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Il postmoderno a infinite dimensioni - di Remo Ceserani

Il Manifesto

Articolo postato martedì 1 gennaio 2008
da Lello Voce

Ripropongo qui un bell’intervento di Ceserani a proposito di ’Postmoderno’ e ’Postmodernismo’ apparso qualche giorno fa. Mi pare estremamente interessante, anche perché rimette in gioco categorie e polemiche che furono assolutamente centrali nella discussione teorica sulla nuova poesia italiana degli anni 90, a partire proprio dalla nozione di ’Postmodernismo critico’ fatta propria dal gruppo redazionale di Baldus. Anche allora il dibattito coinvolse, oltre ai poeti, Ceserani, Luperini e, sia pure lateralmente, lo stesso Fortini. Mi pare che a distanza di quasi un ventennio una serie di nodi critici strutturali siano rimasti decisivi e bisognosi di ulteriore approfondimento
Lello Voce

Il postmoderno a infinite dimensioni

Mentre in America è appena uscito l’ultimo libro del critico marxista, titolato «The Modernist Papers», approda finalmente alle nostre librerie la traduzione integrale dello storico saggio che Jameson scrisse oltre quindici anni fa, «Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo», con una postfazione dialettica scritta da Daniele Giglioli

di Remo Ceserani -

Meglio tardi che mai. La pubblicazione dello storico libro di Fredric Jameson Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo (Fazi, 2007, euro 39,50) nella traduzione scorrevole e precisa di Massimiliano Manganelli, accompagnata da una prefazione dell’autore scritta per l’edizione italiana e da una postfazione molto acuta di Daniele Giglioli, arriva dopo quindici anni dall’edizione americana, dopo altrettanti dalla pubblicazione presso Garzanti del primo capitolo, dopo che altri e successivi saggi di Jameson sono stati tradotti e i dibattiti sul postmoderno - sia come periodo storico (la postmodernità) che come movimento dei costumi, delle idee e del gusto (il postmodernismo) - si sono ampiamente complicati e approfonditi.

Da noi, per la verità, molte discussioni non ci sono state e le idee sono rimaste incerte e sfocate. Un paio di anni fa Romano Luperini poteva pubblicare, ancora una volta confondendo postmodernità e postmodernismo, un libro intitolato La fine del postmoderno (Guida 2005) e scrivere: «Il postmoderno, con il suo disincanto e il suo manierismo giocoso e disimpegnato, in agonia già da tempo, è morto, definitivamente crollato con le due torri di New York. Ma nessuno in Italia sembra essersene accorto». Intendeva, probabilmente, il postmodernismo e certi suoi prodotti letterari. Ma non sembrava tener conto, per esempio, dell’opera di un grande scrittore americano come Don DeLillo, il quale si è lucidamente impegnato a rappresentare, con una scrittura nitida (tutt’altro che giocosa e disimpegnata) i cambiamenti profondi della postmodernità.

Immagini dall’11 settembre
Proprio all’evento rappresentato dalla caduta delle torri gemelle ha dedicato il suo ultimo, arduo romanzo, The falling man (Scribner, 2007) presentando quel crollo non come un fatto isolato, di portata epocale, ma come la realizzazione simbolica e mediatica di scenari apocalittici che aveva affrontato in tante sue opere precedenti. E captando, così, con le sue antenne sensibili, i movimenti minacciosi che agitavano, sotto la superficie levigata e splendente, gli strati profondi delle società postmoderne.

Quegli scenari erano già comparsi nel suo primo libro, Americana che aveva per tema - era il 1971 - la disfatta delle realizzazioni orgogliose del capitalismo trionfante e del «sogno americano». Sei anni dopo, fondali simili erano comparsi in Giocatori, e avevano la forma di trappole crudeli capaci di sconvolgere la vita quotidiana di un agente finanziario, che lavorava proprio in una delle torri. E, ancora, DeLillo ambientava I nomi fra complotti e terrorismi del vicino oriente, e immaginava - in Mao II - il fondamentalista Abu Rashid auspicare che il «terrore» potesse rendere possibile un nuovo futuro. Finalmente, in Underworld l’intero continente americano veniva trasformato in una colossale produzione di massa, e in Cosmopolis il protagonista attraversava tutta Manhattan sotto l’ombra profetica delle due torri, sei mesi prima del crollo.

