Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
Posto un articolo apparso il 28 novembre scorso sul "Corriere della Sera" a firma di Cristina Taglietti. Il tema è all’ordine del giorno negli ultimi anni. Esistono ancora i critici militanti? E chi sono? Prova a rispondere Massimo Onofri, docente di critica letteraria all’Università di Sassari.
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Dibattito - Il pensiero militante nell’ epoca del conformismo. Interviene Massimo Onofri
Critici, essere faziosi è un dovere
«Né piacevoli né corretti». I modelli restano Baldacci e Raboni
«La critica, quando è vera, è sempre militante e quindi antagonista». Così si potrebbero riassumere le tesi di La ragione in contumacia (sottotitolo La critica militante ai tempi del fondamentalismo), breve e appassionato pamphlet di Massimo Onofri, in questi giorni in libreria (Donzelli, pp. 122, 15), che ben si inserisce nel dibattito aperto dal Dizionario della critica militante di Filippo La Porta e Giuseppe Leonelli, appena uscito da Bompiani. Nel saggio Onofri si rifà alle radici illuministiche della critica («ma non nel senso di quel revival dell’illuminismo che, riproponendo la lex naturale, va nella stessa direzione di Ratzinger», precisa), parla del «ri-uso», come teorizzava Franco Brioschi, in chiave contemporanea dei testi, riafferma la necessità di concetti come «valore» e «canone», di un «giudizio di gusto» che vive della retorica dell’argomentazione. Onofri non considera l’Autore morto, anzi lo interpreta come «un’entità non riconducibile né alla vita né alla scrittura, ma quale risultato della loro misteriosa contaminazione». Degli aggettivi che La Porta, nel Dizionario, gli attribuisce, e cioè «fazioso umorale e rissoso» (ma scrive anche che «leggere le sue pagine è come prendere una boccata d’aria nel nostro ingessato sistema culturale»), Onofri riconosce come suo soltanto il primo, anzi lo rivendica. La faziosità, e cioè la scelta, è insita al mestiere del critico, altrimenti si è un’altra cosa: storici della letteratura, filologi, scrittori. «Negli anni Settanta, quando io andavo a scuola, Soldati non esisteva nei manuali. Credo di essere stato il primo a dargli in un manuale scolastico uno spazio pari a quello di Moravia per esempio. È chiaro che una ricollocazione di Soldati può significare sacrificare qualcun altro, magari Calvino». Onofri sposa l’idea di Giulio Ferroni di «un’ecologia della letteratura»: «Inorridisco quando sento dire che c’è posto per tutti. Non è così: il critico ha il dovere di denunciare "l’ecomostro", anche quando ha successo». Non solo: c’è un altro male: «Il piacere del testo è diventato l’elogio della piacevolezza. Abbiamo dimenticato tutta una tradizione umanistica per cui la bellezza era un processo che passava anche attraverso la sofferenza. Personalmente voglio leggere libri che facciano soffrire, che mi costringano a mettermi in discussione, il piacevole mi annoia». L’intrattenimento, il successo, sono concetti che per Onofri poco hanno a che fare con la critica. «Prendiamo Guido Da Verona e Federigo Tozzi: il pubblico premiò il primo, del secondo soltanto Giuseppe Antonio Borgese riconobbe subito la grandezza. Chi aveva ragione? Oggi, la stessa contrapposizione si può fare tra Tabucchi e la Ramondino. Il primo, soprattutto negli ultimi romanzi, è rassicurante, corretto, la seconda è aspra, misteriosa, di grande eleganza. La sfida delle copie la vince Tabucchi». Un critico militante, secondo Onofri, deve essere necessariamente polemico, «deve saper dire di no ai testi». Molti invece non lo sanno fare. «Carlo Bo, per esempio: paradossalmente era la negazione della critica militante. Un po’come oggi Emanuele Trevi, che ha certamente una bella penna ma è troppo camaleontico, trova preoccupante scrivere di qualcosa che non gli piace. Così come non capisco perché Roberto Cotroneo si sia pentito di aver praticato, negli anni giovanili, la stroncatura. Oggi si è lasciato andare a una certa pratica del consenso, recensendo solo scrittori celebrati e politicamente corretti. Critici militanti per eccellenza sono stati Luigi Baldacci e Giovanni Raboni che nel suo I bei tempi dei brutti libri, giocava sui parallelismi, su coppie di autori da mettere in contrapposizione e tra cui fare una scelta». E se, a differenza di quanto scrivono La Porta e Leonelli nel Dizionario, non possono essere considerati critici militanti Pietro Citati («lo è stato negli anni Cinquanta, adesso ci parla solo dei classici») o Roberto Calasso («un ginnasta degli assoluti»), oggi, secondo Onofri, la categoria gode di buona salute: «La rappresentano bene Alfonso Berardinelli, Raffaele Manica, Giorgio Ficara, Bruno Pischedda, Massimo Raffaelli, il giovane Paolo Febbraro. Anche Andrea Cortellessa ha una grande attrezzatura tecnica, ma, anche lui, a volte, rischia di dire troppi sì».
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A proposito di PRATICA DEL CONSENSO & STRONCATURA, posto un altro articolo, a firma di Alessandro Baricco, apparso su "La Repubblica" il 1 marzo 2006.
