Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce

Redatta da:

Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.

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2° FESTIVAL DELLA POESIA CIVILE

Vercelli: 14-17 settembre (con un’anteprima l’8 settembre)

Articolo postato lunedì 4 settembre 2006
da Luigi Nacci

PROGRAMMA

8 settembre

Ore 21 Sala delle colonne (viale Garibaldi,98) anteprima di l’occhio insonne rassegna di poesia e video a cura di Gian Piero Prassi saranno proiettate opere di Max Bottino, Video cine foto club "Il Campanile" di Galliate (testo di Lino Molinario - Regia di Silvano Franchina), Manuele Cecconello, Nemesis (Alex Zarino-Stefano Ranucci- Lorenzo Zanierato-Fabrizio Collina, Cristiano Conti), Noego, Gian Piero Prassi, Fiorenzo Rosso e il cortometraggio di Matteo Bellizzi "Filari di vite"

consegna del premio “l’occhio insonne” del Festival di Poesia Civile a Matteo Bellizzi

14 settembre

ore 20.30 Salone Dugentesco cerimonia di consegna del premio FESTIVAL DI POESIA CIVILE “CITTA’ DI VERCELLI” a JUAN GELMAN

nell’occasione Juan Gelman recita le sue poesie, accompagnato al bandoneon da César Stroscio

conduce Ennio Cavalli, traduce Laura Branchini

***

Presentazione della plaquette di poesie inedite di JUAN GELMAN (produzione del festival) *la plaquette sarà in distribuzione fino all’esaurimento delle disponibilità

***

Basilica di Sant’Andrea, al calar del sole POETRY WALL effimere (?) insegne proiezioni di NOEGO (produzione del festival)

15 settembre

ore 9,00 largo D’ Azzo, piazza Zumaglini, viale Garibaldi in collaborazione con Studio Dieci

a cura di Giusi Baldissone, Carla Crosio, Marco Filippa, Paola Lazzarini e Chicca Morone

TUTTO PUO’ SUCCEDERE manifestipoetici/poetici manifesti

poesie trasformate in manifesti da Joel Angelini, Corrado Bonomi, Max Bottino, Orietta Brombin, Mina Carpi, Alberto Casiraghy, Pino Castello, Enrico Colombotto Rosso, Carla Crosio, Marco D’Aponte, Gloria Fava, Sergio Floriani, Eliana Frontini, Ester Ghione, Roberto Gianinetti, Serena Leale, Gianpiero Marchiori & Teresa Degrandi, Luigi Mariani, Marina Pepino, Elena Piacentini, Fiorenzo Rosso, Claudio Rotta Loria, Giorgio Sambonet, Valter Luca Signorile, Stefano Soddu (produzione del festival)

***

ore 10.00 Istituto Sacro Cuore a cura di Lidia Merlo del CSA-USR del Ministero della Pubblica Istruzione

NON SOLO BANCHI la scuola e la poesia civile Performance poetiche degli studenti dell’Istituto Superiore Lagrangia di Vercelli, dell’Istituto Superiore Lanino di Vercelli, del Liceo Scientifico Avogadro di Vercelli, dell’Istituto Superiore Ferrari di Borgosesia, dell’IPSIA Lombardi di Vercelli, dell’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri Cavour di Vercelli, della Scuola di scrittura di Giusi Baldissone nel Corso di Laurea in Lingue Straniere moderne (U.P.O.) - Vercelli

Performance musicali organizzate dalla Consulta Provinciale delle studentesse e degli studenti della provincia di Vercelli

***

ore 15,00 Studio Dieci attivazione di L’OCCHIO INSONNE video poetry senza sosta a cura di Gian Piero Prassi

allestimento artistico a cura di Carla Crosio

***

ore 15,30 Studio Dieci ESPLODE LA POESIA "... da quattro angoli del globo. Versi, immagini, suoni. Scoppiano come poeti." a cura di Marco Pustianaz (Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”) e Gabriele Quartero

***

ore 16,30 Chiesa e Sagrato di San Vittore a cura di Giusi Baldissone, Carla Crosio, Marco Filippa, Paola Lazzarini e Chicca Morone reading TUTTO PUO’ SUCCEDERE manifestipoetici/poetici manifesti intervengono Luciano Erba, Giusi Baldissone e Carla Crosio,

conduce Massimo Novelli

leggono le proprie poesie , trasformate in manifesti Giusi Baldissone, Alberto Casiraghy, Roberto Costa, Liana De Luca, Ester Ghione, Paola Lazzarini, Carla Lorizzo, Vincenzo Moretti, Chicca Morone con Enrico Colombotto Rosso, Maria Rosa Pantè, Folco Portinari, Tonino Repetto, Giorgio Sambonet, Diego Scarca;

Marta Mattea e Ettore Cassetta leggono le poesie di Dante, Juan Gelman, Seamus Heaney, Mario Luzi, Lalla Romano, Anna Antolisei, Fortuna Della Porta, Lucia Girlanda, Godart e Gian Piero Prassi

***

DECLAM/azioni

ore 18,45 Libreria Giovannacci

reading

a cura di Assunta Grasso, Loredana Mattioli, Maddalena Remus

"I poeti non accendono che lampade" (E. Dickinson)

... e le donne le mantengono accese!

leggono Claudia Armillotta, Ambra Cantelli, Corinne Franzo, Jessica Manzini, Luana Spinella

a seguire

ore 19,15 Chocolate cafè (corso Libertà,154)

APERITIVO IN VERSI

(poesie an / alcoliche)

***

piazza Cavour, al calar del sole POETRY WALL effimere (?) insegne proiezioni di NOEGO (produzione del festival)

***

ore 21.30 Piazza Palazzo Vecchio

(in caso di pioggia al Salone Dugentesco)

in collaborazione con Roma Poesia

IL POETRY SLAM

master of ceremony Lello Voce

poeti in gara

Simone Savogin, Sparajurij, Francesco Forlani, Stefano Raspini, Rosaria Lo Russo, Arianna-Giorgia Bonazzi, Sara Ventroni, Giovanna Marmo, Adriano Padua

16 settembre

ore 10 Libreria Gattacicova

DECLAM/azioni da L’istruttoria di Peter Weiss

con Sara Bertotti, Marcella Gurrieri e Irene Vetrò interviene Laura Bosio

***

ore 11 Libreria Universitas

Lacerato dalle passioni civili: le elegie canadesi di Dennis Lee.

