Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce

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Hafez - Ascolta, o cuore dalle facili illusioni

Traduzione e lettura di Domenico Ingenito

Articolo postato sabato 5 dicembre 2009
da Marco Simonelli




Ascolta, o cuore dalle facili illusioni
(ruy benmay-o vojud-e khodam az yad bebar)


Mostra il tuo volto
e lascia che si trascini nell’oblio
la mia esistenza,
e fa che la porti via con sé il vento
la casa di chi ha in fiamme il petto.

Lascia che l’impeto del petto
nella Parside estingua del Tempio del Fuoco
le fiamme,
e dagli occhi scorrano sul viso
le acque del Tigri
di Baghdad.

Cedemmo il cuore e gli occhi, noi,
alla tempesta della rovina,
lascia allora che scorra il torrente
di dolore
e che sradichi le fondamenta della casa.

Chi potrà mai annusare
i suoi capelli di pura ambra,
che vano incanto!
Ascoltami, o cuore dalle facili illusioni,
e lascia che si estinguano dalla memoria
queste pallide parole.

Che trionfi la sorte del Vecchio dei Magi,
tutto il resto è cosa effimera,
che spariscano gli altri
e dimentichino il mio nome.

Non giungerai mai ad alcun luogo
per questa via
senza esserti misurato con lo sforzo,
rispetta devotamente il Maestro
se vuoi raggiungere l’onore cui aneli.

Il giorno della mia morte
per un respiro
concedimi la promessa dell’incontro,
e poi
accompagnami alle lastre del sepolcro,
io, serenamente libero.

– Ti ucciderò prima o poi
con le mie lunghe ciglia –
mi diceva ieri sera,
o Signore, spazza via dal suo animo
questi pensieri di terrore.

Pensa, Hafez,
al corpo sottile
dell’animo dell’amico,
e porta via dalla sua soglia
lo strepito di questo lamento.



Nota biografica sull’autore - Shams al-Din Mohammad Hafez di Sciraz

È considerato il massimo poeta persiano di tutti i tempi, ispirò il Divano Occidentale-Orientale di Goethe e tuttora, in Iran, si ricorre al suo Canzoniere per trarre auspici. Poche sono le notizie biografiche di cui disponiamo, fu panegirista attivo presso sovrani e ministri che si sono susseguiti a Sciraz durante i turbolenti decenni che precedettero l’arrivo di Tamerlano, e allo stesso tempo frequentò le cerchie mistiche e poetiche della propria epoca.
Memorizzatore del Corano, da cui il suo pseudonimo (Hafèz, lett. “memorizzatore”), nelle sue canzoni convergono e si sovrappongono i registri dell’eros, della mistica e dell’encomio politico. I letterati che accolsero e diffusero il suo Canzoniere lo soprannominarono “La Lingua dell’Occulto”, sia per il costante oscillare tra mondanità e trascendenza dei suoi versi che per l’inimitabile raffinatezza con cui il poeta ha portato a perfezione il mezzo millennio di lirica persiana che lo precede.
Le sue canzoni sono caratterizzate da una tecnica definita come “contrappuntistica”: Hafez, contrariamente a una tradizione poetica che preferiva una certa omogeneità e continuità discorsiva, all’interno di uno stesso testo sviluppa diversi temi in rapida successione, offrendo così al lettore un caleidoscopio di immagini e significati tesi a rappresentare l’ampio spettro dell’esperienza sensibile e sovrasensibile. I suoi serrati virtuosismi retorici e l’ampio ricorso alla polisemia non cedono mai il passo a un preziosismo fine a se stesso ma, al contrario, si amalgamano in una lingua fluente e ricca di assonanze, particolarmente adatta all’adattamento musicale.
Raffinatezza linguistica, polifonia semantica e confluenza di differenti piani ideologici in bilico tra devozione erotica, spirituale e politica, mettono a dura prova le competenze poetiche dei traduttori di Hafez, che resta comunque uno degli autori persiani più tradotti, sia in occidente che in oriente.
Le versioni che qui presentiamo, sebbene in alcuni punti si discostino non di poco dal dettato originale, sono frutto di una precisa scelta traduttiva che predilige un apparente tradimento della superficie testuale per aspirare a una fedeltà “d’altra forma”: negoziata ermeneuticamente e attenta al peso poetico che il verso hafeziano può assumere a contatto con la lingua italiana.

Principali traduzioni di Hafez in italiano e in francese:

Canzoniere, a cura di Stefano Pellò e Gianroberto Scarcia, Edizioni Ariele, 2005.
Ottanta Canzoni - Testo Persiano a Fronte, a cura di Stefano Pellò e Gianroberto Scarcia, Einaudi, 2008.
Il Libro del Coppiere, a cura di Carlo Saccone, Carocci, 2003.
Versi sul Vino - Antologia del canzoniere di Shams od-din Mohammad Hafez, a cura di Riccardo Zipoli, L’Artistica Editrice, 2006.
Le Divan, introduction, traduction du persan et commentaires par Charles-Henri de Fouchécour, Verdier, 2006.