Domande rilanciate
L’11 settembre va preso, a me pare (e credo che tanto Jameson quanto DeLillo sarebbero d’accordo) come uno dei tanti eventi catastrofici che si sono avvantaggiati di quella ripetizione all’infinito resa possibile dal grande mercato postmoderno delle immagini, che hanno segnato e confermato i cambiamenti profondi avvenuti nelle strutture economico-sociali del mondo globalizzato. Accanto ai trionfi della tecnologia, agli arricchimenti favolosi, ai tanti piccoli paradisi in terra, si sono sviluppate e moltiplicate le guerre neocoloniali, le espansioni delle multinazionali - anche del terrore - la politica di prepotenza, le deviazioni dei servizi segreti, lo sfruttamento fuori controllo delle fonti energetiche e i suoi pericolosi effetti sugli equilibri ecologici del mondo.

Al valore simbolico della caduta delle torri accenna anche Giglioli nella sua intelligente postfazione, in cui si impegna con logica stringente a chiarire molti punti dei densissimi discorsi di Jameson, ad aggiornare i problemi e a rilanciare molte domande. Inoltre, con una mossa finalizzata a dare voce alle critiche avanzate dagli studiosi a questo libro, fa l’elenco dei fatti che hanno spinto il mondo in direzioni diverse da quelle a suo tempo previste da Jameson: il ritorno dei nazionalismi, delle guerre e delle fedi religiose, le tendenze essenzialiste e sostanzialiste e, appunto, lo sconvolgimento provocato dall’atto terroristico del 2001. Dunque, pur mantenendo una posizione non del tutto coincidente con quella di Jameson, Giglioli prova dialetticamente a mettersi dal suo punto di vista e, tenendo conto del grande lavoro svolto dopo la stesura, nel 1991, di Postmodernismo non ha difficoltà a riconoscere la correttezza delle scelte di metodo del critico americano e la sostanziale tenuta della sua tesi storiografica principale. Tesi secondo la quale un cambiamento profondo e strutturale, avvenuto in particolare nei modi della produzione e nell’organizzazione dei mercati, compresi i mercati dei prodotti culturali, avrebbe determinato, almeno nei paesi a capitalismo avanzato, una spaccatura profonda negli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento e determinato la fine delle ideologie e dell’immaginario della modernità. Contraddittoria com’è, la cultura italiana ha mostrato a lungo un forte sospetto per le tesi di Jameson, del resto poco note o mal masticate; e, per contro, ha elargito una grande apertura di credito a Zygmunt Bauman, in particolare da quando ha proposto di sostituire al termine postmodernità quello di modernità liquida, sfornando in quantità libri di accattivante lettura. Eppure, i suoi saggi, sebbene muovendosi sul piano sociologico anziché su quello teorico e della critica culturale, sostengono interpretazioni del moderno e del postmoderno non molto diverse da quelle di Jameson. Come si spiega? Certo i libri di Fredric Jameson non soltanto sono densi di pensiero e saturi di inaspettate svolte interpretative, ma impiegano una quantità disorientante di strumenti euristici. C’è, in lui, una vera ingordigia intellettuale, che ha un parallelo soltanto in una altrettanto smisurata ingordigia materiale, mai davvero appagata: prima lo studio della filosofia marxista e delle rielaborazioni di Lukács, Adorno, Marcuse e Althusser; poi Heidegger, poi l’immersione dentro lo strutturalismo linguistico sia di ambiente francese che est-europeo, poi il decostruzionismo, il poststrutturalismo, le idee di Gramsci, Benjamin, Foucault, Negri, e chi più ne ha più ne metta. La sua grande forza, in tanta abbondanza di stimoli, sta in una genuina capacità di vedere come sia provvisoria, ogni volta, la scelta del punto di osservazione assunto davanti alla complessità dei fenomeni culturali studiati; così come nella capacità di individuare, in ogni fenomeno, sia l’aspetto immediatamente percepibile sia il suo opposto, l’altra faccia nascosta.