ne parla Francesca Romana Paci dell’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”

e

Una piuma di pavone di Seamus Heaney. Sentire civile e sentimento

ne parla Patricia Kennan dell’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”

a seguire

ore 12.30 Illusion wine bar (p/za D’Azeglio 15)

APERITIVO IN VERSI

(poesie an / alcoliche)

***

ore 16.00 Museo Leone

IL READING DI POESIA CIVILE

partecipano Gianni D’Elia, Jolanda Insana, Umberto Piersanti, Giancarlo Majorino, Guido Oldani, Ennio Cavalli

conduce Bruno Quaranta

***

ore 18.15 Museo del Tesoro del Duomo

LA POESIA DI DIETRICH BONHOEFFER

Lectio magistralis di Ugo Perone dell’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”

interviene Alfonsina Zanatta

a seguire

ore 19,15 Bar Cavour(p/za cavour)

APERITIVO IN VERSI

(poesie an/alcoliche)

***

Piazza cavour, al calar del sole

POETRY WALL

effimere (?) insegne

proiezioni di

NOEGO

***

ore 21.00 Piazza Palazzo Vecchio

(in caso di pioggia al Salone Dugentesco)

IL CUORE D’IMPROVVISO CI APPARVE IN MEZZO AL PETTO

poesia/resistenza

con LINO CAPOLICCHIO e OPLAB ORCHESTRA

(produzione del festival)

testi selezionati da Alberto Lovatto ed Enrico Pagano

***

ore 23.00 Capitolo 1°(via de abate,6)

LUNA ALLO ZENIT

FINCHÉ IL SONNO NON CI SEPARI

chiacchiere al bar, più o meno impegnative

minitalk con

Jolanda Insana e Giancarlo Majorino

conduce Bruno Quaranta

commenti musicali di Roberto Cappella

17 settembre

ore 10 Libreria Mondadori

UN POETA CIVILE DA (RI)SCOPRIRE: LUCIA GIRLANDA

intervengono Toni Cerutti e Giusi Baldissone

dell’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”

***

ore 11 Piazza Cavour

DECLAM /azioni

a cura di skenè teatro team

POESIE IN BUS in giro per la città in poetica compagnia

a seguire

ore 12.30 Bar d’italia (via Cavour)

APERITIVO IN VERSI

(poesie an / alcoliche)

***

ore 15.00 Piccolo Studio

“IL CANTO DEL PUMA”. ENRIQUE VOLPE MITICO ED EPICO BANDOLERO.

a cura di Elisabetta Dellavalle interviene Andrea Baldissera (Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”)

(produzione del festival)

***

ore 16.30 Salone Dugentesco

reading

E CADE COME TEGOLA LA TESTA poeti contro la pena di morte

a cura di Donato Di Poce e Paola Lazzarini

partecipano Tomaso Kemeny, Giampiero Neri, Stefania Crema leggono Silvia Agosta e Roberta Marchesini, interviene Lucia Penazzi (responsabile di Amnesty International gruppo 093 Vercelli ) commenti musicali di Roberto Cappella

Le poesie sono tratte dall’antologia "Baci ardenti di vita" ed. LietoColle

***

dalle ore 19 Piazza Palazzo Vecchio

(in caso di pioggia, sotto i portici di Via dei Mercati e Salone Dugentesco)

SERATA FUTURISTA

mostra fotografica

POLILUCE

Energia, Luce, Movimento,

una retrospettiva fotografica del “Fotodinamismo Futurista”

a cura di Andrea Varini e Luca Vittone

POLIBIBITE E DECOLLAPALATO

OVVERO L’APERITIVO ALLA MANIERA FUTURISTA

a cura della Condotta SLOW FOOD di Vercelli

interviene Alberto Capatti

a seguire

POETRY WALL

effimere (?) insegne

proiezioni di

NOEGO

(produzione del festival)

e

MANOSCRITTI INUTILI

con LUCILLA GIAGNONI e ALESSIO BERTALLOT direzione tecnica di Paolo Pizzimenti

(produzione del festival)

***

ore 23.00 Capitolo 1°(via de abate,6)

LUNA ALLO ZENIT

FINCHÉ IL SONNO NON CI SEPARI

chiacchiere al bar, più o meno impegnative

minitalk con

Umberto Piersanti e Gianni D’Elia

conduce Franco Manzoni

commenti musicali di Roberto Cappella

dal 15 al 17 settembre

come capita, dove capita, quando capita

INCURSIONI POETICHE

ovvero

per un mondo migliore può essere utile anche uno sgabello

a cura di Guido Come, Assunta Grasso, Loredana Mattioli, Maria Rosa Pantè, Maddalena Remus,

Furio Rutigliano

intervengono Claudia Armillotta, Laura Belotti, Carola Beretta, Ambra Cantelli , Anna Fecchio, Federica Fragapane, Corinne Franzo, Edoardo Greco, Jessica Manzini, Benedetta Osella, Lucia Rinaldi, Lorenzo Sgotto, Luana Spinella, Francesca Zanola

dal 14 al 17 settembre

PETIT CADEAU

A chi acquista libri di poesie, per l’intera durata del festival, un piccolo regalo dalle librerie “Gattacicova”, “ Giovannacci”, “ Mondadori” e “Universitas”.

