Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
Segnalo un programma di incontri su Poesia e Critica a cura di Paolo Febbraro. Il programma è interessante e coerente, per quanto (o per tanto) privo di sorprese. Il primo incontro è il 9 Novembre. Accorrete numerosi, romani!
La Nuova Pesa
Via del corso, 530
Tel. 06.3610892
email: nuovapesa@farm.it
A partire dal 9 novembre il Centro per l’Arte Contemporanea La Nuova Pesa, darà il via a una serie di incontri sulla poesia e sulla critica letteraria curati da Paolo Febbraro, poeta e critico letterario. Gli incontri, che si terranno con una periodicità di due appuntamenti mensili fino alla fine di aprile 2010, hanno l’intenzione di creare una discussione sulla poesia e sulla critica a partire dal dialogo diretto con gli autori. Gli ospiti dell’iniziativa sono tra i maggiori intellettuali italiani presenti e attivi oggi nella discussione culturale e civile del nostro paese. Fra gli altri, parteciperanno Alfonso Berardinelli, Walter Siti, Elio Pecora e Fabio Pusterla; e alcuni giovani poeti che si sono dimostrati tra i più interessanti della loro generazione, Matteo Marchesini, Paolo Maccari, Carlo Carabba e Massimo Gezzi. Ad accompagnare Febbraro saranno chiamati di volta in volta esperti (critici e scrittori a loro volta) a parlare degli autori invitati.
Novembre 2009
9 nov. Carlo Bordini. Presentano A. Di Consoli, P. Febbraro
23 nov. Matteo Marchesini / Paolo Maccari. Presenta P. Febbraro
Dicembre 2009
7 dic. Poesia 2009. Annuario. Presentano G. Manacorda, P. Febbraro, G. Nisini, R. Paris
21 dic. Elio Pecora (conversazione con), P. Febbraro, P. Di Paolo.
Gennaio 2010
11 gen. Alfonso Berardinelli, “Sugli intellettuali”. Presentano F. La Porta, P. Febbraro.
25 gen. Antonella Anedda (conversazione con), Presentano P. Febbraro, E. Trevi.
Febbraio 2010
8 feb. Carlo Carabba/ Massimo Gezzi. Presenta P. Febbraro
15 feb. Daniela Marcheschi, Presentano P. Febbraro, E. Pecora
Marzo 2010
8 mar. Walter Siti (conversazione con), F. La Porta e P. Febbraro.
22 mar. Marilena Renda, a proposito di Giorgio Bassani, Presentano P. Febbraro, R. Manica
Aprile 2010
30 apr. Fabio Pusterla. Presentano P. Febbraro e A. Cortellessa
9 commenti a questo articolo
Incontri di Critica e Poesia a cura di Paolo Febbraro
2009-12-02 15:51:40|di lorenzo
caro christian, in questo caso a me pare che il discorso si capisca bene anche senza fare nomi. ad ogni modo, è marchesini a individuare le due fazioni e a etichettarle, tanto nella sua nota finale a "marcia nuziale", quanto nel suo intervento qui sotto ("la fazione dei poeti orfico-sperimentali e quella dei poeti che marciano verso la prosa con sciatteria cronachistica"). forse "orfico" è troppo restrittivo, e si potrebbe cambiare in (o accompagnare a) "sapienziale", "misterico". ovviamente esistono intersezioni (e.g., anche molti "sperimentali" vanno versa la prosa, e perché no verso la cronaca, pur senza sciatteria, e diversi "eleusini" vanno verso la sperimentazione). credo che il punto di marchesini fosse quello di indicare due correnti che hanno in comune la tendenza ad aggirare un confronto di un certo tipo con la "responsabilità della sintassi". io non condivido *questo* giudizio, ma condivido gli altri appunti di marchesini a riguardo.
ciao,
lorenzo
Incontri di Critica e Poesia a cura di Paolo Febbraro
2009-12-01 18:34:54|di Christian Sinicco
fazioni orfico-sperimentali e sciatto-cronachistiche: è possibile fare dei nomi cognomi pubblicazioni? Perché il discorso può anche essere interessante, ma non si capisce.