Nota Biografica sul traduttore - Domenico Ingenito
domenico.ingenito [@] gmail.com

Nasce a Castellammare di Stabia nel 1982, si occupa di fotografia, teoria della traduzione, letterature comparate e poesia persiana medeviale e contemporanea. Sta terminando un dottorato in lingua e letteratura persiana presso l’Università di Napoli "L’Orientale". Ha curato la traduzione italiana dei versi della poetessa iraniana Forugh Farrokhzad (La Strage dei Fiori, Orientexpress, 2008, una sua monografia sul poeta satirico persiano ’Obeyd Zakani e le sue traduzioni dal poeta iraniano contemporaneo Bijan Jalali (Gli Incontri - Poesia e Fotografia Persiana) sono in attesa di stampa. Al momento cura la prima traduzione italiana del Canzoniere della poetessa persiana trecentesca Jahan Malek Khatun (La Dama del Mondo).
Traduce anche dallo spagnolo e dal portoghese.
È redattore della rivista on line di traduzione letteraria “il Porto di Toledo”, www.lerotte.net e collabora al progetto europeo "Biennale E.S.T., Europe as a Space of Translation" - www.estranslation.net

hafez - ascolta, o cuore dalle facili illusioni
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10 commenti a questo articolo

Hafez - Ascolta, o cuore dalle facili illusioni
2009-12-21 17:04:17|di fabiandirosa

E chi non c’è mai stato, ha da andare a visitare il giardino di Shiraz in cui un discreto gazebo di marmo che da riparo alla tomba di Hafez: pietra scolpita coi versi del Poeta, su ciascuna delle cinque faccie. Che il rocordo non si dilegui mai in me!


Hafez - Ascolta, o cuore dalle facili illusioni
2009-12-11 18:57:39|di lorenzo carlucci

Caro Domenico,

leggendo le tue righe seguenti mi rendo conto che devi avere male interpretato la mia posizione. Scrivi:

"Lorenzo Carlucci difende la necessità di andare "contro" i valori dominanti nella cultura e nella società del nostro tempo presente. Ma io credo che una poesia così vicina al quotidiano, al poco aulico, così restia a lasciarsi trasportare (sebbene con misura) da un afflato di natura sacra, tanto propensa alla denuncia di problemi sociali e politici, e così refrattaria all’impiego di registri, forme e contenuti in grado di sostenere la compenetrazione tra visibile e invisibile nonché la compresenza di bestiale e divino nella natura umana, si faccia automaticamente sostenitrice di quegli stessi valori dominanti in questo tempo intriso di ateismo di stato."

Quella che tu descrivi non è una idea di poesia che io appoggio, tutt’altro. Quanto devo essermi espresso male se hai capito così! Eppure mi sembrava di aver preso esplicitamente le distanze da certe cose nei messaggi qui sotto. A parziale riprova mi sembra opportuno indicarti una discussione in atto adesso su Nazione Indiana sullo stesso tema (più o meno), alla quale credo tu potrai partecipare con profitto e dalla quale forse potrai farti un’idea più chiara su ciò che io penso a riguardo.

http://www.nazioneindiana.com/2009/...

A presto,
Lorenzo


Hafez - Ascolta, o cuore dalle facili illusioni
2009-12-11 16:45:09|di Domenico Ingenito

Cara Renata,
faccio tesoro delle tue osservazioni, sono assolutamente d’accordo con quello che dici. Scrivere poesia oggi (soprattutto oggi, ma questo forse è stato valido per ogni storia letteraria)significa sicuramente percorrere un sentiero serrato e sospeso a metà strada tra, come dici tu, "dogmatici sperimentalismi" e "stanchissimi lirismi".

Non abbiamo un metro (di giudizio, e nemmeno prosodico), e quindi ben venga il dibattito permanente, a patto che assuma una forma dialogica così come stiamo facendo qui in modo estemporaneo, evitando quindi la pontificazione di giudizi assoluti di valore. Perché un valore assoluto, adesso come adesso (purtroppo, oserei dire) non esiste.

Sono pochi anni che frequento i poeti viventi (così come da pochi anni frequento assiduamente, con "studio", i poeti morti)e mi meraviglia il fatto di trovare intorno a me persone estremamente colte e capaci di gestire magistralmente la propria scrittura poetica. Ormai i poeti di oggi sono quasi tutti "laureati" anche quando, in pochi casi, la letteratura non l’hanno studiata in prima persona.

Cionostante, considero pessima, davvero pessima gran parte della loro poesia. E questo non tanto per via del mio gusto personale, al contrario, noto una certa incomunicabilità di fondo, un distacco gelido, un’incapacità di fare breccia nei cuori con la loro voce. Pare che questa presa estetica ormai la ottengano solo Battiato, De André, Guccini, quando va bene, e i neomelodici napoletani quando va un po’ meno bene.