Gattacicova corso Liberta’, 190

Giovannacci via Fratelli Lavini, 10

Mondadori via Fratelli Bandiera, 18 Universitas via Dante, 69/Bis

TUTTI GLI APPUNTAMENTI SONO AD INGRESSO GRATUITO

POESIA SOLIDALE

TUTTO PUÒ’ SUCCEDERE (manifestipoetici/poetici manifesti) e POESIE IN BUS (in giro per la città in poetica compagnia) sono finalizzate alla raccolta fondi da destinare all’associazione INSIEME di Vercelli che si occupa dell’assistenza agli ammalati di cancro e alle loro famiglie.

il festival gode del patrocinio della Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO ed è stato ammesso alla UNESCO’S World Poetry Directory

per informazioni

U.R.P. del Comune di Vercelli Piazza Municipio tel.0161 596333

num. verde 800 618101 e-mail urp.comune@comune.vercelli.it

TURISMO VALSESIA VERCELLI tel. 0161 58002 e-mail atlvercelli@libero.it

ASSOCIAZIONE CULTURALE IL PONTE e-mail festivalpoesiacivile@libero.it

7 commenti a questo articolo

FESTIVAL DELLA POESIA CIVILE
2008-02-11 21:59:16|di Nedda Viaro Perucchetti

Oggi ho scoperto Enrico Volpe!! Che forte sensazione sapere che anche Lui, come me, era nato nella nostra bella, indimenticabile Vercelli. he aveva, come me, la "erre" del nord, che componeva poesie.Anch’ io compongo qualche poesia, senza credermi, per questo una "poetessa!!".Ma, mentre Lui scriveva in castellano a me sgorgano...in dialetto vercellese.Quel concittadino cosí enorme mi ha riempita d’ orgoglio. Vercellese doveva essere!! Ringrazio il cielo per aver avuto accesso alle Sue toccanti poesie. Non le dimenticheró.
Nedda Viaro Perucchetti. Nata a Vercelli il 27 novembre 1930 ed abitante a Zárate- provincia di Buenos Aires dal 1950. neddalaura@yahoo.com.ar


FESTIVAL DELLA POESIA CIVILE
2008-02-01 09:45:41|

Muchas gracias Eduardo!


FESTIVAL DELLA POESIA CIVILE
2008-01-31 14:42:53|di Edoardo Lelio Melis Ferrari

OCHO TRADUCCIONES DE POESÍA ITALIANA

Por Lorenzo Peirano (poeta nacido en
Santiago de Chile, en mayo de 1962)

SOBRE EL HIELO INMÓVIL

Sobre el hielo inmóvil de la alta vidriera
el racimo de gotas lanzado
por el agucero en fuga
a las reiteradas pretensiones del sol
y las copas de los plátanos graves
de agua
creando un blando columpio en el
aguado azul descolorido
donde se imprime en transparente
humo blanco el entrepaño de la
nube en fuga.

Poema de Lucio Piccolo (1901-1969).
Publicado en "Pluma y Pincel", N º 176, Santiago, diciembre de 1996.

TIENES ROSTRO DE PIEDRA ESCULPIDA

Tienes rostro de piedra esculpida,
sangre de tierra dura,
has venido del mar.
Todo lo acoges y escrutas
y rechazas de ti
como el mar. En el corazón
tienes silencio, tienes palabras
enterradas. Eres oscura.
Para ti el alba es silencio.

Y eres como las voces
de la tierra -el golpe
del balde en el pozo,
la canción del fuego,
la caída de una manzana;
las palabras resignadas
y sombrías en los umbrales,
el grito del niño-las cosas
que se mantienen.
Tú no cambias. Eres oscura.

Eres la bodega cerrada
a golpes de tierra
donde entró una vez
un niño descalzo,
y la recuerda siempre.
Eres la pieza oscura
que se recuerda siempre,
como el patio antiguo
donde se abría el alba.

Noviembre 5, 1945.

Poema de Cesare Pavese (1908-1950)
Publicado en "Pluma y Pincel", Nº 176, Santiago, diciembre de 1996.

LA CASA DE LOS ADUANEROS

Tú no recuerdas la casa de los aduaneros
sobre el barranco profundo de la escollera:
desolada te espera desde la noche
en que entró allí el enjambre de tus pensamientos
y se detuvo inquieto.

El sudeste azota hace años los viejos muros
y el sonido de tu risa ya no es alegre:
la brújula gira enloquecida a la aventura
y el cálculo de los dados ya no vuelve.
Tú no recuerdas; otro tiempo trastorna
tu memoria; un hilo se devana.

Aún tengo un extemo; pero se aleja
la casa y sobre el techo la veleta
tiznada gira sin piedad.
Tengo un extremo; pero tú estás sola,
no respiras aquí en la oscuridad.

¡Oh el horizonte en fuga, donde se enciende
rara la luz del petrolero!
¿Está aquí el paso? (la marejada insiste
aún sobre el barranco que se derrumba…)
Tú no recuerdas la casa de esta
noche mía. Y yo no sé quién se va ni quién se queda.

Poema de Eugenio Montale (1886-1982)
Publicado en "Pluma y Pincel", Nº 173, Santiago,1995.
También incluido en "Poesía Universal Traducida por Poetas Chilenos", selección de Jorge Teillier, Santiago, 1996, "Colección Antologías", "Editorial Universitaria".

No nos pidas la palabra que excrute por cada lado
nuestro ánimo informe, y con letras de fuego
lo declare y resplandezca como un azafrán
perdido en medio de un polvoriento prado.

¡Ah el hombre que se va seguro
de los demás y amigo de sí mismo,
y no cuida su sombra que la canícula
estampa sobre el descacarado muro!

No nos pidas la fórmula que pueda abrirte mundos,
sí alguna sílaba seca y torcida como una rama.
Sólo esto podemos hoy decirte,
lo que no somos, lo que no queremos.

Poema de Eugenio Montale
Publicado en "Pluma y Pincel", Nº 173, Santiago, 1995.

ME PARECE IGUAL A LOS DIOSES

(Poema de Safo traducido por Salvatore Quasimodo del griego al italiano; incluido
como poema -paráfrasis- en Lirica del Novecento, selección de Luciano Anceschi y Sergio Antonielli, "Vallecchi Editore", Firenze, Italia, 1953.)

Me parece igual a los dioses
quién, cerca de ti, tan dulce
sonido escucha mientras hablas

y ríes amorosamente. De súbito,
apenas te veo, el corazón se me agita
en el pecho, y mi voz

se pierde sobre una lengua inerte.
Un fuego sutil me aflora rápido hacia la piel,
y se me oscurece la vista y me zumba
la sangre en los oídos.

Y toda en sudor y temblante
como yerba sufrida palidezco:
y a mi extasiada mente
la muerte no le parece lejana.

Salvatore Quasimodo (1901-1968)
Traducción inédita

TRABAJAR CANSA

(Traducción realizada en colaboración con Juan Alberto Lecaros Urzúa)

Cruzar una calle para escapar de casa
lo hace sólo un muchacho, pero este hombre que anda
todo el día las calles, ya no es un muchacho
y no escapa de casa.

