesaggio dalle mille sfumature.
Il dialetto inoltre, in quanto “lingua della realtà” com’è stato definito - anche se di una realtà forse molto più aperta al magico rispetto a quella in cui viviamo - non comprendeva la sfera concettuale, nemmeno nei suoi aspetti più banali (la parola “felicità” non ha corrispondenti in bisiàc). Per cui mi accorsi che, in mancanza di termini appropriati, dovevo trovare altri termini che, una volta accostati, grazie anche alla loro sonorità, potessero alludere a realtà che da soli non avrebbero, forse, potuto mai esprimere. Il tutto sarebbe stato ovviamente più semplice introducendo degli italianismi, andando ad attingere altrove ciò di cui il dialetto era privo, ma era proprio questo suo essere qualcosa d’altro rispetto all’ufficialità della lingua, il suo essere cosa tra le cose e non pensiero che incasella, divide la realtà in categorie, che mi affascinava e che, assolutamente, non avrei voluto mai tradire attraverso gratuite forzature. Per cui ho scelto di rimanere entro quei confini che, come tutti i confini, possono essere visti anche come frontiere di mondi sconosciuti, mondi ancora da esplorare.
Un altro problema, comune ad altri poeti della mia generazione, è che, pur avendo sempre parlato in dialetto, il mondo in cui quel dialetto si era formato ormai andava sparendo, se non era già scomparso da anni, decenni a volte. Avevo avuto la grande fortuna di nascere in un’ambiente ancora in larga parte intatto, con una natura ancora onnipresente in forma di fiumi e rogge, alberi, uccelli, animali ma, al contempo, anche l’inquietudine di vivere tra persone che stavano rapidamente e brutalmente recidendo i legami con quel mondo passato - certamente non facile - per addentrarsi nei meandri di una realtà sempre di più ovunque uguale, dove le differenze andavano annullandosi e la meravigliosa varietà dell’esistente perdendosi, a volte, per sempre. Non mi interessava accodarmi a quella corsa di figure bendate, che non condividevo, che mi appariva e mi appare basata soltanto sull’esaltazione del proprio ego, indifferente alle esigenze degli altri e dell’ambiente in cui ci ritroviamo a vivere. Ho sentito che, invece, era necessario per me procedere a ritroso, ritrovare nel passato le chiavi per poter riaccedere ad un’altra visione della vita, fatta di continuità tra ieri e oggi, di sapienze secolari, segrete visioni della realtà. Quelle di cui ancora, a volte, mi facevano partecipi i più anziani o coloro che, per tradizione famigliare, avevano imparato a custodirle gelosamente, come un patrimonio da non disperdere. Ho sempre pensato a qualcuno, scrivendo, ma non so davvero per chi scrivo. Quel che so è che non sarà certo la difficoltà della lingua ad impedire alla poesia di arrivare, se ne avrà la forza, dove deve arrivare. Le parole di un poeta cinese di mille anni fa, pur tradotto, a volte le sentiamo più vicine di quelle di chi ci vive accanto. Ma forse, prima ancora di pensare ad un possibile lettore, scrivo forse per avvicinarmi a quel me stesso che sarò, che non conosco ancora, se la scrittura, come la pittura, sono da sempre dei mezzi che mi spingono ad esplorare zone di me, del mondo, in cui forse da solo non mi sarei mai avventurato, come incamminandosi lungo un sentiero senza mai sapere dove porta e chi saremo alla fine - se mai ci sarà - del nostro viaggio.


LISONZ

Par giaroni ciari de gnente me ’nvïo,
loghi de disért spiandor, onde che ’l còdul
al se frua saldo ’nzeà de ziti. Al vént
de boi se ’ndulzisse cu’l udor fiéul
dei pirantoni; là in cau, smagnada
del ciaro, zente foresta la polsa
zidìna, senza spetar. Del desmentegarme
al me recordo de nóu al se ànema
cui lusori che in alt - virtindo del burlaz -
i se ’npïa ta le ponte, contra al biau nét.

ISONZO

Lungo greti chiari di niente mi avvio,
luoghi dal deserto splendore, dove il ciottolo
si consuma da sempre abbagliato di silenzi. L’aria
infuocata si addolcisce con l’odore sottile
dei fiori di topinambùr; là in fondo, erosa
dalla luce, gente sconosciuta riposa
in silenzio, senza aspettare. Dal dimenticarmi
il mio ricordo si rianima con i chiarori
che in alto - preannunciando il temporale -
si accendono sulle cime degli alberi, contro l’azzurro puro.


dal libro Piture del 1997

CONZE’

Al sgorl dei sbiri cuntìneva l’unbrìa
de le robe che le me passa oltra
senza catar un prinzìpio o ’na fìn;
óse che le é antre óse ’ncora
e talpe de ciaro ta midài de neve.

Como scanpadi del flis’co nét del tenp,
réfui i mena remandi de vite
cussì desmentegade de éssar nostre,
fiuridure bianche de russa ta la zita
mai ’nbunida corantìa de le stazon.

CONGEDO

Il volo dei rondoni continua l’ombra
delle cose che mi attraversano
senza incontrare un principio o una fine;
voci che sono altre voci ancora
e passi di luce su soglie di neve.

Come sfuggite alla chiara devastazione
del tempo, folate di vento recano echi di vite
così dimenticate da essere nostre,
fioriture bianche di rovo nella silenziosa
mai sepolta corrente delle stagioni.