Questo, secondo me, è il punto. Ne ho abbastanza di quella visione funzionalista sempre pronta a tracciare una linea di demarcazione netta tra cultura alta e cultura bassa. Il discorso poetico potrà essere sempre più o meno completamente gestito dalle élites culturali, ma resta una costante che, storicamente, è legata alla quintessenza dell’essere umano, quasi come se si trattasse di un bisogno primario, al pari del mangiare, bere e unirsi in piacere.

Ci manca una definizione precisa di poesia, è vero, il compianto Meschonnic ha scritto vari saggi a riguardo, ma non credo sia arrivato a un punto fermo. I Persiani si accontentavano di definizioni come "discorso in versi, rimato, regolato da un metro e fittivo...", a partire da quello si poteva produrre poesia più o meno eccellente, media o scadente, ma il margine tra "poesia" e "non-poesia" era chiaro. Non intendo ontologizzare la forma del discorso poetico, in alcuni tempi e in alcuni luoghi tali definizioni restrittive sono necessarie. Resta chiaro però, con o senza definizioni, il discorso poetico resta vivo e necessario, in quanto presenza indispensabile di un atto linguistico parzialmente separato dalle finalità e dalle modalità del discorso quotidiano, indipendentemente dal registro aulico, medio, o basso.

G. Steiner in "Vere Presenze", pur non occupandosi esclusivamente di poesia, ha colto molto meglio di Meschonnic il nocciolo della questione: poetico (che sia in prosa o in versi, a un certo punto, non importa) è quel discorso in cui un certo ineffabile fa presa e lascia emergere la presenza di quello che non potrebbe mai essere detto completamente. "Presenza" è quello che può essere pronunciato solo in forma di tensione verso-, proprio come la lingua persegue l’oggetto senza mai metterlo completamente a fuoco. E’ lo stesso meccanismo in atto nel corso della preghiera, dell’amplesso sessuale (con o senza amore) e, secondo me, nella circolarità potenziale di cui gode o dovrebbe godere il discorso poetico:

O presenza, per quale cammino andrò
lontano da te?
Si smuove l’albero nel mormorio del vento
tra le foglie, ancora non ti ho visto,
ma ti presento.
Sosterrò Presenza?
(Joan Vinyoli)

Credo che di questo ne sia consapevole (in modo più o meno cosciente) ogni poeta nel momento in cui scrive o nel momento in cui gode leggendo e ripetendo quello che ha recitato, scritto e goduto. Indipendentemente dal suo essere ateo, miscredente o teista fervente.

Possiamo discutere sui nomi o sulle definizioni da incollare alle cose, sulle loro etimologie e sule loro genealogie. Ma quello che le cose sfiorano con potenza non può essere negato. Così come non possiamo negare il fatto che ogni discorso poetico, per sua natura, ma soprattutto per *nostra* natura, tenda a una forma di trascendenza, mai riducibile a un fideismo dogmatico, a una chiesa o a una confessione storicamente situata. Le modalità dello sfioramento possono essere varie, la trascendenza può essere sfiorata per via positiva, negativa, coercitiva, nascosta, indifferenta, ma mai può essere negata tout court.

Che in ogni cultura la poesia nasca in stretto legame con l’ambito dell’eros, del sacro e dell’encomio politico non solo è un fatto che non possiamo negare, ma è anche qualcosa che non possiamo più far finta di non prendere in considerazione. Per millenni e stato così, in forme diverse, e tuttora continua, in forme diverse, ad essere così.

Non nascondo che in un primo momento ho considerato gran parte dei suddetti poeti viventi in un modo assolutamente negativo, leggevo quello che scrivevano e che continuano a scrivere, e non potevo evitare di immaginare il loro io empirico, al pari del loro schizofrenico io lirico, un’entità assolutamente superficiale, narcisistica e piegata all’ateismo di stato che, con o senza Vaticano, domina il nostro tempo presente.

Ho cercato spesso un incontro vis-à-vis, e mi sono dovuto ricredere, mi son dovuto profondamente ricredere.
Ho trovato persone letteralmente traboccanti d’afflato trascendente, trapassate da forza, consapevolezza, rigore di sguardi. Come spiegare allora la discrepanza tra la poca forza e la leggerezza (non quella di Calvino!) di quello che scrivono e la complessa natura del modo con cui i loro corpi sfiorano il mondo?

Ho notato qualcosa come una paura, un terrore indicibile, da parte di molte tra queste persone nei confronti di tutto quello che possa essere legato all’ambito del sacro, dell’ineffabile. Riflesso di questo timore, a mio parere, può essere rintracciato soprattutto nell’ossessiva reiterazione di 1) un discorso ironico, autoironico e dissacrante 2)un ripiegamento in certi casi assoluto alla presenza del corpo in quanto tavola anatomica da spolpare, sezionare e portare alla luce. Non credo si tratti di fenomeni da giudicare negativamente, queste sono due costanti che secondo me emergono anche nei versi più interessanti della poesia contemporanea. Emergono pero’, entrambe, come due spie di un problema di fondo, ovvero la presa di distanze da quella trascendenza che in sé ha sempre caratterizzato il dominio del discorso poetico. Risulta sempre più difficile parlare di anima e di cuore, in quanto entità simboliche che rimandano al versante invisibile del sentire, mentre il discorso si sposta sempre più sulla riesumazione di organi interni e sull’esposizione di segmenti epidermici. Dovremmo forse rileggere meglio i testi di un Magrelli o di un GrUnbein per comprendere meglio l’origine di questa costante.