Hay tardes de verano
en que hasta las plazas se quedan vacías, tendidas
bajo el sol que empieza a ponerse, y este hombre que llega
por una avenida de inútiles plantas, se detiene.
¿Vale la pena estar solo para estar siempre más solo?
Solamente vagar, las plazas y las calles
se hallan vacías. Hay que parar a una mujer
y hablarle y decidirla a vivir juntos.
De otro modo, uno habla solo. Es por éso que a veces
hay un borracho nocturno que inicia discursos
y cuenta los proyectos de toda su vida.

No es cierto que esperando en la plaza desierta
te encuentres con alguien, pero quien anda las calles
se detiene a ratos. Si fueran dos
aun andando por las calles, la casa estaría
donde está aquella mujer y valdría la pena.
De noche la plaza vuelve a quedar desierta
y este hombre, que pasa, no ve las casas
entre las inútiles luces, ya no alza la vista:
siente sólo el adoquinado, que hicieron otros hombres
de manos endurecidas, como las suyas.
No es bueno quedarse en la plaza desierta.
Estará, por cierto, aquella mujer en la calle
que, al pedírselo, quiera dar una mano en la casa.

Poema de Cesare Pavese
Publicado en "Artes y Letras" de El Mercurio, Santiago, 28 de julio de 1998.

CALLA, ALMA CANSADA DE GOZAR

Calla, alma cansada de gozar
y de sufrir (a lo uno y a lo otro
resignada).
Escucho y no me llega tu voz
no de añoranza por la miserable
juventud, no de ira, esperanza
o tedio.
Yaces como
el cuerpo, enmudecida,
en una indiferecia desesperada.
No nos extrañaríamos,
no es verdad, alma mía, que el corazón
se detuviese, si el aliento nos quedara
detenido…

En cambio, caminamos.
Caminamos tú y yo como sonámbulos.
Y los árboles son árboles, y las casas
son casas, y las mujeres
que pasan son mujeres, y todo es aquello
que es, solamente aquello que es.

La sucesión de alegría y de dolor
no nos toca.. Ha perdido la voz
la sirena del mundo, y el mundo es un gran
desierto.
En el desierto
con ojos secos yo me miro.

Poema de Camilo Sbarbaro (1888-1967)
Traducción inédita

EL DESCONOCIDO

¿Lo has visto pasar esta noche?
Lo he visto.
¿Lo viste anoche?
Lo vi, lo veo cada noche.
¿Te mira?
No mira al lado,
solamente mira allá abajo,
allá abajo donde el cielo comienza
y finaliza la tierra, allá abajo
en la línea de luz
que deja el ocaso.
Y después del ocaso él pasa.
¿Solo?
Solo.
¿Vestido?
De negro, siempre está vestido de negro.
¿Pero dónde se detiene?
¿En qué cabaña?
¿En qué palacio.

Poema de Aldo Palazzeschi (1885-1974)
Traducción inédita.


FESTIVAL DELLA POESIA CIVILE
2008-01-20 21:45:36|di Eduardo Melis Ferrari

Primavera de Guerra, Año 1944

Enrique Volpe

Aquí. en este cementerio abandonado en las colinas,
donde cada una de estas cruces viejas es un desafío al infinito
si mis ojos ya devorados por el gusano pudieran contemplar un relámpago
como si fuese un árbol seco que se incendia entre las nubes de la primavera,
o si mi oído pudiese percibir el melodioso silbido de la sierpe
que acecha a la perdiz, o el rumor de las pezuñas de los desordenados
rebaños de cabras que invaden la quietud, desanudada
la violencia de los torrentes de años y sombras que se petrificaron
en mis venas que ya son polvo, quizás podría despertar de la larga modorra
para iniciar un dialogo con esas voces que se multiplican en la dolorosa fertilidad del
silencio.

Mis labios están aun apegados al pocillo de la hiél y la cicuta.
En la desamparada soledad de este cementerio de guerra, donde aún no hallan reposo
mis huesos cansados de todas las miserias, cada tumba
es una pobre reliquia olvidada por la historia
El pálido acacio de los mares y el efímero florecer de la maleza invasora saben
de patrióticos discursos farsantes. ¿En que espejo no terrestre
podría contemplar mi verdadero rostro de resurrecto
sin sentir la vergüenza de haber sido un hombre?
La primavera del año 1944 con su polen de luto fecundaba el árbol bastardo de los frutos
de la muerte.
Quizás un día alguien escriba esta historia de la épica infame como si pretendiera
cavar un pozo
en la zona mas inhóspita de un desierto de mitos. Esa primavera
parecía que todos los relojes se habían detenido en las torres.
Las esferas señalaban la hora incierta para llegar a un único limite.
Las fuentes de la leche se estaban agotando en los pezones de la profanada loba de
bronce y en el viento del Norte se desmoronaban los emblemas dorados
de los antiguos emperadores. Sobre los escombros de las ciudades bombardeadas,
la lenta ondulación del sol parecía el harapo de una basta bandera desgarrada.

¿Se hicieron óxido de silencio las campanas de la sangre?

¿Hay un ángel que venga a encender en mis cuencas vacías una antorcha de soles
marchitos?
¿Quién derribará la enorme puerta? Ya son pocos los que pueden recordar
a los pobres muertos colgando de los palos del telégrafo
y a los fanáticos rebaños de marionetas que vestían camisas negras
que, con látigos, aceite de ricino y otros instrumentos de tortura, habían desplazado
las imágenes de los verdaderos héroes y de los santos.
¿Quién puede soplar un cuerno de caza ante la presencia invisible de los antepasados?
¿Quién en monótona cadencia dialectal puede entonar las canciones
que se cantaban en los días dichosos de las nupcias y de las vendimias.
Se abrían demasiadas fosas y nacían pocas flores en esa primavera.
Cada hombre trataba de sacarse la máscara ocasional para iniciar
un monólogo con su propia conciencia.
¿Habéis vencido? ¿Quién ha vencido?
Pienso en el manto de tinieblas tejido sobre los huesos de los héroes anónimos de la
resistencia, que cayeron en las tierras altas donde la pezuña del ciervo inquieto
horada las raíces de las estrellas, allá en las selvas de castaños de Val Sesia, donde el
canto alegre de las alondras es el signo indiferente de la metamorfosis de la naturaleza.