Chi si sofferma soprattutto a rilevare, di Jameson, l’insaziabile curiosità e la prodigiosa, a volte non del tutto controllata, capacità di riflessione e di scrittura, rischia di non accorgersi della coerenza di fondo del suo lavoro di storico e di critico della cultura, fermamente ancorato ad alcuni principi di metodo che non abbandona mai, e fra questi la dialettica marxista interpretata in modo non rigido bensì continuamente aggiornata.

Uno sguardo retrospettivo
Uno degli aspetti più interessanti del percorso intellettuale di Jameson sta nel fatto che, dopo avere applicato la sua griglia interpretativa della postmodernità ai più diversi esempi della produzione culturale - dalla architettura al romanzo alla storiografia alla fantascienza al cinema alla televisione ai video alla fotografia alle installazioni al ready-made e così via - con una mossa teoricamente coerente ha spostato la sua attenzione sulla modernità. Per descrivere efficacemente un periodo storico e le culture che lo hanno segnato è utile, infatti, distaccarsene. Sono nati così libri come Una modernità singolare, sul quale si è ingannato non solo Luperini, che vi ha letto segnali di abbandono del postmodernismo e di ritorno al modernismo, ma anche Carla Benedetti, autrice di una premessa alla traduzione italiana che fornisce una interpretazione tendenziosa delle posizioni di Jameson.

Del resto, una conferma dell’itinerario intrapreso dal critico di Duke viene anche dal suo nuovo libro, appena giunto dagli Stati Uniti, che sotto il titolo The Modernist Papers (Verso, 2007) raccoglie i saggi che negli anni ha dedicato ai problemi della modernità e a scrittori come Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Mann, Joyce, Proust, Gertrude Stein, Williams, Soseki, Oe, Kafka, Céline, Stevens, Weiss; e a pittori come Cézanne, o De Kooning, affrontando molte altre questioni ancora. La descrizione che - in questi saggi - viene data della modernità, rivela uno sguardo critico, che nel denunciarne gli eccessi ideologici, le rigidezze e gli orrori, in più punti coincide con l’ottica di Bauman.

Giudizi da rivedere
Dopo avere elencato i giudizi tradizionali e stereotipati solitamente proiettati sui movimenti modernisti - la presunta apoliticità, il ripiegamento sul soggetto, la psicologia introspettiva, l’esteticismo e le teorie dell’arte per l’arte - Jameson osserva: «nessuna di queste caratterizzazione mi sembra ormai persuasiva; sono parte di un vecchio bagaglio ideologico modernista, che qualsiasi teoria contemporanea del moderno ha il compito di sottoporre a scrutinio e di demolire». E allora, a forza di energia distruttiva e di spirito dialettico, Jameson si mette all’opera: modernizzazione e tecnologia, reificazione consumistica, astrazione monetaria, generale perdita di significato, frammentazione del tempo e dello spazio, casualità del dettaglio e «contingenza» delle esperienze esistenziali, dereificazione della città e della vita sociale, accentuato interesse per gli stili e le poetiche, formazione della cultura di massa, e così via. Pochi scrittori si salvano. Forse Joyce, perché «Dublino non era esattamente una matura metropoli capitalista, ma, come la Parigi di Flaubert, aveva un carattere regressivo, era ancora in certo modo simile a un villaggio, non abbastanza sviluppata, grazie al dominio esercitato da padroni stranieri, e perciò era ancora rappresentabile». Che ci sia, a questo punto, da dare un giudizio meno drasticamente negativo della condizione postmoderna?