Allo stesso modo, l’assottigliarsi del margine tra serietà e ironia (in certi casi si tratta di vero e proprio cinico sarcasmo) rimanda anche a un rifiuto di quel piano elevato dell’esperienza dove il verso cerca di fare presa.

Possiamo indignarci davanti ai dogmatismi teologici del nostro tempo, ma non possiamo più permetterci di fare di tutta l’erba un fascio ed eliminare dai nostri valori condivisi, oltre al dominio politico delle chiese istituzionalmene organizzate, anche l’ambito del sacro dalla percezione che abbiamo del mondo. In questo modo siamo necessariamente portati a mandare in inverno una parte fondamentale del nostro sentire e del nostro esprimere quel fragile legame tra gli oggetti e le parole.

Lorenzo Carlucci difende la necessità di andare "contro" i valori dominanti nella cultura e nella società del nostro tempo presente. Ma io credo che una poesia così vicina al quotidiano, al poco aulico, così restia a lasciarsi trasportare (sebbene con misura) da un afflato di natura sacra, tanto propensa alla denuncia di problemi sociali e politici, e così refrattaria all’impiego di registri, forme e contenuti in grado di sostenere la compenetrazione tra visibile e invisibile nonché la compresenza di bestiale e divino nella natura umana, si faccia automaticamente sostenitrice di quegli stessi valori dominanti in questo tempo intriso di ateismo di stato.

Le chiese vanno sicuramente combattute, ma con i medesimi valori che esse stesse dovrebbero difendere e sostenere e che da troppo tempo hanno dimenticato. E qui non parlo di unioni civili, aborto, etc., questioni che possono essere combattute e risolte con gli strumenti del diritto, con una sana prosa, e con un preciso impegno civile. Parlo di quella sacralità dell’essere che tocca tutti i punti della Presenza e che emerge in quei soliti discorsi tanto pronti a sfiorare il sacro, l’amore, etc...

Proiettare in classe "Il Vangelo secondo Matteo" di Pasolini è molto più efficace di qualsiasi direttiva europea votata a togliere i crocifissi dalle aule non solo per conservare quel poco di sacro che nel discorso pubblico possiamo ancora alimentare, ma anche e soprattutto per contrastare il depauperamento di sentimenti di elevazione che tanto ha inaridito le chiese, d’oriente e d’occidente, nel corso degli ultimi secoli.

Può il discorso poetico contemporaneo avere il coraggio di andare in questo senso e operare un tipo di sovversione molto più profonda?

Per quale motivo il discorso "elevato" in poesia deve necessariamente essere tacciato di superficialità? Perché di amore devono parlarne i neomelodici napoletani e i poeti italiani si spaventano all’idea di mettere mano al fervore che si può nascondere dietro la menzione di immagini estremamente semplici?

Tutto il tam-tam anti-De Filippi e anti-Berlusconi mi ha stufato, si tratta di fenomeni complessi e alle cui radici gli intellettuali italiani degli ultimi decenni hanno la propria parte di responsabilità. Sono molte le ragioni, ma tra queste c’è il rifiuto, da parte loro, di prendere seriamente in considerazione il discorso sul sacro e il discorso sull’amore.

Io credo che la poesia persiana, oggi, possa offrire molto in questo senso. Ha ragione Renata quando dice che bisgona sudare, e tanto, e giustamente gran parte di questa fatica deve passare per il lavoro sulla traduzione, dove la distanza o la vicinanza rispetto al testo originale può essere quantificata quanto basta per mettersi tutti d’accordo sul come potrebbero essere dette le cose.

Lorenzo, io credo che il modo migliore di esprimere cosa ci va bene o cosa non ci piace rispetto a una traduzione sia la presentazione di un testo alternativo a quello che è stato criticato. Solo lì, in altra forma, si dà l’opportunità di "raddrizzare" i nomi.

Nello stato in cui versa la nostra letteratura non possiamo prenderci il lusso di invocare canoni giusti o sbagliati, il massimo che possiamo fare è alimentare la nostra curiosità e porre domande sulle scelte, così come tu hai giustamente fatto, rivolgendomi il quesito sulla "necessità" di tradurre questo o quell’altro termine in un dato modo. Che è anche uno dei modi migliori per godere dell’arte, non solo della letteratura, e non solo per studiarla criticamente.

Io so solo che in Italiano esistono espressioni molto cariche di senso, tanto cariche di forza e senso che rischiano di metabolizzare eccessivamente il tessuto linguistico in cui sono poste. Ma prima o poi dovremo scendere a patti con esse, e capire meglio la differenza che passa tra "impeto" e "scazzo" in un testo poetico.