La sombra crepuscular de la Bella Época era una paloma que picoteaba una larga espiga
quemada,
cautiva dentro de una jaula de odios, o el numero mágico en un reloj
que se calcinó en la memoria de los ancianos. ¿Quien soterró en su propio corazón las
reliquias mas veneradas?. En los caminos que antaño recorrieron los trovadores errantes o las carretas cargadas
con gavillas de arroz o frescas verduras, estaba la huella infamante de los invasores,
pero aún nosotros no podíamos cantar la gesta de nuestra tierra liberada,
decir al modo gentil de los poetas épicos: En la roja urna de agua
de estos ríos que descienden de las montañas, yacen los huesos derrotados del
bárbaro invasor...
En la terrible vitrina con vidrios empañados que es la historia, los carniceros
condecorados con cruces gamadas
exhibían a modo de crueles trofeos de caza las cabezas ensangrentadas
de los corderos sacrificados en los rituales de una sádica pasión.
Todo el pasado y todo el presente en las manos de los ladrones,
para nosotros solo la negación de un trozo de pan y el chasquido humillante de la fusta de
nervios de buey alzada
sobre las espaldas, y el constante recuerdo de nuestros muertos.
Ahora en esta soledad sin armonía que es mi sepulcro, pienso que cualquier rincón del
mundo es propicio para el encuentro del hombre con su muerte.
En cada una de las tumbas de este cementerio la mano calcinante del tiempo
escribió un epitafio con letras invisibles. ¿Florece el árbol de los oráculos en el mudo
lamento de los difuntos?
¿Para que seguir recordando, si todas las memorias nacen de la muerte?

Si alguien llega al borde de mi tumba y sobre la lápida esparce una flor,
debe pensar que ese gesto piadoso es solo el breve destello de una luz demasiado antigua,
que arderá para siempre en el corazón destruido de un hombre que soñó con la
muerte como con una amante mucho tiempo esperada.
Aquí los días ya no cuentan; los años fueron pasando como un regimiento
de sombras desordenadas,
buscando el territorio inexplorado de una batalla inconclusa.
No importa mi nombre; solo soy un muerto más que monologa
con esa imagen veloz y única que fue el acto final de un drama anónimo,
mientras que la nueva primavera enciende como pequeñas linternas de soles, que
velozmente han de marchitarse.


FESTIVAL DELLA POESIA CIVILE
2008-01-20 21:36:12|di Eduardo Melis Ferrari

Primavera de Guerra, Año 1944

Enrique Volpe

Aquí. en este cementerio abandonado en las colinas,
donde cada una de estas cruces viejas es un desafío al infinito
si mis ojos ya devorados por el gusano pudieran contemplar un relámpago
como si fuese un árbol seco que se incendia entre las nubes de la primavera,
o si mi oído pudiese percibir el melodioso silbido de la sierpe
que acecha a la perdiz, o el rumor de las pezuñas de los desordenados
rebaños de cabras que invaden la quietud, desanudada
la violencia de los torrentes de años y sombras que se petrificaron
en mis venas que ya son polvo, quizás podría despertar de la larga modorra
para iniciar un dialogo con esas voces que se multiplican en la dolorosa fertilidad del
silencio.

Mis labios están aun apegados al pocillo de la hiél y la cicuta.
En la desamparada soledad de este cementerio de guerra, donde aún no hallan reposo
mis huesos cansados de todas las miserias, cada tumba
es una pobre reliquia olvidada por la historia
El pálido acacio de los mares y el efímero florecer de la maleza invasora saben
de patrióticos discursos farsantes. ¿En que espejo no terrestre
podría contemplar mi verdadero rostro de resurrecto
sin sentir la vergüenza de haber sido un hombre?
La primavera del año 1944 con su polen de luto fecundaba el árbol bastardo de los frutos
de la muerte.
Quizás un día alguien escriba esta historia de la épica infame como si pretendiera
cavar un pozo
en la zona mas inhóspita de un desierto de mitos. Esa primavera
parecía que todos los relojes se habían detenido en las torres.
Las esferas señalaban la hora incierta para llegar a un único limite.
Las fuentes de la leche se estaban agotando en los pezones de la profanada loba de
bronce y en el viento del Norte se desmoronaban los emblemas dorados
de los antiguos emperadores. Sobre los escombros de las ciudades bombardeadas,
la lenta ondulación del sol parecía el harapo de una basta bandera desgarrada.

¿Se hicieron óxido de silencio las campanas de la sangre?

¿Hay un ángel que venga a encender en mis cuencas vacías una antorcha de soles
marchitos?
¿Quién derribará la enorme puerta? Ya son pocos los que pueden recordar
a los pobres muertos colgando de los palos del telégrafo
y a los fanáticos rebaños de marionetas que vestían camisas negras
que, con látigos, aceite de ricino y otros instrumentos de tortura, habían desplazado
las imágenes de los verdaderos héroes y de los santos.
¿Quién puede soplar un cuerno de caza ante la presencia invisible de los antepasados?
¿Quién en monótona cadencia dialectal puede entonar las canciones
que se cantaban en los días dichosos de las nupcias y de las vendimias.
Se abrían demasiadas fosas y nacían pocas flores en esa primavera.
Cada hombre trataba de sacarse la máscara ocasional para iniciar
un monólogo con su propia conciencia.
¿Habéis vencido? ¿Quién ha vencido?
Pienso en el manto de tinieblas tejido sobre los huesos de los héroes anónimos de la
resistencia, que cayeron en las tierras altas donde la pezuña del ciervo inquieto
horada las raíces de las estrellas, allá en las selvas de castaños de Val Sesia, donde el
canto alegre de las alondras es el signo indiferente de la metamorfosis de la naturaleza.