11 commenti a questo articolo

Il postmoderno a infinite dimensioni - di Remo Ceserani
2008-01-02 23:43:16|di maria valente

m’intrometto un po’ di soppiatto e titubante perché la discussione è ardua, non credo di essere in grado al momento di parlarne con competenza, ma vorrei segnalare un interessante articolo di Mimmo Cangiano a proposito di Postmodernismo che mi è capitato di leggere sulla rivista Tabard, dei ragazzi dell’Università di Bologna

www.rivistatabard.it

che mi sembra dedichi molta attenzione al postmoderno.

Sull’11 sett, io non ho letto la postfazione di Giglioli, ma considero fondamentale l’opera di Zizek sul Deserto del Reale.

e poi... siccome, se non ricordo male, il mio ultimo intervento critico su absolute, mesi fa, su Giovenale, si chiuse in maniera disperata a causa dell’influenza delle analisi Jameson, precisamente sul rapporto ermeneutico interrotto, esclusione per l’osservatore della possibilità di completare il gesto ermeneutico etc etc...ne approfitto per dire che, in seguito, ho letto Landow nella sua opera sugli ipertesti criticare Jameson per certa tecnofobia, nel suo considerare distante dal marxismo l’insistenza sull’invenzione e sulla tecnica come causa primaria del mutamento storico perché prescinde da considerazione di fattori umani di classe e organizzazione sociale di produzione, (nonostante non sia vero) considerandola un’ingenua causalità resa obsoleta dal principio d’indeterminazione della fisica moderna.
Ebbene, in questo momento mi pare sia più attuali le analisi di quegli studiosi che si concentrano sui media come fattori di cambiamenti epocali, invece che sui sistemi di produzione, trovo interessanti le opere di Pierre Levy o di De Kerckhove, così come passerei a considerare la net art come l’ultima avanguardia o gli ipertesti di Landow che vede nelle logica delle tecnologie dell’informazione un aumento della disseminazione del sapere, un aumento della democratizzazione e decentramento del potere, e
a chi gli chiedeva se non fosse preoccupato della limitazione dell’effettivo potere di scelta e creazione da parte del lettore a quanto è disponibile in rete, risponde che tale preoccupazione non ha mai turbato nessuno quando utilizzava delimitate risorse della carta stampata di una piccola biblioteca universitaria e preoccupa adesso che fornisce l’accesso a un sistema potenzialmente totalitario...

vedo insomma adesso, grazie a questi altri autori e a questi studi un possibile sbocco, una speranza

ma forse così confondo solo le idee, forse prima di parlarne devo riuscire ad articolare un discorso che al momento è prematuro


Il postmoderno a infinite dimensioni - di Remo Ceserani
2008-01-02 08:31:24|di Mimmo Cangiano

Sì, vi è forse un concetto hegeliano che può ben spiegare questa fase “regressiva”, è l’idea di “coscienza infelice”, vale a dire quell’infelicità che nasce dalla consapevolezza della propria mutevolezza e contemporaneamente dal desiderio di immutabilità avvertita dunque come irraggiungibile. La sociologia contemporanea ha indagato a lungo questo fenomeno: il flusso di ritorno di tradizione e ortodossia che appaiono come ancora di salvezza a patto che siano proposte in modo assoluto e integralistico (sugli opposti fronti). È effettivamente un neo-modernismo in quanto ciò che viene portato in campo è un’essenzialità tragica: il bisogno dell’ordine, della forma, dell’individuazione (che è poi l’umanissimo bisogno di controllare se stessi e la realtà, e naturalmente è possibile far ciò solo in universo di punti fissi e valori forti).