Per onestà intellettuale vi inoltro le traduzioni di questa stessa canzone di Hafez pubblicate ultimamente da tre fra i migliori iranisti italiani. In questi giorni sta per uscire sulla rivista "Oriente Moderno" una mia recensione critica alla loro traduzione integrale del Canzoniere hafeziano. Ho messo da parte ogni tipo di giudizio estetico, per concentrarmi sull’analisi del pensiero dominante dietro il loro lavoro di trasporto. Le questioni di gusto, oggi come oggi, in fin dei conti, spettano esclusivamente a quello spazio di silenzio e intimità che si instaura tra il testo e il lettore che ne fruisce.

La prima versione è di Giovanni Maria D’erme, che ha tradotto Hafez in prosa e lo ha pubblicato presso l’Università di Napoli l’Orientale:

Mostra il volto e scordati della mia esistenza; dì pure: "O vento, spazza via tutto il raccolto di chi è bruciato"

Poiché noi consegnammo il cuore e gli occhi al tifone della sciagura, di’ pure: "Vieni, o piena del dolore, e sveli la casa dalle fondamenta"

Chi può annusare la sua chioma simile ad ambra grezza? Nessuno, mai. O cuore che nutri grezzi desideri, dimentica siffatti discorsi!

Di’ pure: "Petto, estingui la fiamma del tempio del fuoco del Fars"; di’ pure: "Occhi, svergognate il Tigri di Baghdad"

Duri la fortuna del Superioredei Magi, ché il resto poco conta; di’ pure: "Gli altri se ne vadano e dimentichino il mio nome"

Senza compiere sforzi non si va da nessuna parte, su questa Via, se vuoi il compenso, obbedisci al Maestro.

Il giorno della mia morte, promettimelo, concedimi un incontro di un solo secondo, e poi portami alla tomba sereno e felice.

Diceva stanotte: "Ti ucciderò con le mie lunghe ciglia". O Signore, togli dal suo animo ogni ingiusta intenzione.

O Hafez, preoccupati dell’irascibilità dell’Amica e porta via dal suo soglio i tuoi pianti e i tuoi lamenti.

Segue la traduzione a quattro mani di Gian Roberto Scarcia e Stefano Pellò,in versi, pubblicata integralmente per l’Ariele, e poi nella collana di poesia Einaudi:

Mostra il tuo volto ed immemore fammi di questa esistenza:/
si perda pure nel vento, il raccolto di quanti son arsi. /

E gli occhi e il cuore smarrii nel tifone d’immane sventura: /
venga pure il diluvio di pena a travolger la casa e i pilastri. /

Chi mai lo sente, il profumo del ricciolo suo d’ambra pura? /
O tu cuore d’acerbe speranze, dimentica queste parole. /

Parla al petto, che estingua la fiamma del tempio del fuoco nel Fars! /
Parla all’occhio, che si porti via l’acqueo onore del Tigri a Baghdad!/

Senza lena affannata, su questo percorso, non giungi a stazione:
se quanto tu cerchi è d’aver ricompensa, obbedisci al maestro! /

Sia la gioia del Vecchio dei magi, ché il resto non conta! /
Tutti gli altri, che vadano pure e si scordino questo mio nome! /

Il giorno della mia morta, prometti un incontro che duri un respiro, /
e portami allora al sepolcro, leggero e affrancato! /

"Con queste ciglia mie lunghe t’uccido", diceva iernotte. /
A lui detergi, Signore, la mente da iniquo pensiero!

Ma all’esser fragile suo tu riserva, poeta, attenzione:/
con te s’allontani da quello il lamento ed il grido.

Anche un altro autorevole iranista, Carlo Saccone, ha tradotto Hafez. La selezione di canzoni tradotte si intitola "Il Libro del Coppiere", ed è stato pubblicato nella collana medievale della Carocci. Sebbene le sue traduzioni siano pregevolissime, purtroppo questa canzone non è presente nella sua selezione.


Hafez - Ascolta, o cuore dalle facili illusioni
2009-12-11 12:53:53|di lorenzo carlucci

sono d’accordo con te renata, la scelta opposta corre il rischio opposto. io preferisco questo rischio all’altro. scrivendo si servono comunque gli "interessi di una" [qualche] "ricerca poetica nostrana".

faccio invece un po’ di fatica a identificare - come tu suggerisci di fare - la lingua di questa traduzione con quella dei madrigali di monteverdi. se si può riconoscere una somiglianza è soltanto sul piano lessicale. ma questo lessico slegato dalla metrica dei madrigali è tutt’altra cosa e ci porta altrove, verso un’altra lingua, non è così?

lorenzo


Hafez - Ascolta, o cuore dalle facili illusioni
2009-12-10 17:39:34|di renatamorresi

assai interessante questo dialogo tra Domenico e Lorenzo, intorno a una questione cruciale, mi pare: ci troviamo qui di fronte a una forma del ’poetese’? o, al contrario, di una consapevole presa di posizione contro lo ’sperimentese’?

potrei anche provare a fare questo:

Fatti vedere

lascia che mi scordi di

chi sono

che se la porti via il vento

casa mia, la casa di uno che brucia.