Incontri di Critica e Poesia a cura di Paolo Febbraro
2009-11-25 23:49:51|di lorenzo carlucci
caro matteo, ti ringrazio per l’intervento molto esauriente, lucido e stimolante.
il tuo giudizio sulle fazioni orfico-sperimentali e sciatto-cronachistiche è molto prossimo al mio (e con ciò ti comunico che il mio interesse a chiarirmi la posizione tua e di maccari è motivato da una certa consonanza con quanto penso io stesso). abbraccio per esempio, tale e quale, il seguente tuo passaggio:
"A me sembrano proprio questi i ritorni in retromarcia a strade maestre otto-novecentesche che si basano su una cultura ormai irriproponibile. In particolare, oggi mi sembra difficilissimo indossare con onestà le maschere più o meno “sperimentali” che ha assunto di volta in volta il letterato post-simbolista: perché queste maschere presupponevano, sotto la loro fisionomia “gergale”, chiavi e fondali comuni a una ristretta, effimera ma essenziale società letteraria. Ora, questa società non esiste più da molti decenni."
il punto è che - in una certa misura - la stessa considerazione si può applicare al tipo intellettuale che tu e maccari sembrate proporre (per l’idea che me ne sono fatto durante la serata e, prima, leggendo il tuo libro). è stata anzi proprio questa impressione, che - nonostante diverse aree di condivisione - mi ha spinto a reagire e mi spinge a cercare di chiarire.
quella società letteraria non esiste più. quale esiste? quante ne esistono? a quale tu senti di rivolgerti? ma pure: ogni scrittore lavora anche per la costituzione di una nuova società letteraria. i nostri scritti preparano quella società letteraria.
come dici tu: "bisogna semplicemente reinventarsi tutto da capo, con la poetica attaccata a ogni singolo testo come uno zaino." ma quello "zaino" che ogni tuo testo vuole portare sulle spalle, rischia d’essere troppa zavorra, e ancora (come sotto): una forma di elazione ("su ciò di cui non si può parlare...", ritorto in senso opposto).
"attrito" (inteso come forza e ampiezza dell’azione del testo), "verificabilità" - o magari "falsificabilità" - potrebbero rivelarsi richieste simultaneamente insoddisfacibili, e richiederle entrambe un bisogno di cui potremmo seguire le radici - forse contro ogni apparenza - fino ad un sostrato addirittura positivista. quasi valesse anche qui - come nella matematica - l’impossibilità di ottenere coerenza e completezza, a meno di non doversi limitare ad un discorso, ad un sistema, assai impoverito, quanto ad espressività (azzardo: ha forse questo a che fare con il minimalismo dei temi e dei motivi immediati?).
"these fragments I have shored against my ruins". il modernismo, di cui - credo - una poetica come la tua condivide diversi motivi, non andava oltre questa pretesa, pur non rinunciando alla sfida della sintassi, al ritmo, alla rima, all’allegoria. chiedere di più (salvare una miniatura della cattedrale intera e non la sola icona, e non nell’opera intera ma in ciascuna sua parte) potrebbe essere troppo, potrebbe risultare fatale, e destinare il testo a collassare sotto il peso di questa richiesta. o forse: chiedere di più è possibile soltanto rinunciando a qualche altra cosa, per esempio: a un’esattezza, ad una esplicazione, ad una verificabilità e ad una certa ampiezza dei contenuti e delle soluzioni.
saluti,
lorenzo
Incontri di Critica e Poesia a cura di Paolo Febbraro
2009-11-25 12:48:11|di matteo marchesini
Caro Lorenzo, ti ringrazio del resoconto, minuzioso e rigoroso.
Non sono mai troppi i distinguo, gli incisi, le limitazioni da porre al discorso quando, come è accaduto a me e a Maccari alla Nuova Pesa, si viene intervistati sulla propria poesia e al tempo stesso sulle proprie idee critiche. Specie se l’intervistatore è un poeta-critico amico, acuto e “verticale” come Paolo Febbraro.