Cari critici, ho diritto a una vera stroncatura
Questo è un articolo che non dovrei scrivere. Lo so. Me lo dico da me. E lo scrivo. Dunque. La scorsa settimana, su queste pagine, esce un articolo di Pietro Citati. Racconta quanto lo ha deliziato mettersi davanti al televisore e vedere i pattinatori-ballerini delle Olimpiadi. Lo deliziava a tal punto - scrive - che "dimenticavo tutto: le noie, le mediocrità, gli errori della mia vita; dimenticavo perfino "l’Iliade" di Baricco, e la vasta e incomprensibile ottusità dei volti di Roberto Calderoli e di Alfonso Pecoraro Scanio". Io ero lì, innocente, che mi leggevo con piacere l’esercizio di stile sull’argomento del giorno e, trac, mi arriva la coltellata. Va be’, dico. E, giusto per mite rivalsa, lascio l’articolo e vado a leggermi l’Audisio.
Qualche giorno dopo, però, vedo sull’"Unità" un lungo articolo di Giulio Ferroni sull’ultimo libro di Vassalli. Bene, mi dico. Perché mi interessa sapere cosa fa Vassalli. Malauguratamente, alcuni dei racconti che ha scritto sono sul rapporto tra gli uomini e l’automobile.
Mentre leggevo la recensione sentivo che finivamo pericolosamente in area "Questa storia" (il mio ultimo romanzo, che parla anche di automobili). Con lo stato d’animo dell’agnello a Pasqua vado avanti temendo il peggio. E infatti, puntuale, quel che mi aspettavo arriva. Al termine di una lunghissima frase in cui si tessono (credo giustamente) elogi a Vassalli, arriva una bella parentesi. Neanche una frase, giusto una parentesi. Dice così: "Che distanza abissale dalla stucchevole e ammiccante epica automobilistica dell’ultimo Baricco!". E voilà. Con tanto di punto esclamativo.
Ora, nessuno è tenuto a saperlo, ma Citati e Ferroni sono, per il loro curriculum e per altre ragioni per me più imperscrutabili, due dei più alti e autorevoli critici letterari del nostro paese. Sono due mandarini della nostra cultura. Per la cronaca, Citati non ha mai recensito la mia "Iliade", e Ferroni non ha mai recensito "Questa storia". Il loro alto contributo critico sui miei due ultimi libri è racchiuso nelle due frasette che avete appena letto, seminate a infarcire articoli che non hanno niente a che vedere con me.
È un modo di fare che conosco bene, e che è piuttosto diffuso, tra i mandarini. Si aggirano nel salotto letterario, incantando il loro uditorio con la raffinatezza delle loro chiacchiere, e poi, con un’aria un po’ infastidita, lasciano cadere lì che lo champagne che stanno bevendo sa di piedi. Risatine complici dell’uditorio, deliziato. Io sarei lo champagne.
Potrei dire che non me ne frega niente. Ma non è vero. Mi ferisce poco la gomitata assestata a tradimento, ma mi offende molto il fatto che sia tutto ciò di cui sono capaci. Mi sorprende il loro sistematico sottrarsi al confronto aperto. La critica è il loro mestiere, santo iddio, che la facciano. Cosa sono queste battutine trasversali messe lì per raccogliere l’applauso ottuso dei fedelissimi? Vi fa schifo che uno adatti l’Iliade per una lettura pubblica e lo faccia in quel modo? Forse è il caso di dirlo in maniera un po’ più argomentata e profonda, chissà che ci scappi una riflessione utile sul nostro rapporto con il passato, chissà che non vi balugini l’idea che una nuova civiltà sta arrivando, in cui l’uso del passato non avrà niente a che fare con il vostro collezionismo raffinato e inutile.
E se trovate così stucchevole un libro che centinaia di migliaia di italiani si affrettano a leggere, e decine di paesi nel mondo si prendono la briga di tradurre, forse è il caso di darsi da fare per spiegare a tutta questa massa di fessi che si stanno sbagliando, e che la letteratura è un’altra cosa, e che a forza di dare ascolto a gente come me si finirà tutti in un mondo di illetterati dominati dal cinema e dalla televisione, un mondo in cui intelligenze come quelle di Citati e Ferroni faranno fatica a trovare uno stipendio per campare.
Si dirà che è un diritto dei critici scegliersi i libri di cui scrivere. E che anche il silenzio è un giudizio. E’ vero. Ma non è completamente vero. Lo so che per persone intelligenti e colte come Citati e Ferroni i miei libri stanno alla letteratura come il fast-food alla cucina francese, o come la pornografia all’erotismo. Per usare una frase di Vonnegut che mi fa sempre tanto ridere, mi sa che per loro i miei libri, nel loro piccolo, stanno facendo alla letteratura quello che l’Unione Sovietica ha fatto alla democrazia (non si riferiva a me, Vonnegut, che purtroppo non sa nemmeno che esisto).