Lascia che quello che mi brucia

nell’acqua estingua il fuoco,

nel tuo tempio di fuoco,

e dagli occhi scorrano sul viso

le acque del Tigri

di Baghdad.

Il traduttore mi perdoni (mi perdoni anche Hafez), ho fatto volutamente un esperimento di appropriazione per arrivare alle domande che mi pongo: non sarà che così servo un po’ troppo gli interessi di una ricerca poetica nostrana (in questo caso mia) e addomestico troppo il testo originale (come nell’esempio di Fitzgerald citato da Lorenzo)? Domenico forse opta per una traduzione più scomoda, paradossalmente più straniante per noi lettori ’scafati’, che infatti ci mette a disagio: una traduzione fatta con una lingua ’media’, che serve proprio per tentare di sdoganare la liricità fortemente in ribasso tra molti poeti italiani. Forse non è vero che *questa* lingua media non esiste: credo che sia quella della canzone alta, per dire, dei madrigali di Monteverdi. A ben guardare, quindi, neanche tanto media, ma abbastanza canonizzata per essere riconosciuta immediatamente come ’la poesia’. Forse è proprio qui l’inghippo, il luogo dove ’volto’, ’oblio’, ’impeto’ rischiano di immunizzare il testo piuttosto che farlo esplodere.
Cosa ci voglia per rinnovare un registro poetico logorato e da dogmatici sperimentalismi e da stanchissimi lirismi, non lo so, temo che dovremo sudarci ancora un bel po’ di camicie - la traduzione rimane senz’altro un terreno fecondo per portare avanti questa ricerca e devo dire che sono grata a Domenico per farmi conoscere questi testi grandiosi ("Ti ucciderò prima o poi / con le mie lunghe ciglia"!)

un caro saluto,
renata


Hafez - Ascolta, o cuore dalle facili illusioni
2009-12-10 06:31:08|

a me pare semplicemente divina la traduzione di Domenico, evanescente e musicale,seppur precisa e puntuale.
N.


Hafez - Ascolta, o cuore dalle facili illusioni
2009-12-09 13:06:04|di lorenzo carlucci

Domenico, ti ringrazio per la tua risposta molto approfondita e appassionata, che mi ha offerto spunti di rilessione ulteriore. riconosco che la tua accusa è in parte fondata: anche se le mie aspettative non hanno le connotazioni dell’ "esotismo" che descrivi tu, e fatta la tara della tua posizione di specialista che facilmente sospetta gli altri di nutrire pregiudizi, è pure vero che io ho un’aspettativa "orientalistica" in senso lato. nel senso che mi aspetto che alcuni caratteri che riconosco propri di una cultura (lontana nello spazio e nel tempo) - e che conosco per consuetudine con altre forme di espressione quali per esempio la filosofia - possano o addirittura debbano agire anche per opposizione alla cultura del nostro presente, e che in questa azione ("l’impatto... contro") stia uno delle possibili funzioni di questa letteratura, oggi e per noi. mi chiedo però: è possibile fare a meno di una aspettativa del genere?

d’altra parte, anche la tua traduzione è inevitabilmente un’opera di mediazione culturale, e - capisco ora - a tesi: vuoi sottolineare una "convergenza" tra la tradizione persiana e la nostra tradizione, e questa intenzione spiega la tua scelta lessicale. ciò detto, la scelta di rendere un linguaggio "aulico" persiano con un inguaggio "aulico" italiano non è obbligata, neanche per chi, come te, vuole sostenere la tesi della convergenza. ti esprimo qui sotto qualche perplessità su questa scelta.

innanzitutto mi è poco chiaro *quale* tradizione aulica italiana tu abbia in mente come modello. il problema c’è: a me sembra che tu abbia tradotto in una lingua poetica media che non esiste (nel senso che non ha modelli alti). proprio perché, come tu stesso dici: "Per il momento io non vedo canoni" (anche se in parte ti contraddici richiamandoti alla permanenza di "un’estetica (e neppure tanto "di nicchia") che si avvale di un registro aulico, sostenuto, e al contempo fluente."). ma se questo è vero, e io lo credo, allora vengono a mancare i presupposti per l’efficacia della tua traduzione: perché essa cerca una comunicabilità, una accessibilità (dici "ho preferito un tono dal carattere accessibile così come lo è la lingua di Hafez agli iraniani di ieri e di oggi") che non è affatto scontata, proprio perché si può fondare soltanto su un canone, su una larga condivisione. e questa manca, forse perché è perduta la "partecipazione collettiva alle forme del Sacro" come tu suggerisci, forse per altri motivi.

