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Disco Inferno

5 testi di Gabriele Frasca, Rosaria Lo Russo, Tommaso Ottonieri, Lello Voce, Aldo Nove

Articolo postato venerdì 23 marzo 2007
da nuvoleonline

Presentiamo i cinque testi poetici dalla seconda performance della serata:

Lucilla Giagnoni / Alessio Bertallot in Disco Inferno - Absolute Issue
su testi di Dante e postille in versi di Gabriele Frasca, Rosaria Lo Russo, Aldo Nove,Tommaso Ottonieri, Lello Voce


Gabriele Frasca

Là dove terminava quella valle

l’ultima lunga curva fra i castagni fin dove s’affacciavano le felci. erano femmine viste le foglie due volte suddivise verde chiaro. sbucavano dal folto delle piante che toglievano luce alle pendici. protese dallo zoccolo di pietra che chiudeva il canale dello scolo. appena comparivano alla svolta procedeva tenendole di vista. non cambiava il percorso né le soste giungevano inattese a rinnovarlo. così si mise in posa come al solito all’ombra inumidita delle chiome. in quell’irredimibile mollume sentì che ritornava a respirare. l’aria ora amara dell’autunno atteso malgrado il bello già pungeva il volto. oltre il riparo il sole risaltava la strada butterata di bitume. ma non aveva voglia di tornarvi a completare il giorno di cammino. c’era quel fresco spesso quasi d’acqua dove sentirsi tergere la terra. tutta quella rimasta sulle suole e l’altra che sapeva l’ingoiava. e quella ancora che con la saliva restava sul palato come pasta. non c’era per mandare giù quel bolo che il posto delle felci nella curva. dove all’umore della sgrondatura pareva il suolo appena emerso marcio. per questo quando il tempo dava al secco a lungo vi sostava a deglutire. tutto il troppo di terra che tornava ad otturare i varchi della pelle. e cementare quasi le narici dove passava solo un filo d’aria. socchiuse gli occhi e poi su quell’odore provò a calarvi un paio di richiami. rapidi scorci tratti dai residui di intrecci tramandati a voce muta. ne venne fuori il bel nome di nanfa ma perse il senso sùbito del frutto. tornò invece l’immagine del fradicio e senza il tanfo né la sua parola. una poltiglia prima e infine il limo che s’asciugava presto sul terriccio. guardò le mani a scorgerne le crepe dove il deserto non avrebbe smesso. né mai l’aveva fatto di calcare in silenzio il sentiero che alle rocce. sarebbe giunto quando col suo trito di sabbia avrebbe chiuso tutti i pori. finanche il filo d’aria che nell’umido assaporava ancora necessario. lo aveva visto sublimarsi a tanti dei troppi che serbava sempre vivi. nella bassa pescaia dove l’acqua sgrondava a tutti un corpo dilavato. cui far calzare tratti inconsistenti come il richiamo stesso dei profumi. un unico pupazzo e tante maschere appese alla bisogna lungo l’argine. un fantoccio di fango nel suo fluido e tanta terra cotta in tutta fretta. per riprodurre almeno l’espressione per quanto intercambiabile di un viso. ne cavò su il bel nome di mamma ma perse il frutto sùbito del senso. tornò invece in un rantolo il respiro come una replica o una sintonia. la stessa fame no la stessa sete non d’aria ma di quello che s’essicca. se ciò che irriga infine sedimenta e bisogna spurgare con la draga. persino l’acqua stessa che disseta deposita passando i suoi detriti. c’è sempre tanta roba in sospensione e basta poco per stratificarla. o vi è la pietra oppure la poltiglia e quella voglia d’essere solvente. mentre il livello della chiusa scende e altri calchi s’asciugano d’argilla. finisce poi che pesano e ogni giorno se li portava fino alla felceta. a respirare tutti col suo fiato l’umore stesso della prima vita. con cui sciogliere un gesto non richiesto come un corpo sommosso dal deflusso. ma sùbito spiaggiato sopra il senso sfruttato di un bel nome da disperdere. ancora in un residuo inaridito da compattare nella strozzatura. coi resti di materia che la mente trattiene via da quella disgregata. finché quel grasso in ultimo richiuda con la sua presa d’aria la ferita. secernendo da sé ciò ch’era d’altri e ognuno appiccicò come la biuta.