Ma quale arroganza intellettuale può indurre a pensare che non sia utile capire una degenerazione del genere, e magari spiegarla a chi non ha gli strumenti per comprenderla? Come si fa a non intuire che magari i miei libri sono poca cosa, ma lì i lettori ci trovano qualcosa che allude a un’idea differente di libro, di narrazione scritta, di emozione della lettura? Perché non provate a pensare che esattamente quello - una nuova, sgradevole, discutibile idea di piacere letterario - è il virus che è già in circolo nel sistema sanguigno dei lettori, e che magari molta gente avrebbe bisogno da voi che gli spiegaste cos’è questo impensabile che sta arrivando, e questa apparente apocalisse che li sta seducendo?
Non sarà per caso che la riflessione nel campo aperto del futuro vi impaurisce, e che preferite raccogliere consensi declinando da maestri mappe di un vecchio mondo che ormai conosciamo a memoria, rifiutandovi di prendere atto che altri mondi sono stati scoperti, e la gente già ci sta vivendo? Se quei mondi vi fanno ribrezzo, e la migrazione massiccia verso di loro vi scandalizza, non sarebbe esattamente vostro degnissimo compito il dirlo? Ma dirlo con l’intelligenza e la sapienza che la gente vi riconosce, non con quelle battutine, please.
Per quello che ne capisco, i miei libri saranno presto dimenticati, e andrà già bene se rimarrà qualche memoria di loro per i film che ci avranno girato su. Così va il mondo. E comunque, lo so, i grandi scrittori, oggi, sono altri. Ma ho abbastanza libri e lettori alle spalle per poter pretendere dalla critica la semplice osservanza di comportamenti civili. Lo dico nel modo più semplice e mite possibile: o avete il coraggio e la capacità di occuparvi seriamente dei miei libri o lasciateli perdere e tacete. Le battute da applauso non fanno fare una bella figura a me, ma neanche a voi.
Ecco fatto. Quel che avevo da dire l’ho detto.
Adesso vi dico cosa avrei dovuto fare, secondo il galateo perverso del mio mondo, invece che scrivere questo articolo. Avrei dovuto stare zitto (magari distraendomi un po’ ripassando il mio estratto conto, come sempre mi suggerisce, in occasioni come queste, qualche giovane scrittore meno fortunato di me), e lasciar passare un po’ di tempo. Poi un giorno, magari facendo un reportage su, che ne so, il Kansas, staccare lì una frasetta tipo "questi rettilinei nella pianura, interminabili e pallosi come un articolo di Citati". Il mio pubblico avrebbe gradito. Poi, un mesetto dopo, che so, andavo a vedere la finale di baseball negli Stati Uniti, e avrei sicuramente trovato il modo di chiosare, in margine, che lì si beve solo birra analcolica, "triste e inutile come una recensione di Ferroni". Risatine compiacenti. Pari e patta. E’ così che si fa da noi. Pensate che animali siamo, noi intellettuali, e che raffinata lotta per la vita affrontiamo ogni giorno nella dorata giungla delle lettere...
Purtroppo però non è andata così. Il fatto è che l’altro giorno ho visto il film su Truman Capote. Si impara sempre qualcosa spiando i veri grandi. Lui in quel film è così orrendo, spregevole, sbagliato, megalomane, imprudente, indifendibile. Mi ha ricordato una cosa, che talvolta insegno perfino a scuola, e che però mi ostino a dimenticare. Che il nostro mestiere è, innanzitutto, un fatto di passione, cieca, maleducata, aggressiva e vergognosa. Posa su una autostima delirante, e su un’incondizionata prevalenza del talento sulla ragionevolezza e sulle belle maniere. Se perdi quella prossimità al nocciolo sporco del tuo gesto, hai perso tutto. Scriverai solo cosette buone per una recensione di Ferroni (no, scherzo, davvero, è uno scherzo). Scriverai solo cosette che non faranno male a nessuno.
Insomma è tutta colpa di quel film su Truman Capote. D’improvviso mi è sembrato così falso starmene lì, come una bella statuina, a prendere sberle dal primo che passa. E’ una cosa che non c’entra niente col mestiere che è il mio. Vedi, se me ne stavo a casa a vedere Lazio-Roma, oggi eravamo tutti più sereni e tranquilli. E penosi, of course.
***
Chiedo a voi, cari lettori e redattori di Absolute: qual è l’ultima stroncatura su un volume di poesia contemporanea che ricordate? Chi sono a vostro giudizio, sempre in ambito poetico, i critici migliori, sia per bagaglio tecnico che per - si sarebbe detto un tempo - onestà intellettuale?
32 commenti a questo articolo
ESISTONO ANCORA I CRITICI MILITANTI? E LA STRONCATURA?