allora il punto di partenza non è la "sovversione" del linguaggio degli sperimentalisti, bensì l’assenza di questa condivisione. ma per chi, come te (e, sia detto tra parentesi, come me) vuole considerare soluzioni diverse da quelle esibite dalle correnti "sperimentali" e non compiacersi di restare al grado zero del soggetto, il problema rimane, e non si può risolvere fingendo che non esista, e credo non sia sufficiente richiamarsi alla permanenza di una certa estetica troppo vagamente caratterizzata e che si è già rinunciato a riconoscere come canone. una tale estetica, se esiste, esiste esclusivamente attraverso la creazione continua di opere che hanno connotati differenti da quelli delle opere passate. pertanto non può essere invocata come fondativa, se non incorrendo in una circolarità.

permettimi di mettere a confronto la tua traduzione con altre due opere: la versione di Fitzgerald delle Quartine di Khayyam (fine Ottocento) e il "Sognando Li Po" di Claudio Damiani, dell’anno scorso. ritengo utile il confronto perché in entrambi
i casi siamo di fronte ad opere che tendono a sottolineare la convergenza delle tradizioni orientali e occidentali, piuttosto che a compiacersi di orientalismi.

nella prima abbiamo l’esempio di un appiattimento dell’originale sul gusto del traduttore, un vero mascheramento di Khayyam in stile vittoriano. eppure è nota la fortuna dell’opera, dal suo impatto sui preraffaelliti al suo successo durante il Modernismo e oltre. qui abbiamo forse un esempio di orientalismo puro, ma talmente estremo da rivoltarsi nel suo opposto: nella negazione fattuale di una distanza tra la poesia persiana medievale e il gusto contemporaneo. quella di Fitzgerald è un’opera che ovviamente si appoggia (o cerca di appoggiarsi, ma talmente è folle il salto che inciampa) sul fondamento di uno stile e di un gusto condivisi, di un canone.

nel secondo caso, quello di Damiani, abbiamo ancora un’opera che mira a sottolineare le convergenze tra la tradizione orientale (in questo caso quella della poesia cinese antica) e
la tradizione occidentale (in questo caso quella della poesia latina). ma stilisticamente qui non abbiamo la riduzione a un canone presente né un rifacimento del passato: Damiani sfrutta l’eco tra Li Po e Orazio per renderceli presenti entrambi, e dunque per dire qualcosa di altro, con un linguaggio che è distante tanto dall’uno quanto dall’altro. e questo è - paradossalmente - necessario nel suo caso anche per scrivere "poesie come sempre sono state scritte". [è anche curioso qui notare come Damiani usi nel libro anche stilemi della poesia persiana, e.g., le perle che
furono un tempo occhi di principessa!]

è forse interessante osservare come le tue osservazioni sulla relazione tra le "parole" e le "cose" siano in piena consonanza con alcuni pronunciamenti proprio di Damiani. ma ecco, vedi, nella poesia di Damiani è tutta una guerra, per mantenere saldo il controllo su quella relazione naturale tra parola e cosa, per "raddrizzare i nomi" come dice Confucio, che Damiani
cita appunto in questo contesto.

"volto", "oblio", "impeto", "vano incanto", "estinguere", "anelare", "soglia" e "strepito" tutti insieme in un unico componimento danno il senso di una lingua poetica inesistente, indipendentemente dalle aspettative e dagli orientalismi. cerchiamo insieme una poesia italiana che contenga cinque di questi otto vocaboli, e vediamo a quando risale e quale sia. non sono nomi dritti. sono nomi che vanno raddrizzati. e raddrizzarli tutti insieme è roba da fatica di Ercole.

lorenzo carlucci


Hafez - Ascolta, o cuore dalle facili illusioni
2009-12-08 18:32:01|di Domenico Ingenito

