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Il ritorno del dono, senza imporre le mani

piuttosto un sano perturbamento della ratio

Articolo postato mercoledì 27 giugno 2007
da Christian Sinicco

Giampiero Marano, su Dissidenze, discute l’articolo di Nacci Facciamo un patto? (per un pubblico della poesia non privato ma pubblico). Ne parlo perché l’articolo tocca un problema fondamentale, il ritorno al dono, al dono del poeta, esplicitato dalla sua stessa arte, in funzione di una comunità.
Marano esplicita le sue perplessità rispetto il termine "comunità", prendendo le mosse dal pensiero di Mauss:

"1) la comunità (quella descritta da Platone nello Ione, per esempio) disposta a lasciarsi possedere dal poeta come da un magnete non esiste più
2) più semplicemente: non esiste la comunità ergo
3) il pubblico della rete non è una comunità
4) non basta mettere in discussione l’ego perché vi sia comunità: è necessario un "ingrediente", un elemento di carattere religioso di fondo rispetto al quale oggi siamo agli antipodi".

Sul quarto punto, dopo aver letto un interessante saggio di Raoul Kirchmayr, Il circolo interrotto - Figure del dono in Mauss, Sartre e Lacan (E.U.T. - Edizioni Univerità di Trieste, 2002; eut@amm.univ.trieste.it), dissento riguardo l’elemento di "carattere religioso" fondativo di una comunità, poiché la comunità è possibile in riferimento all’operatività di un poeta e rispetto ai suoi obiettivi. Cito Kirchmayr, che a proposito del pensiero di Mauss scrive:

"Che si debba e si possa fare sussistere gli antichi principi della morale e del dono accanto ai principi moderni e liberal-capitalistici [...], questo non vuol dire che il ristabilimento dei principi antichi debba negare con la violenza il sistema capitalistico e le sue strutture, distruggendolo dalle sue basi di civiltà giuridica per superarlo. [...] Al contrario, per Mauss nessuna distruzione, nessun sacrificio, nessun potlàc deve avere luogo. Piuttoto il perturbamento della ratio deve essere corretto armonizzando il presente dissestato dal capitale, dalla tecnica, dall’alienazione, con il passato arcaico, riassestando il tempo nella coincidenza di storia e morale, correggendo le ineguaglianze prodotte dalla realtà storica, e depositatesi nelle pratiche sociali con un principio ideale di giustizia incarnato nella morale del dono.
Il riassetto della storia, dunque, non può passare attraverso un suo totale dissesto rivoluzionario."

Nacci, nel suo articolo, si poneva come obiettivo la "finzione" nella sua possibilità di essere accettata, adottata o meno, da un ipotetico lettore; si chiedeva quale sarebbe dovuto essere il patto interno alla teoresi del poeta durante la formazione dell’opera, patto in relazione alla possibilità stessa dell’esistenza dell’opera in presenza di un fruitore che la avvalora - in sintesi, il dono - o di una variegata società di fruitori - un dono, dunque, in presenza di una molteplicità di sguardi?
Da un lato, il poeta che modella l’opera può compiere questo azzardo nella teoresi, cimentarsi nel patto; dall’altro c’è sì la presenza di una comunità o società (pure letteraria) a cui il poeta si riferisce, ed essa può influenzare la prospettiva teoretica, ma non essere il luogo privilegiato di determinazioni su precise linee di sviluppo, riscontrabili oggi in tutta una serie di formalismi, schematismi di gruppo o di singole personalità: in tal caso si tratterebbe di una spinta atta solo a costruire una comunità solidale, o un gruppo solidale verso un autore o verso una serie di autori, e una comunità del genere priverebbe l’artista, e l’arte nella sua evoluzione, delle sue capacità d’innovazione, in seno al presentarsi in una "società".
Non si tratta quindi di rilevare, come ha fatto Marano, l’esistenza o meno di una comunità, poiché questa è da un lato una sfida che l’opera, poi, compie senza il poeta; oppure è un aspetto lobbystico dell’ambiente di oggi, di una critica che vorrebbe essere normativa di se stessa. Non si tratta nemmeno di impostare l’opera, come evocato da Nacci, solo in funzione di una sua efficacia a livello di strumenti tecnici (che possono diventare una nuova tecnocrazia), come lo studio dei meccanismi dell’oralità, nella presunzione di un patto generico di una poesia con molti, poiché la comunione avviene semmai tra l’opera e chi si trova in sua presenza... e non vorrei mai si tramutasse in una norma dettata da una comunità e da una sua comunicazione standardizzata.

2 commenti a questo articolo

Il ritorno del dono, senza imporre le mani
2007-06-28 23:36:22|di Christian Sinicco

Giampiero, è chiaro che questo labor sulla scrittura si riflette prima da una serie di annotazioni estetiche, quindi entra con il suo carico di problemi critici. Un ritorno al dono come pratica di scrittura, inteso come ragionamento sui meccanismi della finzione, anche in senso narratologico/orale come fatto intendere da Nacci, pone una riflessione sugli strumenti, e pone una riflessione su ciò che potremmo chiamare rilevanza sociale, una funzione dell’opera frutto di una intenzionalità precisa, un tentativo a volte, più che una riuscita, una promossa (o un dono che non è detto piaccia). Non so se la riflessione riguardo a questo possa essere rigenerante, ma una serie di autori - me compreso - ne sentono il bisogno, e questo si lega, più che al popolo, ad una riflessione molto più ampia, non solamente tecnica e/o di reazione rispetto a questa società, ma costruttiva. Poi questa società non è quella del passato, ma può presentarne alcuni aspetti, sia positivi che negativi.


Il ritorno del dono, senza imporre le mani
2007-06-28 17:30:00|

Ringrazio Christian per aver commentato il mio scritto. Sul rapporto tra comunità e religione, anche volendosi limitare alla sola ricostruzione storico-antropologica, ci sarebbe da riempire interi volumi. Per quanto ne so, tutte le culture arcaiche, che hanno la caratteristica di essere orientate in senso teocentrico (ma, posso dirlo?, con intenzioni diametralmente opposte rispetto alle allucinanti elucubrazioni degli odierni teocon), mantengono contemporaneamente un forte senso della com-munitas, cioè dello scambio del munus-dono come fondamento delle pratiche sociali, perfino economiche. In queste culture tradizionali, inoltre, la poesia e la parola orale svolgono, e non a caso, un ruolo molto importante: perciò il nesso sacro-dono-tradizione orale-poesia è, per me, fuori discussione. Da questo nesso partirei per riflettere sulla questione "scrittori e popolo", che ritorna ciclicamente anche in rete: segno evidente di una fede nella "funzione socialmente rigeneratrice dell’arte e della poesia", cioè di un bisogno di condivisione e di comunità che in fondo non mi pare così ingenuo come qualcuno pensava.

Giampiero Marano


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