La sombra crepuscular de la Bella Época era una paloma que picoteaba una larga espiga
quemada,
cautiva dentro de una jaula de odios, o el numero mágico en un reloj
que se calcinó en la memoria de los ancianos. ¿Quien soterró en su propio corazón las
reliquias mas veneradas?. En los caminos que antaño recorrieron los trovadores errantes o las carretas cargadas
con gavillas de arroz o frescas verduras, estaba la huella infamante de los invasores,
pero aún nosotros no podíamos cantar la gesta de nuestra tierra liberada,
decir al modo gentil de los poetas épicos: En la roja urna de agua
de estos ríos que descienden de las montañas, yacen los huesos derrotados del
bárbaro invasor...
En la terrible vitrina con vidrios empañados que es la historia, los carniceros
condecorados con cruces gamadas
exhibían a modo de crueles trofeos de caza las cabezas ensangrentadas
de los corderos sacrificados en los rituales de una sádica pasión.
Todo el pasado y todo el presente en las manos de los ladrones,
para nosotros solo la negación de un trozo de pan y el chasquido humillante de la fusta de
nervios de buey alzada
sobre las espaldas, y el constante recuerdo de nuestros muertos.
Ahora en esta soledad sin armonía que es mi sepulcro, pienso que cualquier rincón del
mundo es propicio para el encuentro del hombre con su muerte.
En cada una de las tumbas de este cementerio la mano calcinante del tiempo
escribió un epitafio con letras invisibles. ¿Florece el árbol de los oráculos en el mudo
lamento de los difuntos?
¿Para que seguir recordando, si todas las memorias nacen de la muerte?

Si alguien llega al borde de mi tumba y sobre la lápida esparce una flor,
debe pensar que ese gesto piadoso es solo el breve destello de una luz demasiado antigua,
que arderá para siempre en el corazón destruido de un hombre que soñó con la
muerte como con una amante mucho tiempo esperada.
Aquí los días ya no cuentan; los años fueron pasando como un regimiento
de sombras desordenadas,
buscando el territorio inexplorado de una batalla inconclusa.
No importa mi nombre; solo soy un muerto más que monologa
con esa imagen veloz y única que fue el acto final de un drama anónimo,
mientras que la nueva primavera enciende como pequeñas linternas de soles, que
velozmente han de marchitarse.


FESTIVAL DELLA POESIA CIVILE
2008-01-20 21:29:37|di Eduardo Melis Ferrari

HOMENAJE
Palabras sobre Enrique Volpe:
"MI CENIZA NO HA SIDO PROFANADA"

Por Lorenzo Peirano

Artes y Letras, El Mercurio, 24 de octubre de 2004.

¿Qué recordaremos de un poeta italiano avecindado en Chile desde los doce años de edad? ¿Qué diremos de Enrique Volpe? Tenemos, por el momento, dos versiones (entrecruzadas) de su persona. La primera corresponde a su "quehacer poético", a su vocación épica, inconmensurable. La segunda se refiere (lo intenta) a lo que pervive en nuestra memoria de su trato, de sus gestos, de su voz caudalosa. Determinados objetos caen al suelo: una cortapluma Victorinox, un llavero colgante, una pistola Beretta. Determinadas historias, narradas entre incontables cigarrillos y tazas de café, ya no se escuchan. Enrique Volpe murió en Santiago, a las diez de la mañana del 9 de mayo de 2002; había nacido el 27 de octubre de 1938, en Vercelli (Piamonte).

Un libro notable

Los datos de su muerte, exactos, tristes y fríos, nos causan asombro (todavía nos causan asombro). Aquel 9 de mayo Volpe se disponía a visitar a su amigo "compatriota", el escritor Gianni Migliano. No pudo ser. Luego, en el crematorio, veríamos a sus pares en la despedida final: Mardoqueo Cáceres, Fernando Quilodrán, Roberto Araya Gallegos… La muerte de Volpe fue sorpresiva, increíble, como también fue increíble su vida, repartida -al igual que la vida de Encina- entre el campo y "la actividad literaria". ¡Y qué actividad literaria! Enrique Volpe escribió un poema épico sobre el descubrimiento de Chile; esa fue, sin duda, una forma de demostrarnos cómo sentía a nuestro país (aunque, por supuesto, no es la única lectura del libro). La "Crónica del Adelantado" llegó a la imprenta en 1990, en un tiraje de 500 ejemplares. Volpe esperaba el Premio Municipal; sólo recibió una mención honrosa. El dictamen le dolió. Nos dijo en aquel tiempo que su poema no había sido valorado. Un año más tarde sería declarado "material didáctico de consulta para la educación chilena" y, en 1994, Editorial Universitaria lo reeditaría precedido de una carta abierta del poeta Armando Uribe.

Enemigo de la antipoesía, a la que veía como un despeñadero de frustración, Enrique Volpe escribió, antes y después de la "Crónica del Adelantado", otros libros. El primero, "Cabaña entre las Rosas", apareció en 1960. Fue allí donde el poeta itálico enfrentó la mayor dificultad: utilizar un idioma ajeno para su expresión. Volpe rescató de ese primer intento la fuerza metafórica y la potencia verbal, entendiendo que sus resultados no podían compararse con las obras de los poetas de su generación. Empezaría,entonces, necesariamente, un distanciamiento del ambiente literario, "tan lleno de miserias humanas", según sus propias palabras.

Conversaciones

Los precedentes literarios que tuvo en cuenta Enrique Volpe para tratar la empresa de Diego de Almagro -quien en abril de 1536 llegara al valle de Copiapó-fueron "La Araucana" de Alonso de Ercilla (nuestra Eneida, como escribiera Andrés Bello), y "Arauco Domado", de Pedro de Oña. No obstante, la imagiación primó en este singular poema. Tras sortear múltiples problemas técnicos, donde "la parte narrativa era la trampa mortal", Volpe llegó a un resultado sorprendente: más de dos mil versos teñidos de pumas y espejos, en los cuales el mismo Diego de Almagro nos habla de su infortunio. Y es que nuestro poeta consideraba al Adelantado español "un personaje injustamente olvidado por la historia, un antihéroe de 63 años con llagas en el cuerpo; un hombre que avanzó por terrenos desconocidos a filo de espada". Alguien propuso que en la Crónica había una especie de "invasión a las razas indígenas", cosa que indignó a Volpe, y que a notosotros nos parece irrelevante. Basta una atenta lectura del libro para comprender que éste apunta a la chilenidad en su esencia. No en vano encontramos a Gonzalo Calvo de Barrientos: "El primer español llegado a Chile y el primer padre de la mestiza raza chilena".