Il postmoderno a infinite dimensioni - di Remo Ceserani
2008-01-02 00:47:33|di erminia passannanti

Molti penano che le torri gemelli siano un evento postmodernista, da collocarsi al cuore dell’epoca e dell’estetica postmoderna.

in effetti, credo che l’attentato dell’11 settembre sia il risvolto pratico, ovvero crudamente pragmatico delle possibilità di questa epoca oscurantista e fanaticista attuale, in verità sospesa tra recrudescenza della prospettiva bipolare, e affossamento,da parte dell’Islam, dei valori progressisti dell’occidente (e viceversa, dell’occidente dei valori conservatori della civiltà rivale), con il conseguente incremento delle operazioni attuabili e pubblicizzabili dal tecnologismo globalizzato, che non è altro che la realizzazione dei presupposti di 1984, con due grandi blocchi oppositivi, nessuno dei quali potrà mai dirsi vinto, o battuto una volta per sempre, in quanto facce di una stessa identica medaglia.

Quindi non più un pensiero ’debole’, ma nuovamente ‘due pensieri?, o fronti, estremamente forti, che tuttavia, si annichilano a vicenda. Si potrebbe parlare allora di neo-modernismo solo che i blocchi in lotta - essenzialmente due - hanno mezzi diversi per confrontarsi e schierarsi.

Dunque, secondo me, se c’è una definizione che si potrebbe dare al ritorno di questo stato di guerra (calda), sarebbe quella dell’annichilamento reciproco e della vittoria dell’unità contrastava, (reale più che fittizia) di due poli inalienabili. C’era chi per vent’anni ha avuto una grande nostalgia di questa dimensione, che è la contraddizione come permanenza in uno stesso luogo di due principi opposti.


Il postmoderno a infinite dimensioni - di Remo Ceserani
2008-01-01 22:56:04|di BAGHETTA

E’ scoppiata la bagarre nel Baghetta, una seconda volta!
Accorrete! su www.baghetta2.splinder.com tutte le regole e le informazioni (e pure i menù!) della seconda edizione del Premio.


Premio Baghetta

Il postmoderno a infinite dimensioni - di Remo Ceserani
2008-01-01 20:57:44|di Luigi

Dopo il postmodernismo, il postfuturismo? Sentite qua (il grassetto è mio):

(15 dicembre, 2007 - "Corriere della Sera")

Concerto Domani al Manzoni l’ artista che mescola la sua musica con punk, classica e jazz

Il rap del professor Ladd

Esponente dell’ hip hop colto, insegna letteratura a BostonAgli «Aperitivi» presenta Negrophilia con un ensemble di musicisti di altissimo livello, tra cui il pianista-fisico di origine indiana, Vijay Iyer

Ci sono diverse tribù, si sa, nel magmatico mondo dell’ hip-hop d’ Oltreoceano. I ribellisti che fanno politica in rima, tipo i Public Enemy; i gangsta che si ammazzavano a revolverate alla Tupac Shakur; gli edonisti tutti macchine, signorine e dollari, vedi 50 Cents. E quanti altri ancora. Sfugge forse ai più, però, l’ esistenza di un hip-hop «postfuturista» che da simulacro della cultura di strada si trasforma in accademico e intellettuale esercizio di stile. Di esponenti di questa «tribù», al momento, ne conosciamo soltanto uno: si chiama Mike Ladd, poeta, professore di letteratura inglese alla Boston University, maestro del cosiddetto «spoken-word», arte che da noi si traduce, con più o meno aderenza, con la parola reading. E infine rapper. Domani mattina sarà al Teatro Manzoni per «Aperitivo in concerto». «Il mio lavoro disegna una linea temporale che ci porta al punto che abbiamo raggiunto ora, ovvero il post-futurismo. Dopo che il postmodernismo ha tracciato confusamente i confini tra realtà e finzione, il post-futurismo è il momento in cui non c’ è più confusione, e la fantascienza e la realtà diventano una cosa sola». Eccolo il manifesto di Mike: in effetti, negli otto dischi che ha prodotto fin qui si è interrogato su questioni non proprio di casa nell’ hip-hop d’ oggi. Dalla condizione di non-luogo degli aeroporti, in «In What Language?», a un’ immaginaria battaglia tra nicchia e pop, in «Infesticons» e «Majesticons». Ibridando il rap come pochi altri prima, con il punk, con la classica, con l’ elettronica. E con il jazz, come nel caso di «Negrophilia», il lavoro che presenterà domattina con un ensemble di musicisti di altissimo (e altrettanto colto) livello, vedi il pianista-fisico di origine indiana Vijay Iyer. In questo caso, Mike Ladd si diletta a riscoprire correnti di pensiero dimenticate, come quella dei «negrofili», intellettuali che, nella Parigi degli anni 20 e 30, si misero a idolatrare radici, tradizioni e ritmi d’ Africa. Il Professore le aggiorna al presente. E al futuro: siamo già al «post hip-hop».