2008-01-01 21:41:20|di Luigi
Ancora dal "Corriere" (12 maggio 2007),la firma è di Paolo Di Stefano:
L’intruso: Berardinelli, un critico contro
Un saggio-ritratto mette in discussione i «mostri sacri» e le scuole letterarie del Novecento
C’erano una volta i maestri. Oggi sono rari sia l’esercizio di ammirazione dei potenziali discepoli sia l’assiduità del magistero da parte di eventuali fratelli maggiori. Il libro su Alfonso Berardinelli, Il critico come intruso (Le Lettere, pagg. 248, 19.50), a cura di Emanuele Zinato, ce lo ricorda opportunamente. È un libro pieno di sollecitazioni e di materiali: la biografia intellettuale di Berardinelli ricostruita da Zinato (già ottimo curatore delle opere di Paolo Volponi), una lunga intervista-confessione al critico, una antologia di saggi dello stesso Berardinelli. Il titolo la dice lunga sulla posizione di marginalità (se non di intenzionale estraneità) occupata da Berardinelli nella critica italiana, perché illustra bene quanto il mantenersi ai margini possa significare libertà intellettuale e cioè quanto l’autosottrazione sistematica, forse più caratteriale che programmaticamente perseguita, alle corporazioni e alle etichette possa potenziare l’energia polemica. Il desiderio di rinunciare a qualunque tipo di allineamento (culturale, politico, persino aziendale: il rifiuto prima dell’università e poi dell’editoria), appunto, è il filo rosso che percorre la biografia di Berardinelli. L’adesione al ‘68 e il successivo distacco per non dire pentimento: «Quando anni dopo scoprii che all’Università tutti erano comunisti pur essendo figli della borghesia fui sorpreso. Mi sembrò falso (...). Il mio ‘68 è stato infelice anche per questo. Non c’era un leader che mi piacesse e di cui mi fidassi». Ma il momento più sofferto (e forse più produttivo per lui) di questa tenace tentazione centrifuga si lega al nome di un maestro: Franco Fortini, la stretta amicizia e poi la frattura, su cui Zinato, giustamente, insiste per mettere a fuoco un nodo del percorso di Berardinelli. Il quale, trentenne, nel ‘73, dedica a Fortini una monografia e comincia a collaborare con «Quaderni piacentini», il laboratorio polemico della sinistra alternativa cui Fortini aveva aderito agendo, volente o nolente, come uno dei «guru» più ascoltati dalle generazioni più giovani (non solo Berardinelli ma Goffredo Fofi, Grazia Cherchi, Piergiorgio Bellocchio). Ora Berardinelli ripercorre lucidamente quel difficile rapporto. Lo avvicinarono a Fortini alcuni punti di vista sullo stato della cultura italiana: per esempio, il rifiuto di ogni ambizione scientifica della critica letteraria in tempi di strutturalismo trionfante, ma anche la presa di distanza polemica rispetto al «progressismo parricida e neoavanguardista». Zinato ricorda che fu Fortini a polemizzare fin dai primi anni Sessanta con la convinzione vittoriniana secondo cui la letteratura procedeva per fasi progressive di «autosuperamento formale». Ma Fortini, specie nei primi anni Sessanta, era anche maestro di «mediazione ideologica» attraverso la forma del saggio «acuminato», polemico, comunicativo, «dialettico tra saperi scientifici e sapere comune, astrazione teorica ed esperienza». Viceversa, quel che Berardinelli non sopporta è il primato della politica su tutto, letteratura compresa. E parlando del clima degli anni Sessanta, ricorda: «Avere a che fare seriamente con la letteratura sembrava una specie di tradimento, di vizio morale, di imperdonabile debolezza psicologica (...)». E non senza ironia prosegue: «Lo stesso Fortini, che pure faceva del tutto per essere e per mostrarsi consapevole dello stato di emergenza e della situazione di lotta internazionale contro l’Imperialismo e il Capitalismo, veniva accusato di non essere un vero e coerente marxista rivoluzionario, ma tutt’al più un letterato piccolo-borghese tormentosamente (e inutilmente) scisso fra culto della Cultura e coscienza politica (...)». Alla fine però ciò che, negli anni Settanta avanzati, Berardinelli imputerà al suo maestro Fortini sarà esattamente il contrario: «Nonostante fosse un iperletterato, Fortini accettava che la letteratura venisse giudicata attraverso il marxismo mentre la letteratura non poteva giudicare il marxismo». È, secondo Berardinelli, quella stessa «diffidenza per la letteratura» che esprimerebbero i critici freudiani (Francesco Orlando) per il primato che assegnano, nei confronti del testo letterario, alla psicoanalisi. Marxismo e freudismo sono, secondo Berardinelli, «culture molto limitate» rispetto alla letteratura e non meritano di soverchiarla. Insomma, lo stesso Fortini che censurava le letture ortodosse o scientiste degli altri e che veniva rimproverato di insufficiente fede marxista, finiva per essere, per Berardinelli, un critico ideologico. Stesso discorso per altre «ortodossie», come quella strutturalista: la polemica contro la scuola di Cesare Segre, contro il metodo e la terminologia semiotica e le griglie didattiche che ne sono derivate. Salvo poi ribaltare il tavolo considerando che oggi «il problema non sono i metodi», anzi «se ne parla persino troppo poco». «Circola un’idea di critico-scrittore che sta diventando caricaturale - dice Berardinelli -. Tutti vogliono essere creativi e sentirsi artisti (...). Quando ho visto, alla fine degli anni Ottanta, che il problema non erano più gli strutturalisti e i logotecnocrati ma i critici "creativi", allora mi sono messo a prendere di mira Pietro Citati (che vorrebbe riscrivere enfaticamente tutti i classici) e a difendere Cesare Garboli, che invece è stato inflessibile nella fedeltà ai propri limiti e nel parlare esclusivamente degli autori che ama, conosce e capisce: l’opposto del critico universale e del critico accademico». Su questa strada, è ovvio che Berardinelli alle «auscultazioni» di Contini fedeli alla materialità del testo preferisce nettamente l’antispecialismo di Giacomo Debenedetti, lui sì modello mai ripudiato di critico-artista: «non è mai un ideologo che giudichi la letteratura da dimensioni culturali esterne alla letteratura». Né il «sapore metallico» degli iperspecialisti e dei marxisti, né la «consistenza cremosa» di Citati. Il «critico senza mestiere» Berardinelli non poteva che imboccare decisamente la strada che già aveva individuato sin dagli inizi: quella di un individualismo scontroso e un po’rompiscatole (l’esperienza, con Piergiorgio Bellocchio, della rivista a due «Diario»). In un intenso autoritratto dei cinquant’anni, posta tra i testi che compongono le sue «carte d’identità», Berardinelli individua un tratto peculiare dello scrittore moderno nel cominciare sempre da un «no» anche per dire «sì». È questa la sua natura di eterno intruso che osserva tutti ma non sta con nessuno. A parte, ogni tanto, i pochi intrusi come lui.