Los influjos de otros poetas que coexisten en la poesía de Volpe (aquí también aludimos a los libros "Viernes Santo", "Tierra Padana" e "Imperfecto Exilio") son variados. Hallamos, por ejemplo, aquel "golpear de sangre exaltada" de Dino Campana, así como la "rica sequedad" de Eugenio Montale. La presencia de Antonio de Undurraga de igual manera es evidente ("un diálogo invisible"). A esto sumemos otros elementos: su relación con payadores, ex bandidos o antiguos patriarcas campesinos como Luis Pastén, quien "representaba lo hidalgo con ojotas y hasta con harapos". Porque Volpe anhelaba , perseguía lo chileno, aquello que lo podía unir a nuestra patria: "Chile, como gota de rocío en el cuenco de una piedra:/Chile es el nombre indiano de esta tierra larga/ que cabe en el trino helado de un pájaro salvaje"… Y es que en su epopeya el poeta también se prolongó; su amor por las armas de fuego, transformado en un "dócil cuerpo de greda de una mujer india"; o aquel felino "que los indios llaman puma", y que para Volpe significaba "el alma bravía e indomable de la cordillera".

Alejándonos ahora de este tal vez somero análisis, la presencia de Enrique Volpe regresa con su excelente humor, con su inclinación a la buena mesa, y con sus recuerdos de Italia (de una Italia que suponía ya muy cambiada). Durante la guerra, en la infancia, solía recoger manzanillas con su bisabuela, Guiseppina Alessio; le conmovía escuchar "Las Muchachas de Trieste"; amaba, por sobre todo, a su madre; y practicaba ese ya casi perdido "culto a la amistad".

Con nostalgia recordamos aquellos miércoles lejanos; tardes en las que compartía con el poeta Jorge Teillier; tardes en las que se evocaban nombres malditos: Boris Calderón, Carlos de Rokha, Enrique Rebolledo Sánchez (alias "El Chilenito"). Horas en las que se revivían los viejos tiempos, en las que se hablaba realmente de poesía, y en las que Volpe transmitía los saludos enviados por Efraín Barquero desde Francia. Cuántas conversaciones retenemos en la memoria: los poetas crepúsculares: Sergio Corazzini ("O mia piccola dolce casa"), Guido Gozzano ("La belleza del giorno/e tutta nel mattino"). Ambiente alucinado, brumoso debido al humo de los cigarrillos (humo que formaba rostros ausentes). Historias transcurridas en el campo, entre las quebradas, al anochecer: apariciones, experiencias sobrenaturales; maleficios causados por brujos chilenos (según Volpe, los más poderosos de América). Muchas veces nos recalcaba el privilegio de ser los habitantes de un territorio casi virgen del planeta, aunque reconocía un mejor pasado. Lamentaba que la corrupción hubiese llegado a las grandes ciudades; pero repetía con fuerza (citando a Mariano Latorre) que Chile, afortunadamente, es un país de rincones.

Con intensidad trataba de explicar sus procesos poéticos (escribió también narrativa). Nos dijo que en la Crónica lo había dejado todo. Sus ojos azules de dilataban cuando hablaba de "la mecánica mágica", o de "una épica sin tiempo, para así llegar al tiempo nuestro". Expresaba sus ideas de manera original: "la corriente interna", "el tiempo operístico". Quizás lo obsesionaba un poco la unidad y la esperanza en "los lectores del futuro" (Charles Cros). Su formación autodidacta lo había enriquecido con múltiples lecturas. Le gustaba compartir sus conocimientos; pero con cierta timidez, a pesar de su marcado acento italiano con las erres del norte. "Yo estudié en una escuela agrícola mediocre de Linares", comentaba sonriente. Dividido entre las labores del campo y su deambular por la ciudad (parte de su "quehacer poético"), Enrique Volpe alentó una atmósfera que echamos de menos. Sentimos que hablar de su persona siempre será una deuda y un abrazo imposible. La inocencia y la generosidad primaron en él. Se fueron las conversaciones; se alejó el aroma de las castañas asadas en invierno. Un hombre alto y corpulento ya no pronuncia el nombre de sus amigos, ni comenta los sucesos de la vida con una mezcla de ímpetu y respeto.

HOMENAJE
Palabras sobre Enrique Volpe:
"MI CENIZA NO HA SIDO PROFANADA"

Por Lorenzo Peirano
Artes y Letras, El Mercurio, 24 de octubre de 2004.

Una visión sobre la obra literaria de Volpe que abarcó diversos ámbitos

¿Qué recordaremos de un poeta italiano avecindado en Chile desde los doce años de edad? ¿Qué diremos de Enrique Volpe? Tenemos, por el momento, dos versiones (entrecruzadas) de su persona. La primera corresponde a su "quehacer poético", a su vocación épica, inconmensurable. La segunda se refiere (lo intenta) a lo que pervive en nuestra memoria de su trato, de sus gestos, de su voz caudalosa. Determinados objetos caen al suelo: una cortapluma Victorinox, un llavero colgante, una pistola Beretta. Determinadas historias, narradas entre incontables cigarrillos y tazas de café, ya no se escuchan. Enrique Volpe murió en Santiago, a las diez de la mañana del 9 de mayo de 2002; había nacido el 27 de octubre de 1938, en Vercelli (Piamonte).

Un libro notable

Los datos de su muerte, exactos, tristes y fríos, nos causan asombro (todavía nos causan asombro). Aquel 9 de mayo Volpe se disponía a visitar a su amigo "compatriota", el escritor Gianni Migliano. No pudo ser. Luego, en el crematorio, veríamos a sus pares en la despedida final: Mardoqueo Cáceres, Fernando Quilodrán, Roberto Araya Gallegos… La muerte de Volpe fue sorpresiva, increíble, como también fue increíble su vida, repartida -al igual que la vida de Encina- entre el campo y "la actividad literaria". ¡Y qué actividad literaria! Enrique Volpe escribió un poema épico sobre el descubrimiento de Chile; esa fue, sin duda, una forma de demostrarnos cómo sentía a nuestro país (aunque, por supuesto, no es la única lectura del libro). La "Crónica del Adelantado" llegó a la imprenta en 1990, en un tiraje de 500 ejemplares. Volpe esperaba el Premio Municipal; sólo recibió una mención honrosa. El dictamen le dolió. Nos dijo en aquel tiempo que su poema no había sido valorado. Un año más tarde sería declarado "material didáctico de consulta para la educación chilena" y, en 1994, Editorial Universitaria lo reeditaría precedido de una carta abierta del poeta Armando Uribe.