Cruccu Matteo


Il postmoderno a infinite dimensioni - di Remo Ceserani
2008-01-01 20:26:38|di erminia

Mi disapiece che vi sia poco riscontro olter al mio e a quelli di Mimmo da parte degli altri lettori di Absolute a questo interessante post.

Ma spiego perchè non si può dare credito, rispetto all’attualità, all’impiego terminologico protratto oltre il tempo massimo (tre generazioni ormai di persistenza) di ceserani della parola postmoderno, desunto dalla vecchia polemica sul postmodernismo, quando scrive:

" e captando, così, con le sue antenne sensibili, i movimenti minacciosi che agitavano, sotto la superficie levigata e splendente, gli strati profondi delle società postmoderne".

Egli avrebbe dovuto dire in conclusione del suo saggio, secondo me, "delle società contemporanee", perchè la società e la storia non sono subalterne al lemma che definisce l’epoca storica in cui si colloca l’analisi del presente culturale postmodernista, e dunque il mondo attuale non è fatto in alcun modo di società "postmoderne", ma di società contemporanee irriducibili ad una sola trita definizione, che tutti diciamo dover superare.

La riduzione della diversità è l’esito infelice di questa nomenclatura, che impone la prospettiva teorica dell’interpretante sulle complesse e diverse realtà di fatto dell’interpretato. Spero in una challenge. Ciao, a presto.


Il postmoderno a infinite dimensioni - di Remo Ceserani
2008-01-01 16:58:58|di erminia

ah, vorrei dire a Mimmo: chiaramemte personalemnte tenderei ad un ritorno della propsettiva marxista (neomarxismo per il terzo millennio) delle arti e della società, ma non siamo più - dicono i filosofi dell’economia e delle comunicazioni mondiali) in epoca storica, sociale ed economica, capace di (ri)ospitare il marxismo critico.


Il postmoderno a infinite dimensioni - di Remo Ceserani
2008-01-01 16:49:14|di erminia passannanti

Il fatto è – e Mimmo cita opportunamente la sfida di Alessandro Ferrara alla questione dell’attuale non decadenza della moda postmodernista (fosse altro che non se n’è prospettata ancora una nuova) - che le epoche e i movimenti si alternano in ragione di quelle (come il postmoderno) che si commentano con termini coniati sul dato di fatto (ovvero sul quello che i teorici del postmodernismo hanno osservato essere ormai in pieno svolgimento) e quelle che si coniano a priori su dati presupposti teorici (come l’illuminismo, il romanticismo, il modernismo), o proposte teoriche di svolta da un dato andazzo storico che si vorrebbe superare, proveniente delle avanguardie dissidenti. le epoche dunque si fissano a partire dalla supremazia di volta in volta, nelle varie epoche che beneficiano di definizioni "forti" o della propsettiva artistica (a proposta), o della prospettiva filosofica (a commento).
Lyotard, Jameson e tutti i teorici del postmodenismo (ovvero di quella linea complessa e multicentrica della teoria delle arti e della società in voga nell’epoca attuale,… epoca che è sempre e comunque ‘contemporanea’, e non ‘postmoderna’) hanno coniato termini sul dato di fatto , sull’osservazione e la ricerca.