Rosaria Lo Russo

Crolli per Canto v dell’Inferno

I

Mi arrendo. Alzo le braccia –
ricadono, di ottone e alabastro
il soprammobile cuore resta di sasso
e scivola così, lento come un calcolo,
ad occupare il palloncino verde bile e poi più giù
s’insedia nel sacchetto floscio della matrice dove
impreziosisce. E prende fuoco la miccia carotide,
implodono parole dalla tua bocca alla mia bocca
dello stomaco, e sgomitano.
E così arguisco, nella centrifuga di un’occhiata
maligna la pura verità di uno sgomento.
E così ardisce, nella centripeta mente,
per certezze intermittenti lampi la semplicità
assoluta della nostra definitiva smentita.

II

Una piccola mossa, un gesto abortito di dita
fredde, mi cascano parole e fumo dalla bocca.
Nessuno arbitra questa partita
Nessuno spettatore caldeggia questo palio
Nessuno abita questi due corpi.
Perciò ti arresti a metà discorso avvertendo
attoniti un dissesto nelle ossa, stanchi morti
tentiamo distratte circonduzioni del collo.
Cortocircuiti di anacoluti impacciati,
valentie millantate circuiscono le bocche
arrotondate. I denti si arrotano pronti a mordere
verbi feroci a morte, recriminazioni sessuali, svendite
delle rimanenze all’asta dei souvenir di un nostro
viaggio-premio rimandato in eterno.

IV

Mentre spidocchio i pensieri mi arresto
ad un preistorico ovetto grigio trasparente
a cui buon sangue non mente: tu ed io, non
se ne fa di niente. Che se il tuo sangue non
è acqua ma sperma è inutile piangere sul sangue
che verso. Se il sangue del tuo sangue sboccerà
da lacrime vero o falso è inutile piangere
sul mio sangue ch’è acqua. Ma è l’anima
dimessa delle cose l’avvertimento della loro
dolce presenza, la dolce presenza delle cose
dismesse dà loro una luce tutta particolare.
Il respiro si fa grosso e il tempo poco,
fra creature nude di legno si spegne il focolare.

VI

L’amore odiato non è bello è un tipo, un tipo
tosto, inquartato, non direi bello, una folla
di denti di varia angolatura, spigoli dove
sbatto come ciglia o piuma, ed una cicatrice che si stira
come una gattina sul labbro inferiore, se sorride,
e se un sorriso divarica la bocca coprendosi con mano
tremula di pudore. Ma non ha pudore né amore melodioso
quando desiste dall’aggrottarsi e si dimette ad-
dormentandosi o quando, mentre si rade, manda acidi
odori selvatici di maschio enunciando un ritardo,
il solito ritardo di madre, un ritardo che fa madre,
una madre implacabile che tardiva lo spia
dall’angolo agonico del suo specchio grandangolare.
Che faccia anche gola lo so quella faccia di schiuma.

VII

Mentre l’allatto con una pisciata che sorretta in fronte
delimita senza dubbio un sogno di possesso da serrata mente,
retta avarìa dissemina le cose che spolvero come trofei, tipo
le tue zanne d’avorio. Allora le cose simpatiche e colorate,
che attendono in cucina il mio risveglio azzurrino infreddo-
lito, vengono sbugiardate allegramente da un bastardino
che le penetra da dietro scodinzolando grande copro,
grande corpo all’ombra del quale riparo offrendo-
mi di schiena come donna sgombrata, una mesta modesta
bellezza cicladica, grande madre di terra caucaustica e pura
più di quelle con le acque scure, le madonne brune.
Innocente travaglio di pancia a vuoto, pancia senz’ombra
di dubbio ingenuo esponente bionde curve al posto di cose
messe nel cantiere frigorifero ad avariare insieme.