Da poeti non ci si può, non ci si deve difendere. Forse non l’ho ripetuto a sufficienza, ma queste idee non giustificano niente a priori. Quindi, provo ancora a separare i piani.
Tentando l’analisi critica di un testo, si sa che “in teoria”, “se regge”, anything goes: prosa poetica compresa. Tuttavia, quella che vedo in giro mi lascia molto, molto perplesso. Tra l’altro, come dicevo, mi sembra che la fazione dei poeti orfico-sperimentali e quella dei poeti che marciano verso la prosa con sciatteria cronachistica, sebbene si guardino in cagnesco, siano speculari e complici (altrettanto poco dialettiche). Se poi vogliamo togliere alla parola sperimentazione il peso di un’etichetta inerte, dirò anche che lì di ricerche non ne vedo. A me sembrano proprio questi i ritorni in retromarcia a strade maestre otto-novecentesche che si basano su una cultura ormai irriproponibile. In particolare, oggi mi sembra difficilissimo indossare con onestà le maschere più o meno “sperimentali” che ha assunto di volta in volta il letterato post-simbolista: perché queste maschere presupponevano, sotto la loro fisionomia “gergale”, chiavi e fondali comuni a una ristretta, effimera ma essenziale società letteraria. Ora, questa società non esiste più da molti decenni (direi addirittura dal primo dopoguerra, che apre infatti la fase della nostra vera benché esile Neoavanguardia, cioè della prima e definitiva liquidazione ludica delle avanguardie: Bontempelli e Savinio). Quindi, testi il cui piedistallo di teoria e poetica non prova nemmeno ad autogiustificarsi nell’esecuzione ma resta al tempo stesso alluso, decisivo e invisibile, tendono oggi a proporre un alibi troppo fragile e ricattatorio. (Diverso sarebbe, per quel che riguarda ad esempio il discorso sulla prosa, un ritorno “rondista”, una nuova liquidazione in questo senso della “poesia in versi”: ma è chiaro che non potrebbe più presentarsi in quel modo, e comunque presupporrebbe proprio la ricerca di chiarificazione allegorica che la nostra prosa poetica schiva non per vocazione ma per paura).
In ogni caso, come dicevo, impressioni simili – che altrove ho svolto criticamente – non possono a loro volta far da alibi alla scrittura di chi le nutre. Magari, ecco, è sperabile che esercitino il ruolo di un dàimone socratico: che dicano degli utili “no”. Di più non è concesso.
L’insistenza sulla sintassi, in effetti, deriva (anche) dalla constatazione di ciò che manca ai due suddetti filoni poetici, e dalla constatazione delle ragioni per cui manca. Portare a galla ed esplicitare i nessi, significa forse oggi più che mai non permettersi di alludere in maniera non autorizzata, arbitraria e dunque ricattatoria a un fuoritesto che deve essere invece verificato tutto e sempre daccapo all’interno del testo. E’ l’intuizione del vecchio Fortini - che su altri terreni razzolava malissimo, ma che si poneva sempre le domande giuste e aveva ben visto la profonda, mediatica complicità di Pasolini e Gruppo ’63 - quando chiedeva di ritagliare testualmente gerarchie chiare, complesse, e insomma di oggettivare la propria parzialità, anziché di cedere a quella cattiva infinità e cattiva democrazia dei codici che secondo me invade l’odierna prosa poetica come i versi, la critica, la narrativa...
Per ritagliare un percorso parziale e quindi “discutibile” - un percorso che non si perda, magari per proteggere la sua debolezza, nella famigerata notte delle vacche nere - occorre infatti un punto archimedico, un punto d’attrito: e certo, per fare un altro esempio, non lo offrono più le virgolette invisibili che dovrebbero giustificare qualunque cosa rendendo ogni “lasciatemi divertire” reversibile in un “lasciatemi piangere” o viceversa.