Non sono stati artisti coloro che hanno ideato o descritto il ‘postmdernismo’, come quelli che hanno inventato il simbolismo, il dadaismo eccetera, collaborando all’arte contemporanea o alle situazioni socio-economiche attuali, di cui sono stati spettatori. Poiché nuovi artisti e nuovi movimenti forti, tali da staccarsi da questa situazione di fatto, omologatrice, non se ne verificano ancora, ecco che permane la situazione postmoderna, permanendo anche le situazioni socio-economiche che ne hanno suggerito il conio. Ovvero, a mio avviso, non vi sono in giro artisti forti che possano introdurre una valida alternativa alle osservazioni di Jameson e Lyotard.
E non vi sono fino a prova contraria, a tutt’oggi, teorici forti abbastanza persuasivi per opporsi a questa linea interpretativa preponderante.

Perché l’abilità di creare una interpretazione filosofica è tanto difficile e rara quanto quella di creare una proposta/prospettiva creativa forte. Siamo dunque in un periodo di relativo stallo di proposte e dell’una e dell’altra parte: tuttavia il Tempo, la Storia va avanti, procede, in attesa o di un precursore di nuove tendenze e definizioni. O di un commentatore,o teorico di tendenze in corso in questa epoca nostra attuale.
Questa è per il momento la manifesta ragione per la quale il postmodernismo non passa: l’assenza appunto di alternative e riposte originali o forti: c’è stato un tentativo contemporaneo di neo-barocchismo ma nulla di rilevante ed oppositivo all’attuale e contemporanea Storia che il capitale e l’industria hanno prodotto.

Siamo ancora nel postmdoernismo come interpretazione forte filosofica e sociologica dei tempi e delle arti, ma non siamo più , e forse non siamo mai stati, nel postmoderno.
Questo perché la persistenza dell’epoca,erroneamente detta postmoderna (la cui durata dovrebbe essere, secondo queste definizioni erronee, secondaria agli anni di resistenza del postmodernismo), già non si dà, e siamo d’accordo che dopo la grande data progressista della caduta del muro e della perestroika, adesso vi sia quest’altra fase regressiva e oscurantista delle torri gemelle, delle guerre con l’islam, del ritorno della fede fanatica, e del concetto di guerra santa.


Il postmoderno a infinite dimensioni - di Remo Ceserani
2008-01-01 14:46:34|di Mimmo Cangiano

Sono d’accordo con Erminia, eppure vedo fra le righe del discorso di Ceserani delle significative, e a mio giudizio preoccupanti, novità: il critico sembra quasi chiedere scusa di essere un postmodernista, sposa il punto di vista degli antipostmodernisti cercando, con poca forza, di ribaltarlo socraticamente.

non riesco ad esempio a capire perchè voglia prendere le distanze da una scrittura "giocosa" quando ormai si conoscono benissimo le possibilità performative di questa opzione letteraria.

Giusto ovviamente il parallello con Bauman (entrambi casi particolari di teorici del postmoderno e critici dello stesso, sebbene io abbia sempre trovato l’analisi di Bauman molto più "utile" di quella di Jameson, ma non ho ancora letto la nuova e completa edizione del suo libro).
La grandezza del testo di Jameson consisteva nell’assegnare al postmodernismo il suo tempo, non si trattava di essere pro o contro, si trattava di prendere atto di trovarsi in una nuova situazione storica, riprendendo in ciò un’ottica chiaramente marxista, ma cercando al contempo di trascinarla fuori da una teoria dell’Essere del Capitale.
Insomma: se il postmoderno è un fenomeno storico giudicarlo in termini di morale o di giudizi è ovviamente un errore (un errore che sottolinea la postmodernità dello stesso atto critico).Del resto già Lyotard aveva detto che una contestazione che mira all’Essere finirà facilmente inglobata dal Sistema che ha la sua stessa natura (e qui si torna al valore performativo del gioco, Dada come sempre insegna).