Enemigo de la antipoesía, a la que veía como un despeñadero de frustración, Enrique Volpe escribió, antes y después de la "Crónica del Adelantado", otros libros. El primero, "Cabaña entre las Rosas", apareció en 1960. Fue allí donde el poeta itálico enfrentó la mayor dificultad: utilizar un idioma ajeno para su expresión. Volpe rescató de ese primer intento la fuerza metafórica y la potencia verbal, entendiendo que sus resultados no podían compararse con las obras de los poetas de su generación. Empezaría,entonces, necesariamente, un distanciamiento del ambiente literario, "tan lleno de miserias humanas", según sus propias palabras.

Conversaciones

Los precedentes literarios que tuvo en cuenta Enrique Volpe para tratar la empresa de Diego de Almagro -quien en abril de 1536 llegara al valle de Copiapó-fueron "La Araucana" de Alonso de Ercilla (nuestra Eneida, como escribiera Andrés Bello), y "Arauco Domado", de Pedro de Oña. No obstante, la imagiación primó en este singular poema. Tras sortear múltiples problemas técnicos, donde "la parte narrativa era la trampa mortal", Volpe llegó a un resultado sorprendente: más de dos mil versos teñidos de pumas y espejos, en los cuales el mismo Diego de Almagro nos habla de su infortunio. Y es que nuestro poeta consideraba al Adelantado español "un personaje injustamente olvidado por la historia, un antihéroe de 63 años con llagas en el cuerpo; un hombre que avanzó por terrenos desconocidos a filo de espada". Alguien propuso que en la Crónica había una especie de "invasión a las razas indígenas", cosa que indignó a Volpe, y que a notosotros nos parece irrelevante. Basta una atenta lectura del libro para comprender que éste apunta a la chilenidad en su esencia. No en vano encontramos a Gonzalo Calvo de Barrientos: "El primer español llegado a Chile y el primer padre de la mestiza raza chilena".

Los influjos de otros poetas que coexisten en la poesía de Volpe (aquí también aludimos a los libros "Viernes Santo", "Tierra Padana" e "Imperfecto Exilio") son variados. Hallamos, por ejemplo, aquel "golpear de sangre exaltada" de Dino Campana, así como la "rica sequedad" de Eugenio Montale. La presencia de Antonio de Undurraga de igual manera es evidente ("un diálogo invisible"). A esto sumemos otros elementos: su relación con payadores, ex bandidos o antiguos patriarcas campesinos como Luis Pastén, quien "representaba lo hidalgo con ojotas y hasta con harapos". Porque Volpe anhelaba , perseguía lo chileno, aquello que lo podía unir a nuestra patria: "Chile, como gota de rocío en el cuenco de una piedra:/Chile es el nombre indiano de esta tierra larga/ que cabe en el trino helado de un pájaro salvaje"… Y es que en su epopeya el poeta también se prolongó; su amor por las armas de fuego, transformado en un "dócil cuerpo de greda de una mujer india"; o aquel felino "que los indios llaman puma", y que para Volpe significaba "el alma bravía e indomable de la cordillera".

Alejándonos ahora de este tal vez somero análisis, la presencia de Enrique Volpe regresa con su excelente humor, con su inclinación a la buena mesa, y con sus recuerdos de Italia (de una Italia que suponía ya muy cambiada). Durante la guerra, en la infancia, solía recoger manzanillas con su bisabuela, Guiseppina Alessio; le conmovía escuchar "Las Muchachas de Trieste"; amaba, por sobre todo, a su madre; y practicaba ese ya casi perdido "culto a la amistad".

Con nostalgia recordamos aquellos miércoles lejanos; tardes en las que compartía con el poeta Jorge Teillier; tardes en las que se evocaban nombres malditos: Boris Calderón, Carlos de Rokha, Enrique Rebolledo Sánchez (alias "El Chilenito"). Horas en las que se revivían los viejos tiempos, en las que se hablaba realmente de poesía, y en las que Volpe transmitía los saludos enviados por Efraín Barquero desde Francia. Cuántas conversaciones retenemos en la memoria: los poetas crepúsculares: Sergio Corazzini ("O mia piccola dolce casa"), Guido Gozzano ("La belleza del giorno/e tutta nel mattino"). Ambiente alucinado, brumoso debido al humo de los cigarrillos (humo que formaba rostros ausentes). Historias transcurridas en el campo, entre las quebradas, al anochecer: apariciones, experiencias sobrenaturales; maleficios causados por brujos chilenos (según Volpe, los más poderosos de América). Muchas veces nos recalcaba el privilegio de ser los habitantes de un territorio casi virgen del planeta, aunque reconocía un mejor pasado. Lamentaba que la corrupción hubiese llegado a las grandes ciudades; pero repetía con fuerza (citando a Mariano Latorre) que Chile, afortunadamente, es un país de rincones.

Con intensidad trataba de explicar sus procesos poéticos (escribió también narrativa). Nos dijo que en la Crónica lo había dejado todo. Sus ojos azules de dilataban cuando hablaba de "la mecánica mágica", o de "una épica sin tiempo, para así llegar al tiempo nuestro". Expresaba sus ideas de manera original: "la corriente interna", "el tiempo operístico". Quizás lo obsesionaba un poco la unidad y la esperanza en "los lectores del futuro" (Charles Cros). Su formación autodidacta lo había enriquecido con múltiples lecturas. Le gustaba compartir sus conocimientos; pero con cierta timidez, a pesar de su marcado acento italiano con las erres del norte. "Yo estudié en una escuela agrícola mediocre de Linares", comentaba sonriente. Dividido entre las labores del campo y su deambular por la ciudad (parte de su "quehacer poético"), Enrique Volpe alentó una atmósfera que echamos de menos. Sentimos que hablar de su persona siempre será una deuda y un abrazo imposible. La inocencia y la generosidad primaron en él. Se fueron las conversaciones; se alejó el aroma de las castañas asadas en invierno. Un hombre alto y corpulento ya no pronuncia el nombre de sus amigos, ni comenta los sucesos de la vida con una mezcla de ímpetu y respeto.


FESTIVAL DELLA POESIA CIVILE
2007-06-21 18:54:47|di antonella barina

"come si partecipa al festival?"


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