Dal libro Maitani del 2003

Zorni

Zorni che i xe ta i passi su la piéra
del salizo. Ta la zente che passa
cu’l vardar che ’l luma ’l so disparir,
al roàn de la glicinia, curuda
del vént, che se ’ngranpa ta ’l modon brusà.
Musi missiadi cu’la sdruma zidìna

de le fòie che le casca, menade
de un réf fin ta i taulìni, fra naltri
che stemo fermi senza dir a. Senza
gnente de zontar al zito del lusor
che ’l plozca tra un ciap de tortoréle
sora i coèrti, comòdo de l’alt

drento i pinsiéri - speciada su l’àqua
dei goti - la firida biava del ziél.
Un ziél péna ’ndivinà più che vidù.
Che un sést pìzul de la man al basta
(zirando straviàda al guciarìn)
par sbregar contra i òri de véro.

Giorni

Giorni che sono nei passi sulla pietra
del selciato. Nella gente che passa assieme
allo sguardo che ne fissa la scomparsa, al viola
del glicine, corso dal vento, che si aggrappa
al mattone bruciato. Volti mescolati con la folla

silenziosa delle foglie che cadono, portate
da un soffio di vento in mezzo ai tavoli, fra noi
che stiamo fermi senza parlare. Senza
niente da aggiungere al silenzio della luce
che precipita tra un gruppo di tortore
sopra i tetti, come dall’alto

nei pensieri - specchiata sull’acqua
dei bicchieri - la ferita azzurra del cielo.
Un cielo più presentito che visto.
Che un minimo gesto della mano basta
(girando distratta il cucchiaino)
per infrangere contro i bordi di vetro.


Nota bio-bibliografica di Ivan Crico
Nato a Gorizia nel1968, ha iniziato gli studi artistici nel 1981 diplomandosi in pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia.
A partire dal 1983, ha iniziato ad esporre in numerose collettive in Italia e all’estero. Dal 1995 ha iniziato ad interessarsi anche alla decorazione antica e al restauro, lavorando in seguito a grandi lavori di ricostruzione di affreschi in prestigiose ville e palazzi storici. Dal 2002 è stato invitato a tenere dei corsi d’alta decorazione all’Istituto Statale d’Arte di Gorizia.
Dopo essersi inizialmente segnalato come poeta in lingua, nel 1989 ha cominciato ad impiegare la nativa parlata bisiaca, Suoi testi poetici e saggi critici sono apparsi, a partire dal 1992, sulle maggiori riviste italiane come "Poesia", “Lengua”, “Diverse Lingue”, “Tratti", "Frontiera”. Nel dicembre 1997 ha pubblicato Piture, a cura di Giovanni Tesio, per l’editore Boetti di Mondovì e nel 2003, per il Circolo Culturale di Meduno, con prefazione di Antonella Anedda, Maitàni.
Della sua poesia si sono occupati i maggiori critici italiani da Brevini a Tesio, da Villalta a D’Elia.
Per diversi anni ha organizzato, nell’antica chiesa di Santa Maria in Monte a Fogliano (GO) incontri di poesia con poeti italiani, esteri e in dialetto accompagnati da importanti musicisti. Figura tra i nove autori inseriti nell’ antologia "Tanche giaiutis" curata da Amedeo Giacomini che comprende i poeti più significativi nei dialetti e le lingue minori degli ultimi decenni del Friuli Venezia-Giulia ed è stato incluso anche all’interno della fondamentale antologia “Via Terra”, di prossima uscita, che comprende i maggiori poeti della poesia neodialettale italiana.

Le letture di poesie in bisiàc di Ivan Crico sono accompagnate dai musicisti Tullio Angelini (tapes) e Carlo Mariani (launeddas). Tullio Angelini ha collaborato con musicisti come David Shea e John Zorn per la creazione di innovativi cd in cui sonorità contemporanee ed antiche si incontrano creando sorprendenti paesaggi sonori, dedicandosi negli ultimi anni, inoltre, a mettere in luce le magiche figure (a lungo dimenticate e riscoperte da Carlo Ginzburg in un suo famoso libro) dei benandanti nel monfalconese.
Carlo Mariani recupera invece uno degli strumenti più antichi del Mediterraneo, le Launeddas, uno strumento a canne, ancora in uso nella sua natìa Sardegna, di cui è uno dei massimi esecutori a livello mondiale.

3 commenti a questo articolo

Di un’altra lingua, il bisiàc di Ivan Crico
2007-02-03 18:20:56|di Luigi

Maitàni è un bel libro (grazie, Ivan, del regalo!). Il lavoro di Crico sul bisiac è importante, sia a livello di autore che di divulgatore (essendo presidente dell’ass. cult. bisiaca).

Lessi su un numero di "Autografo" dedicato ai dialetti (credo fosse il 2003, ma potrei sbagliare) un’accusa di Flavio Santi a Crico e Cappello, in quanto - se non ricordo male - propugnatori di un idillio che poco ha a che fare con le contraddizioni del contemporaneo. Mi piacerebbe che Santi, se qui di passaggio, venisse a parlarne (magari a smentirmi).


Di un’altra lingua, il bisiàc di Ivan Crico
2007-02-03 17:18:21|di Christian

Perché non posti una selezione di tuoi testi Vincenzo? Poi possiamo far uscire un po’ di poesia del friuli venezia giulia...io finora ho postato quasi tutti i triestini/ammutinati -tranne Nacci, che può postare i testi da solo, e che mi ha vietato di postare una sua selezione-, Obit, Crico, e stanno per uscire un "giovane" (come noi) di Villa Vicentina, Gianni Bertossi, e una selezione dal libro di Marina Giovannelli. Ma navigo a vista. Se ci son più navi non sarebbe male.


Di un’altra lingua, il bisiàc di Ivan Crico
2007-02-03 16:49:03|di Vincenzo

Sono contento di leggere Ivan qua su AP.


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