ESISTONO ANCORA I CRITICI MILITANTI? E LA STRONCATURA?
2008-01-01 21:12:43|di Luigi
Sempre a firma di Cristina Taglietti, sul "Corriere" del 27 novembre scorso:
Esce da Bompiani il «Dizionario della critica militante»: l’ evoluzione, negli ultimi due decenni, di una figura-chiave
Al critico ignoto
Dall’impegno militante al «recensore-massa»: un’identità sempre più a rischio conformismo
Che fine ha fatto il critico militante? Forse è scomparso, forse è diventato «smilitante» (Arbasino), forse si è semplicemente trasformato, lasciando il posto al saggista, allo scrittore, al «recensore-massa», addirittura al «collaudatore». Come tutti i dizionari, anche quello della critica militante ha, insito nel titolo, il programma di offrire una sorta di catalogo. In realtà il piatto forte è composto di due saggi, uno dedicato agli anni Ottanta (curato da Giuseppe Leonelli) e l’altro agli anni Novanta (curato da Filippo La Porta), mentre solo in appendice, «come contorno che insaporisce le due pietanze» si trova un complesso di schede bio bibliografiche, e cioè il dizionario vero e proprio. Il volume quindi è composto di tre parti, slegate tra loro (nella parte bio bibliografica mancano alcuni autori a cui pure sono dedicate pagine e citazioni all’interno dei saggi), e avvertono un po’provocatoriamente gli autori, ognuna di queste parti «risente della personalità, del gusto, dei pregiudizi, degli umori, della sensibilità, fors’anche del segno zodiacale, ascendente compreso, di chi le maneggia». Leonelli comincia dai primi anni Ottanta quando compaiono quelli che definisce gli «artisti della critica» come Cesare Garboli (Geno Pampaloni definì la sua scrittura «racconto recitato») o Pietro Citati che, tra gli anni Cinquanta e i Sessanta aveva contribuito a liquidare le problematiche neorealiste del dopoguerra e che in questa fase propone un’idea di critica fondata sul mimetismo, sul tentativo di scoprire «quel libro nascosto che si trova sotto la superficie». Dalla fine degli anni Ottanta, il critico è molto diverso da quello dei tempi migliori, quando il suo compito era «onorare il servizio pubblico». È in questi anni che emerge, accanto a una critica che ha nell’università il suo luogo di espressione (Fortini, Baldacci, Mengaldo, Asor Rosa) un’altra categoria, i «critici scrittori o scrittori critici», a cui Leonelli ascrive, per esempio, Roberto Calasso (anche quando raccoglie in volume i più di mille risvolti di copertina scritti per Adelphi dagli anni Sessanta in poi), Claudio Magris, Giovanni Raboni, espressioni, molto diverse tra loro, di un’idea della scrittura in cui «il critico assume una funzione non meno creativa dello scrittore propriamente detto». A questa, Leonelli affianca i critici-giornalisti, Enzo Golino e Paolo Mauri soprattutto, mentre ad Alfonso Berardinelli si deve un’idea di critica incentrata sul rifiuto delle istituzioni, che recupera il saggio come forma alta di polemica. Ma è negli anni Novanta che, scrive La Porta, «una nuova critica sembra consolidarsi e prendere piena coscienza di sé, intrecciando un dialogo più o meno esplicito con alcuni maestri, non soltanto italiani». Dopo un finale di anni Ottanta dove, come sottolinea Cesarani, la critica versa in uno stato di depressione imputabile alla trasformazione della letteratura in merce, avanza un’immagine di critico-individuo, o, come suggerisce Manacorda, una sorta di «monaco guerriero, privo di mezze misure, incline a un rapporto mistico e diretto con le parole, impegnato a formulare giudizi di valore, contrapposto al filologo, schierato invece dalla parte dell’istituzione». Definizione che sembra attagliarsi a un «artista della teoria» come Tommaso Ottonieri, portatore, secondo La Porta, di una innegabile passione intellettuale e di una genuina attitudine sperimentale, che corrono però il rischio di convertire il massimo del radicalismo in un involontario conformismo culturale, ma anche Cesare Garboli e Cesare Segre, che, al termine di percorsi diversissimi hanno riscoperto una tensione di tipo etico e civile per cui la letteratura è rivelazione di una verità che appartiene all’esperienza reale degli individui e si contrappone all’irrealtà del potere. Uso militante delle opere letterarie è anche quello di Giulio Ferroni che cerca con particolare puntiglio «voci discordi dal moto infallibile delle magnifiche sorti e progressive». Alla categoria della «necessità» deve rispondere l’opera letteraria secondo Goffredo Fofi, «critico sregolato e senza scuola» a cui La Porta rimprovera una fede ideologica (di derivazione sessantottina) nella Comunità e nel Cambiamento che ripara dagli esiti più pericolosi della letteratura. In questi anni il giudizio nei confronti di Calvino tende a diventare un vero e proprio discrimine: il consenso alla sua figura conosce alcune incrinature che tendono a metterne in rilievo un «intellettualismo prudente e difensivo» che lo porta a non trovarsi mai nel posto sbagliato, a non mettere mai a disagio i lettori (a lui Carla Benedetti contrappone Pasolini in un acceso pamphlet che anima le discussioni di quegli anni). Gli anni Novanta sono anche gli anni della «democrazia letteraria», dei bestseller di cui, come insiste Spinazzola su Tirature, ci si deve occupare. Un pubblico di massa che, però, secondo La Porta, tende a cercare soprattutto il confortevole midcult cioè un modo livellatore di consumare sia cultura alta sia cultura di massa. E se la critica oggi deve confrontarsi con tutta una serie di «luoghi» diversi in cui legittimamente si esercita, la radio, i blog, Internet, resta fermo il problema dell’antagonismo. «Quali poteri intendiamo combattere - si chiede La Porta -? I cosiddetti poteri forti? La onnipotenza pervasiva dei media? La borghesia? Una presunta ideologia dominante? Un gergo culturale?». Il rischio, avverte La Porta, che corre chi, come Carla Benedetti, Tiziano Scarpa, Emanuele Trevi, parte da un atteggiamento ipercritico verso l’esistente, è di finire col confermarne alcuni elementi di fondo. E il futuro? La scommessa di La Porta è che il Tremila sarà il millennio delle scritture ibride più aperte e flessibili, capaci di rendere l’ambigua molteplicità del reale.
ESISTONO ANCORA I CRITICI MILITANTI? E LA STRONCATURA?
2008-01-01 14:48:37|di Luigi
Citerei anche il trio di giovani critici luperiniani che ha dato vita al Master "L’arte di scrivere" dell’Università di Siena: Marianna Marrucci, Gianmaria Nerli e Valentina Tinacci. Un team molto ben assortito!
ESISTONO ANCORA I CRITICI MILITANTI? E LA STRONCATURA?
2008-01-01 12:16:38|di matteo fantuzzi
sì luigi, la stroncatura c’è anche quest’anno. piccolo inciso anche io sulle antologie, ne abbiamo parlato moltissimo nelle settimane in cui sembrava quasi uscirne una al giorno: credo molto più importante il discorso di mappatura quotidiana, il discorso militante appunto, quello che si può, si deve potere permettere la stroncatura, in questo senso va considerata anche una sorta di critica della critica che deve avere gli stessi criteri dell’analisi della poesia: se si considera un’operazione "di parte" va detto, ma nel contraddittorio, che sono le riviste, cartacee e in rete. se continuiamo (vecchio discorso) a trattare le antologie come fossero riviste militanti rischiamo di ottenere l’effetto contrario, dove va bene tutto e il contrario di tutto. per questo a mio parere dobbiamo ricominciare una fase di analisi "spietata" per fare emergere quello che vale, e perchè in 10 anni possano uscire 3-4 antologie al massimo (e sto largo) ma ponderate. non dettate dall’esigenza di proporre quello che un’altra casa editrice ha proposto ("tizio ha fatto un’antologia, e io che sono da meno ? ne faccio una anch’io". questo è un classico discorso aziendale dove i grandi competitori si scopiazzano le strategie...)
ESISTONO ANCORA I CRITICI MILITANTI? E LA STRONCATURA?
2007-12-31 18:29:38|di gugl
per quanto riguarda Afribo, sarà il 12 gennaio a Schio, alla rassegna "poesia / poesie", dove presenterà il libro in questione.
se posso fare altri nomi, metterei davanti Francesco Marotta, che si spende come un dannato anche nei più piccoli sentieri (vedi i suoi commenti nei vari blog) e non dimenticherei la Fantato, la cui intelligenza critica risalta già quando parla a braccio.
ESISTONO ANCORA I CRITICI MILITANTI? E LA STRONCATURA?
2007-12-31 13:07:07|di ranieri
In un precedente commento avevo nominato Guglielmin senza citare il suo Scritti nomadi .
D’accordissimo su Gramigna, e non solo come critico di narrativa: per 17 anni, fino a che è stato vivo, ha scritto la prefazione al vincitore del "Premio Lorenzo Montano" per la raccolta inedita. E ricordando Gramigna non possiamo dimenticare Gio Ferri che con lui fondò, e tuttora dirige, la rivista "Testuale, critica della poesia contemporanea" da poco anche in rete.