Lorenzo, ti ringrazio per lo sguardo critico. Proponi alcuni interessanti spunti di riflessione, sui quali vale la pena soffermarsi in modo più approfondito.
Parliamo d’Iran e di poesia persiana, ma il discorso vale per tutto quello che, su un asse diacronico e sincronico, riguarda l’Oriente (non solo letterario, ma anche culturale e politico) e le sue numerose declinazioni particolari.
Seguo parte di quel discorso di Edward Said ("Orientalismo", se non l’hai letto ti consiglio di farlo)che è stato presentato in forme molto più raffinate nell’ambito degli studi antropologici: "orientalistica" è la modalità con cui siamo abiutati a recepire l’alterità culturale secondo piani di senso totalmente divergenti rispetto ai nostri. Si tratta di un discorso che solo apparentemente supera un certo etnocentrismo ottocentesco che vede le letterature "altre" sempre e comunque qualitativamente inferiori alle nostre, proprio come la retorica post-coloniale, sebbene sia marcata da istanze di libertalismo e autodeterminazione, non fa che riproporre gli stessi paradigmi, seguendo però logiche di assoggettamento molto più subdole.
Ogni rappresentazione orientalistica è legata a dinamiche esotizzanti che relegano l’alterità a una diversità assoluta che deve necessariamente com-portare in sé i segni di una differenza altrettanto assoluta.
A questo proposito sono molto interessanti le osservazioni di un intellettuale come Hofmannshtal in merito alla differenza tra esotismo orientaleggiante e svelamento nella ricezione della poesia persiana classica nel West-Oestlicher Diwan di Goethe.
Dietro le tue parole leggo un certo dogmatismo orientalistico: in contrapposizione all’eco troppo nota ti aspetti di trovare nel testo un che di "poco noto", così come in esso cerchi un impatto che sia "contro di noi".
E’ troppo facile occuparsi di Persia, India, Cina o mondo islamico rincorrendo aspettative esotizzanti, che in fin dei conti non sono altro che lo specchio di una nostra boria o vanagloria estetica. Molto più difficile è invece l’accettazione di una convergenza di fondo, in cui la "normalità" apparente delle forme e degli oggetti raccolti dalla scrittura si prestano a una lettura più approfondita.
Insomma, possiamo parlare di tappeti volanti, terroristi, veli neri e mille e una notte finché ci pare, ma la poetica presentata dalla lirica classica persiana è molto più vicina di quanto si pensi ai sensi sviluppati dalle tradizioni di casa nostra. E’ nelle sottili variazioni di registro e di codificazione del senso che bisogna andare a scavare.
Mi chiedo quale problema possa derivare dall’utilizzo di termini come "volto", "oblio", "impeto", "vano incanto", "estinguere", "anelare", "soglia" e "strepito".
Il testo di una lingua tanto diversa dall’italiano non presenta vincoli di tale natura, l’unico vincolo al quale mi sono attenuto è la presenza di un registro linguistico persiano aulico, sostenuto e al contempo fluente. Per quanto buona parte della poesia italiana contemporanea si diletti con l’esercizio (spesso vanamente dissacrante e fine a se stesso)di uno stato di sovversione permanente del linguaggio, permane comunque un’estetica (e neppure tanto "di nicchia") che si avvale di un registro aulico, sostenuto, e al contempo fluente. Ovviamente esiste in questo un margine di differenza tra le parole che ancora oggi in poesia potrebbero esser dette e le parole ormai assolutamente desuete e impiegate magari in contesti in cui la scrittura fa il verso alla propria storia linguistica. Se avessi scritto "rostro", "ascoso", "vezzoso fanciullo", "indomito" e "solerte", ti avrei dato tutte le ragioni del mondo, sebbene si tratti di scelte lessicali contestualmente legate al vastissimo sfondo lirico italiano nonché all’ancora più ampio spettro di riutilizzo di forme appartenenti ai tempi diversi della nostra tradizione. Tutto è discutibile, per grazia di Dio, ma sia la possibilità di un godimento estetico in altra forma, sia l’accesso a un’indagine ermeneutica circolare vanno a farsi benedire se ci atteniamo a dogmi che nel nostro tempo (purtroppo o per fortuna) non possono sussistere senza l’appiglio a un preciso programma ideologico. Allo stesso modo mi ha stupito quando Nietta Caridei, editore "D’If", in una comunicazione privata mi disse, testualmente, che "oggi in poesia non bisogna usare le virgole alla fine dei versi". Lo sperimentalismo e il rifiuto di un canone dogmatico mi va benissimo in poesia, mi meno bene invece quando lo stesso sperimentalismo afferma delle istanze canonizzanti. Per il momento io non vedo canoni, e non ti nascondo che sarei ben felice se se ne costituisse uno, ma si tratta di una storia che è andata via via perdendosi con il tramonto di una partecipazione collettiva alle forme del Sacro, tanto messo alla berlina da quegli stessi poeti giocherelloni che null’altro dissacrano se non il legame stesso tra parole e cose del mondo.
Insomma, il senso di "freddo" è relativo al tipo di calore che ci si aspetta; ai fuochi di artificio, nel tradurre, ho preferito un tono dal carattere accessibile così come lo è la lingua di Hafez agli iraniani di ieri e di oggi. E’ da quella "normalità", spesso dimessa, che dovrebbero o potrebbero emergere sensi molto più profondi di un superficiale inebriamento militante.
Il massimo che posso fare è proporti la lettura di una traduzione interlineare di questo stesso testo, parola-per-parola, da lì i giochi possono cambiare di molto, a misura di gusto, sensibilità e aspettative.

Un caro saluto,

Domenico.


Hafez - Ascolta, o cuore dalle facili illusioni
2009-12-05 22:20:40|di lorenzo carlucci

mi lascia un po’ freddo la traduzione (non che io conosca l’originale), in particolar modo la scelta lessicale: volto, oblio, impeto, vano incanto, estinguano, aneli, soglia, strepito.
rimanda un’eco di troppo noto, impoverisce le potenzialità d’impatto che una poesia del genere ha - oggi -
contro di noi. il testo (e il contesto) originale vincola(no) davvero decisivamente queste scelte?

lorenzo


Hafez - Ascolta, o cuore dalle facili illusioni
2009-12-05 18:36:36|di Lello Voce

Grande il mio prediletto Hafez! Sia salute a lui e ai suoi indimenticabili coppieri!
lv


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