VII

(Parti – In sogno)

Questo dolore che non dà più piacere rifinisce in incubo.
Rifinisce un incubo in cui cucito su un catafalco ti rimpalmano
alle dure convenienze, con convolvoli di convenevoli
cucinati agli astanti, convolando a nozze astemie.
E presto via dagli astanti astenici e sbigotti via
verso conventi di detenuti, astenuti per un punto
alla perdura. E da capo ti diventa duro e disperato
lo nascondi fra le cosce grosse e ti fai mostro
di femmina ingravidata a nozze in coalizione con la morte
di certe parti, inquinati, iniqui. Corte le braccia mie a penzoloni lungo
una svolazzante sottoveste candida mettono in croce il cimitero
dei canini miei famigli, fra gli artati bisbigli di riprovazione
degli astanti in sbadigli. Suppura così una grossa privazione,
è vero, siamo piuttosto figli che padri e madri intramurati
da guaiti nottambuli. Ambulanti finiti sulla carrozza cimiciosa
di un treno-camicia-di-forza, pel breve tempo di elemosinare
finti sordi sul treno-desiderio che prendo per non sentirmi sola,
con la scusa di venire da te per stare finalmente un po’ sola. Scusa
se il controllore zoppo che sorride solo per amor di divisa
m’affaccia diversa, divarica un panorama diviso dai tuoi goffi
preamboli, l’imbarazzo di te che ti diverti alla facciaccia
dei miei graziosi vaffànculi allorquando ti scusi e giri il culo e
te ne vai per diversivo rassegnando losche dimissioni!
Questo dolore quando dava piacere era lardo che colonna,
era un vezzo riflesso ladro d’oro tra vetrine di mercerie
smeriglie di colate di bagnoschiuma vermiglio e detersivo
smeraldo per lavastoviglie. Avvezza alle macerie d’ora in ora
avvizzisco come la stretta contrita svanisce alla promessa
che dismette le mani in frantumi, sbrecco di piatti in ira
al tutto tondo. Divezzami dal cazzo che gongola,
scavezzacollo, divorziami. Scavezzami dalla promessa
permalosa della specie che ci gogna, stufi mammiferi
da zoppica-cicogna e babbi-babbuini appartati al largo della mente.


Lello Voce

Da: Piccola cucina cannibale

ho bisogno di una scorciatoia lenta e di una vita che mi menta
dove si senta il suono spento d’ogni sentimento io ho bisogno
di un sogno lasciato indietro di trovare un metro alla menzogna
di sfuggire alla gogna bisogno di silenzio di assenzio e mugugno
ho bisogno di tatto d’olfatto di dare di matto sfuggire allo scacco
bisogno di occhi e polpastrelli di lingua di narici di mitragliatrici
di un gorgo sordo che inghiotta il futuro di una vena delle tue radici

) strappami le pupille e masticale con tenerezza assapora il gusto
amaro dello sparo e la polvere che ho sparso sulle emozioni tagliami
la lingua e brucia la punta fino a che il fumo non si fa incenso,
fino trovare un senso)

se ancora esisto è per nutrirti per stupirti per sfuggirti e per tradirti
metterti spalle al muro all’angolo e chiederti di arrenderti al segno
ambiguo che ci separa all’aria rara che sta tra noi e ci unisce in
un soffio al vuoto d’ogni nostro moto se ancora esisto è per dirti
per favore continua a stupirti per dirti bada che amore non fa rima

con cuore ma con la fame e il rombo infame del dolore

) divaricami le gambe e staccale dal tronco smonta le ginocchia
svuotale di liquidi e parole asciugale al fuoco lento del dubbio
affonda l’accetta alle natiche con un colpo secco e netto dividimi

fammi a pezzi divorami)


Tommaso Ottonieri

se il monte, venuto levitando, dell’uno e l’altro corno, da un ombelico d’acque, e di ponente il mondo che vi ha principio taglia – se, grado a grado, sul primo piano a nostro fuoco allarga, inverso l’ale che ritte al bino soverchiar si planino – e lame di luce sopra il destarsi di downtown e de gli smog tutto d’attorno, opaco, il suo cristallo slancia – se il ciel d’acciaio la sua punta pènetra, e irraggia –
e se sua massa, a mulinare in sopra e in giuso e come e fusa e rallentatamente, per sincopi di flash microscatti di strobo – se quella fissa ci attrae dentro il fuoco che i meridiani quasi veline di suo riflesso – dall’arco flesso – incendia, se qui si stringe opalescendo de le specchianti placche a escrescere, la massa, dal suo vuoto – se alta tanto, e così tanto, alta, che, a scintillare, che, alta, che, noi – e al sentiero tratti aereo del fuoco –
se il monte approssimando si fa torre al nostro fuoco, bicorne torre e semovendo allato, e in suso, e il centro sbiella schiuso per suo moto – se liscia fluttua la sua altura e de’ raggi che rimanda lo specchio d’acque instella, e striscia, all’alto, dentro la distanza – e fissa in sé come serpente ruota – che molecola a molecola sia lievito il suo emergere, qual turbo d’uragano dagli inferiori lembi de l’atmosfera avanza – se avvita all’alto il vortice a cui attorce la sua danza – e a noi che a lei viriamo l’ali il fronte scintillando porge, – se al riflesso che s’erge dalle acque – e il seme scuro di catastrofi, il vento folle l’arca – di nostra poppa, impresso – se rosso tinge l’aere, il volo, e come terso, e perso in vetro l’aere si dilacca – se il tuono spinge a che si spenga lo specchio de la spera – e stride, il suono, vi s’intrude, e slaccia –