ESISTONO ANCORA I CRITICI MILITANTI? E LA STRONCATURA?
2007-12-31 10:45:07|di Luigi
Il 15 dicembre scorso, a firma di Paolo Di Stefano, sul "Corriere della Sera":
Gli strani criteri dell’opera di La Porta e Leonelli
Dizionario dei critici militanti
Gramigna assente ingiustificato
Spiace, ogni volta che ci si trova di fronte a una rassegna letteraria, dover azzardare il trito gioco del «chi-c’ è-chi-non-c’ è». Ma nel caso del Dizionario della critica militante di Filippo La Porta e Giuseppe Leonelli (Bompiani) è addirittura il titolo ad autorizzare il lettore in questa direzione. Perché un dizionario è quanto di più rigorosamente sistematico si possa immaginare. Ed è da questa premessa, ribadita in apertura dai curatori quando parlano di «uno strumento», che nasce una sostanziale delusione dalla lettura del «catalogo» di La Porta e Leonelli: perché un Dizionario si giudica anche dalle presenze e dalle assenze. E allora o si prende alla lettera il proprio compito di «compilatori» e si lavora di bilancino, o si va d’ accetta (da veri critici militanti a propria volta) senza bisogno di ambire al Dizionario o di spacciare per Dizionario una raccolta di saggi o di centoni. Gli autori in realtà non hanno fatto né l’una cosa né l’ altra, creando un ibrido che il lettore non sa bene come affrontare. E che il vero critico militante (di cui manca, nel Dizionario, una definizione minima che ne tracci almeno un identikit provvisorio) non potrebbe mai e poi mai accettare. Ma restando al Dizionario: se Emanuele Trevi è degno di un paragrafo a sé per le sue Istruzioni per l’ uso del lupo, è quasi incredibile constatare come un critico militante che più militante non si può quale è stato Giuliano Gramigna non abbia nemmeno l’onore di una menzione. Gramigna ha percorso almeno quattro decenni «in avanscoperta», e da autentico «esploratore» (come direbbe Cordelli) fu sempre tra i primissimi (per restare agli anni Ottanta) a scrivere (sul «Corriere»!) di Tondelli e di De Carlo, di Del Giudice e di Tabucchi, eppure non esiste: letteralmente cancellato. La stessa cosa vale per Lorenzo Mondo, che da decenni si prende la briga di leggere per «La Stampa» i romanzi che escono. Possibile che, come critico militante, meriti meno di Walter Siti, che certo ha curato magistralmente l’opera di Pasolini, ma non si è mai «sporcato le mani» con ciò che ragionevolmente si intende per critica militante? E che cos’ è la critica militante se non assumersi la responsabilità di esprimere «a caldo» un giudizio di valore? C’è una sorta di fastidioso snobismo, nel Dizionario di La Porta e Leonelli, che fa sorvolare su gente come Giovanni Pacchiano e Giuseppe Bonura, recensori instancabili e puntuali di ciò che offre la letteratura contemporanea. Umilmente? Umilmente (umiltà e non snobismo è la virtù del critico militante). Non piacciono? Lo si dica, chiaro e tondo: perché lo si voglia o no tra i critici militanti oggi ci sono anche loro, non Roberto Calasso che, con tutto il rispetto, fa un altro mestiere. Un Dizionario è un dizionario. O no? In curiosa contemporanea con il Dizionario di La Porta e Leonelli, è uscito un pamphlet di Massimo Onofri sullo stesso argomento (La ragione in contumacia. La critica militante ai tempi del fondamentalismo, Donzelli). Non tutto è condivisibile, ma un pamphlet è un pamphlet.
ESISTONO ANCORA I CRITICI MILITANTI? E LA STRONCATURA?
2007-12-30 23:43:56|di Luigi
Non voglio tirarla per le lunghe sulla questione "antologia", che meriterebbe (o forse no) un post specifico, ma sono dubbioso su un altro (oltre al libro di Afribo) acquisto da fare (per comprare l’ennesima antologia di poeti italiani contemporanei letti e straletti ho bisogno di essere abbagliato come minimo da un miraggio di apparato critico, eh): Ci sono fiori che fioriscono al buio. Antologia della poesia italiana dagli anni Settanta a oggi, a cura di Caltabellotta, Peloso e Petrocchi (1997). Ne parlò discretamente Mozzi, qui. Qualcuno di voi l’ha letta?
ESISTONO ANCORA I CRITICI MILITANTI? E LA STRONCATURA?
2007-12-30 22:29:04|di lorenzo
grazie! me lo accatto.
lc
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ESISTONO ANCORA I CRITICI MILITANTI? E LA STRONCATURA?