Se davvero si vuole proporre un’alternativa al postmodernismo bisogna, ed è un punto che a Ceserani spesso sfugge, cercarla in una filosofia che muova dall’etica (e dunque dalla presupposizione, per quanto negativa, di un agaton: Michelstaedter, il secondo Lukacs, Adorno), finchè si vuole fare campo primario della filosofia la teoretica della conoscenza il postmodernisto sarà difficile buttarlo giù (e tutto ciò era già chiaramente spiegato nell’introduzione di Lukacs alla sua Teoria del romanzo).

con l’analisi di Luperini poi Ceserani è fin troppo buono: già nel 2001 Julian Baggini, da quel rozzo qual è, aveva detto che dopo le "torri" finiva qualsiasi possibilità di postmodernismo-debolismo etc., va bè, di fronte ad argomentazioni di questo tipo (che, sia chiaro, fanno il paio con quelle di Vattimo sulla "fine della storia", di segno opposto ma altrettanto idiote, nb. Vattimo poi, da persona intelligente, ha infatti smesso di parlarne) di fronte ad argomentazioni di questo tipo dicevo, se proprio non si vuole opporre uno sdegnato silenzio, c’è una bellissima risposta di Alessandro Ferrara:

"Avete voi modo per affermare, contro Wittgenstein, che possiamo pensare il mondo, con un qualche grado di differenziazione e non solo con reazioni a stimoli elementari, fuori dai quadri semantici di un linguaggio? Avete voi modo di riaffermare, contro Wittgenstein, che stabilire se una regola sia stata seguita è indipendente dal rifarsi a una prassi a sua volta inclusa in una forma di vita? Avete voi modo, contro Quine, di rintracciare con precisione la linea che separa ciò che è vero in virtù di uno stato del mondo e ciò che è vero in virtù del significato dei termini? Avete voi modo, contro Weber, di negare che ogni operazione conoscitiva comporti un momento di selezione in cui si isola ciò che riteniamo importante conoscere in un oggetto, e che tale attribuzione di importanza conoscitiva dipende da valori spesso rivali non riconducibili a una gerarchia unica e incontestabile?
Non avete risposta esauriente e conclusiva a queste domande? E allora l’orizzonte post-moderno è ancora tutto davanti a voi, insuperato, e lo rimarrà finché non rispondete, quali che siano le evoluzioni interne o le difficoltà del pensiero di alcuni autori che hanno trasformato questo orizzonte in logo filosofico, e quale che sia il clima attuale del mondo, foriero di speranze o carico di delusioni, pregno di aspri conflitti o promettente paci più o meno perpetue."

ciao


Il postmoderno a infinite dimensioni - di Remo Ceserani
2008-01-01 13:10:57|

E’ saltato un pezzo del commento. Scusate se riposto l’intervento-commento.

"Grazie, ma non dice assolutamente nulla di nuovo sul postmoderno e soprattutto su Jameson. Nemmeno purtroppo è nuova l’analisi che Ceserani fa dell’11 settembre. Mi meraviglio che questo articolo sia stato pubblicato sull’Unità.

La pubblicazione integrale tardiva del famoso testo di Jameson, che gli intellettuali coinvolti nella questione teorica del postmoderno/postmodernismo avevano ovviamente già letto 15 anni fa nella lingua originale o in traduzione in riviste specialistiche invece è notizia nuova.

Di questo ritardo c’è solo da preoccuparsene. La nostra industria editoriale si muove a rilento e male?

Questo è l’unico elemento davvero significativo delle informazioni passate qui da Ceserani, a mio avviso.

La conclusione dell’articolo è fiacca e ’truistica’. Buon anno. erminia"


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