se la rotta corretta vi converge, e gàrruli leva amari il ferro e dritto e s’alza e stride e storna e al suo stagliarsi atterra – e avvita stretto a compier la sua stanza – se, lei, gravitando d’acque, isola verticale o parete, miraggio – specchio duro de’ raggi oh magnete ariete de l’esplodere – se è la torre sua luce minerale l’arrocco, che si oppone – se incontro a lo spirare di turbìna il cristallo è rocca, è specchio, è ventre, e al volo folle mente si espone, se
scuro dal sole che de la coda s’alza, a giungersi al terrore del risplendere, se dunque lìvido al chiarore, che portiamo, è cavo il suo rintocco, a tendersi – se, adesso, per ciascun strato dell’aria, che la prua penetra e scinde, e mulinandone il turbine le trombe di tempesta detonandone il rombo la punta nel cuneo dovrà infiggere – o che nel vallo de le ponenti canoscenze il ferro nostro ora più stretto spinge, se fende adesso il solco che si sborda, all’incombere del fulmine, se vira dritto sul duplice stallo – il ferro, da retro spinto dal turbo del sole, e giù strapiomba dal culmine la prora e il sentiero nel mattutino taglia – e la scia, il vapore, se già v’irrora la luce la brace il fisso del suo albore l’alta striscia presagio d’implosione – se a la placenta d’aria lo strombo avvampa dell’ultima tempesta e si mulina – se il rombo al cielo basso si calcina, e fuse al rombo calano orazioni –

se su dall’acque, la nova torre, surta, si trema – di retro all’angelo che irto torreggia in sua corona e nulla può ormai – o se nell’occhio rotea del suo aere morto e il vuoto d’aria in uragano esplode se come vampa il vuoto oscilla dal sommo dal colmo della fiaccola – se lucida nello strepitare d’occàso, cruda ne l’ammutirsi di strèpito stellare, l’occidua torre, avvolta di suo manto, de la terra lievita nell’alto al salto nell’acciaio – si leva e brilla a le tempeste che s’accalcano, e sul perno aspro del cielo prilla, come d’un tratto, quasi che tolta in su di crudo parto – e che più saldo su dal cristallo si sborda il velo fragile al contatto del cielo, a cui doppia la cima – sempre più ritta, par tocchi e pènetri, prima del collasso – se ferma oscilla al muto consumarsi di vigilia, o nell’alba che si avanza del ponente, dismesso ogni nesso a la superficie, che lasciammo, e la scintilla – in quel chiarore muti già in turbo, e strobo, e scocchi, nel boato! – noi nella luce a brevi scatti della sfera, che di retro non arresta di ruotare, ora, sì,
sbatta, oh sì s’abbatta il raggio sopra il riflesso liquido della fusoliera – moltiplichi i bagliori sullo schianto d’acciaio, per il cozzo imminente dei metalli! e noi sospinga, ormai, cunei al bersaglio – e, come di miccia, in boato slarghi! – se d’un attimo, in avanti, protési, gli artigli il folle volo fermeranno su la sfalsata sommità che a sé lo inghiotta, il volo, e se ne pènetri! – e nello specchio del suo ventre assorbendo – sino a la coda, d’un tratto levatasi in suso – del muso di metallo la torre scossa sarà preda:

noi, siamo, la semenza, che affonda dentro il sogno di cristallo: la coscienza accecata dell’occàso:
lo stridore che dilania lo stallo:
siamo la trama che al suo fine scorre, la faccia interna della torre, in cui in fusione, siamo
carbone d’angeli della storia che azzeriamo, dalla prora che infiggiamo, siamo il rogo:
dell’occidente, l’arsi:
che dia senso al finito suo protrarsi:
la scheggia, sul perno, che fermi il suo gioco:
siamo la fiamma duplice siamo l’implodere nel sogno tecno della specie, il suo seme il suo requiem, siamo il rollìo il crollo la mutezza degli astri, il perdersi del fuoco:
fosforo d’apocalissi, siamo l’eclissi:
il grido che strozza nel rostro:
noi questa chiave, siamo, e il rogo, e l’arsi:
fin che la torre non si fa cratere – fissa al reply del sùbito svuotarsi:
fino a che il cielo ovunque non collassi:
e sull’inferno, che è qui, cada il suo soffitto di cristallo


Aldo Nove

Lucifero 2007 Kylie’s Come Back Remix

I

non ho avuto invidia dei drogati
dei mussulmani
dei bambini che gridano la notte
volevo solamente dormire
nei secoli sapere
quanto ero meglio
ero stato creata
con ordine
con misura
con esatta ripartizione dei capitali
nel silenzio
pulivo la casa
la mia casa
la più pulita del mondo
la mia auto
la meglio parcheggiata del mondo
i miei fiori
i meglio innaffiati
fiori
del mondo

e la mia bellezza
il mio silenzio
i miei soldi
non ho mai voluto fare del male a nessuno
ma quelle grida, quello
scomposto spostarsi
dei nomi, quelle
sillabe
buttate dappertutto
nel mio giardino facevano
disordine io
volevo soltanto che tutto
fosse organizzato volevo
dormire per sempre
conficcata
nel sogno che tutti
facciamo
pulito
perfetto

per la pace che eternamente
per la giustizia che deve
per la democrazia
per il rispetto delle nostre
per tutto quelle che mio marito
per la pulizia dei mobili acquistati

non ho mai cercato di capire
quello che fuori da me non era ordinato
era sporco
mio marito
aveva organizzato tutto
le stelle e i pianeti e
la cucina nello
scorrere dei secoli
nei secoli mio marito
ero io
sposa a me stessa
portatrice di luce
nella luce
delle vetrine
pulite
arredate
con gusto

della mia casa non
ho mai avuto invidia dei drogati ho sempre
pensato che ciascuno
dovrebbe avere del petrolio
da darmi
per pulire la casa
le vetrine senza
piangere continuamente come
quel bambino come
tutti gli altri bambini come
questo disordine che nessuno
può comprendere senza
pulire ogni giorno la veranda le
posate nei
secoli dei secoli io sono
l’angelo della
luce io sono
l’angelo
del focolare

II

a forma d’uomo,
meglio con cravatta
dolce e gabbana, a forma
d’incidente,
a forma di tangente
intransigente
a forma della gente
dove il niente
mi svapora,
non mente

a forma d’evasione,
conclusione
di questa trasmissione,
la vostra, in questa
crosta
di nulla, la foresta
incriminata,
non mai generata
e stanca, la
mia banca,

la mia bianca
coscienza, rilavata,
l’oculata
sventata mattinata,
rinnovata, mia
adorata,
sventrata
passeggiata
immobile nel centro
dove voi siete
dentro

3 commenti a questo articolo

Disco Inferno
2007-04-22 14:18:20|

Invece a me era piaciuto, forse nella sua natia Novara, Lucilla rende meglio.... o forse che per il nulla della grigia città di Vassalli, anche poco è tantissimo.....


Disco Inferno
2007-03-23 22:40:51|di Matteo Danieli

inizio folgorante con musiche dei Led Zeppelin e dei Pink Floyd poi non funziona l’intreccio? La Giagnoni perde un colpo dopo l’altro - oggi non è serata - non è giornata - è una giornata scadente - e tutto si rifrange nella mente tranne la Lo Russo col suo delirio sui pattinatori e il rap morbido di Voce, non solo non funziona tutto, frana.


Disco Inferno
2007-03-23 22:27:37|di Christian

Inizio scoppiettante, poi non funziona l’intreccio tra i video con le letture di Voce, Frasca, Lo Russo, Ottonieri, Nove e gli "intermezzi" di prosa della Giagnoni, che rasentano delle banalità "apocalittiche". Se rimanesse solamente Bertallot, e i video, sarebbe meglio!


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