2008-01-01 21:47:26|di Luigi
Reazione al saggio di Berardinelli: l’articolo è di Cristina Taglietti, sempre per il "Corriere", 14 maggio 2007:
Il saggio-ritratto dedicato a Berardinelli scatena il dibattito tra i giovani critici
Maestri addio. Ci sono solo gli amici degli amici
Cortellessa: ci manca un Fortini. Trevi: oggi a volte chi insegna sono gli allievi
Ma sono davvero finiti i maestri? Il volume su Alfonso Berardinelli curato da Emanuele Zinato per Le Lettere, Il critico come intruso, che mette in discussione i mostri sacri e le scuole letterarie del Novecento, a cui Paolo Di Stefano ha dedicato un ampio articolo sul Corriere di sabato, rimbalza alla Fiera del libro e suscita un dibattito che mostra quanto la questione sia ancora vitale e agiti anche i critici della nuova generazione. Così, se Alfonso Berardinelli considera Franco Fortini un «cattivo maestro» perché «accettava che la letteratura venisse giudicata attraverso il marxismo mentre la letteratura non poteva giudicare il marxismo», c’è chi, come Andrea Cortellessa, di un maestro ideologico come Fortini sente fortemente la mancanza. «Oggi dobbiamo riappropriarci di strumenti ideologici. Con il marxismo è stato buttato via tutto un tessuto culturale, un sistema forte di interpretazione della realtà, con il risultato che l’unica ideologia che subiamo è quella del mercato. Oggi non ci sono scuole, non ci sono personaggi come Vittorini che costruiva, magari sbagliando, delle collane sulla base di un progetto, di una visione globale. Il risultato è che non c’è più cultura, ci sono solo, ogni tanto, buoni testi». «Io preferisco parlare di onestà intellettuale, più che di ideologia - ribatte Silvio Perrella -. La stroncatura di Fortini al Gattopardo fa male perché si capisce che per lui è una lettura feconda, ma non può dirlo per ragioni politiche». Distingue due piani, quello disciplinare e quello umano, Emanuele Trevi che sabato a Torino presentava I movimenti remoti di Goffredo Parise da lui curato per Fandango. Il saggio introduttivo Trevi (che si considera con Tiziano Scarpa il critico che ha preso di più da Berardinelli) l’ha dedicato proprio alla memoria di uno dei maestri più controversi degli ultimi anni, Cesare Garboli. «I due modi di essere maestri - dice Trevi - sono ben rappresentati dalla coppia Contini-Debenedetti. Il primo rappresenta la scienza, ti dà la "cassetta degli attrezzi" che si trasmette di generazione in generazione, il secondo è più un esempio umano, di comportamento». «In Debenedetti c’era un unisono tra essere e fare» concorda Silvio Perrella. Che aggiunge: «Francesco Bruni è l’unico maestro in senso tecnico che abbia avuto. Per il resto la parola maestro mi lascia indifferente. Mi interessa come si trasmette l’esperienza. Berardinelli, per esempio, non ha mai voluto essere maestro, eppure ha sempre tenuto aperto la possibilità di un colloquio. Io ho cercato persone con cui confrontarmi, sono andato là dove mi sembrava che ci fosse qualcosa di più della bottega dell’artigiano. Anzi, a volte il rapporto con persone che non hanno scritto niente è stato altrettanto importante. Ho avuto maestri che sono miei amici, come Raffaele La Capria, una specie di fratello maggiore. Continuo a considerare un maestro Cesare Garboli, con cui pure ebbi una lite violentissima. Nel suo caso la persona è venuta prima del critico. Ricordo che venne a Napoli con Natalia Ginzburg a presentare un libro di Giulio Einaudi e lo smontò. In lui ho visto qualcuno che mi apriva una strada e continuo a vederlo nonostante quella rottura». Né Garboli né La Capria sono dei maestri per Cortellessa. «Garboli è stato pernicioso per la critica, proprio perché la persona era più importante di quello che scriveva. Uno che dedica tre pagine a Gadda e trenta a Soldati, con il risultato che adesso ci saranno tre Meridiani dedicati a Soldati, è parziale e inaffidabile. E lui sapeva di esserlo. Il maestro deve stare su una cattedra. E deve creare antagonismo, per poi "essere mangiato in salsa piccante" per citare il Pasolini di Uccellacci uccellini». Trevi preferisce parlare di plagio, «un meccanismo potentissimo che a un certo punto cambia strada e va dall’allievo al maestro. Oggi ci sono maestri che vengono a sapere dai ragazzini la grandezza di Sebald». Per Trevi quando si parla di ideologia si pensa sempre a quella marxista e la si connota negativamente. «Per me un maestro era Elémire Zolla che non aveva una cattedra, ma semmai un tavolino da seduta spiritica. Zolla aveva un anticomunismo infantile, ma un sistema di pensiero forte. Da un certo punto di vista è stato anche meglio di Fortini». Finito il tempo dei maestri sembra essere cominciato quello degli amici. «Nella migliore delle ipotesi sono consorterie amicali, persone che si stimano e sentono di avere se non un progetto, delle idee in comune - dice Cortellessa -. Nella peggiore sono veri e propri gruppi di pressione basati sullo scambio di favori, sulla pura convenienza. L’ideologia è anche un sistema di veti e di vincoli che ti dice che tu non puoi stringere la mano a chiunque. Oggi nessuno parla male di nulla, lo spirito dell’utile è l’unica cosa che tiene insieme persone agli antipodi. A me pare sorprendente che Antonio Scurati, con le posizioni che esprime, inviti nel suo festival milanese Pietrangelo Buttafuoco. Se metti insieme Baricco, Buttafuoco e Piperno è difficile dire che è una comunanza di poetica. E il sospetto che ci sia qualcos’altro è legittimo».