Tutto questo, intendiamoci, non ha affatto a che vedere con una difesa dei confini tra generi letterari che ormai difficilmente possono esser detti tali: bisogna semplicemente reinventarsi tutto da capo, con la poetica attaccata a ogni singolo testo come uno zaino. Invece, credo che una paradossale venerazione per i generi condizioni oggi segretamente proprio chi in apparenza si esalta alla loro mescolanza “purchessia”. Sia detto sottovoce: ma se non si ha questa superstizione, come si fa a credere che uno scrittore che scrive cose poco intelligenti e sciatte quando interviene culturalmente su qualcosa si trasformi d’improvviso in un dio orfico quando firma un sedicente libro “poetico”?
Chi non è superstizioso si accorge del fatto che nove volte su dieci la pochezza è la stessa, la cartina di tornasole (sebbene da usare criticamente con infinite cautele) funziona in modo quasi terrificante, e l’unica salvezza viene appunto dal fatto che un tale scrittore appoggia la propria “poesia” su piedistalli tutti esterni, su una notte hegeliana a cui qualche critico concederà magari una strizzata d’occhio. Non c’è bisogno di aggiungere che un buon intellettuale non fa un artista: ma certo è difficile il contrario. E qui si torna all’ottimo discorso di Paolo Maccari su sensibilità artigianale, libertà e liberazione, ecc.
Chiudo sulla poesia.
“Su ciò, di cui non si può parlare...”. Sia io che Maccari abbiamo cercato di offrire qualche motivo che rendesse conto dell’uso occasionale di certe forme: forme da giustificare poi nei fatti, esattamente come la prosa poetica o come qualunque altro schema. Quindi, se leggendo non vi trovi una sufficiente necessità, fai benissimo a scriverne.
Credo invece di poter fare un appunto abbastanza oggettivo alla tua sollecitazione sui temi:
che certo, come e più del resto, non si scelgono mai del tutto. L’ho accennato alla Nuova Pesa, e l’ha subito sottolineato la prima lettura di Febbraro: più che tema, in “Marcia nuziale” il rapporto di coppia funge spesso da filtro conoscitivo davanti a una realtà molto più larga o pubblica. Il poemetto a stazioni “La seconda attesa” può essere riuscito o fallito: ma comunque la si pensi, le domande incalzanti, esplicite e ossessive su ciò che è accaduto, sul sonno e sulla veglia, ne fanno un testo naturaliter metafisico, perfino “cartesiano” nelle sue richieste di verità (carattere ancora più evidente nel bellissimo “L’ultima ora” che apre il libro di Maccari).
Ciò detto, non so se è di questo o d’altro che abbiamo bisogno (forse per capirlo dovrei capire meglio anche la portata e il senso del tuo “noi”). Però mi ronza sempre in testa quella pagina del Diario in cui Morselli coglie la pericolosa tendenza della critica italiana (poco importa se più “contenutistica” o più “formalistica”) a “culturalizzare” e indicizzare subito, con sospetta immediatezza, ogni motivo, passando sopra alla singolarità dell’opera. Tanto più che per farlo in maniera attendibile occorre prima chiarire quali sono le analisi ideologiche e storiche attraverso le quali stabiliamo le nostre urgenze tematiche. Ma in questa osservazione di Morselli, che trovo magistrale, c’è un monito che rivolgo prima di tutto a me stesso.
Grazie ancora dell’attenzione, Lorenzo, e spero di rivederti presto
Matteo
Incontri di Critica e Poesia a cura di Paolo Febbraro
2009-11-25 11:14:24|di lorenzo carlucci
paolo, tu scrivi che il tentativo di marchesini e di maccari è quello "di
rappresentare insieme la svuotante minaccia che abbiamo attorno e il solido occhio che la vede." ma è l’occhio del poeta a rappresentare se stesso come "solido occhio"? se è così, non è una pretesa esagerata? una elazione dell’autocoscienza? è forse proprio questa pretesa di autorappresentarsi (se non "autorecintarsi") come "solido occhio" che osserva la devastazione a ridurre
l’attrito della poesia di marchesini e maccari. e questa elazione dell’autocoscienza potrebbe avere rapporti non banali con le scelte formali di questi poeti. ma al di là di questo: cosa rende "solido" questo occhio che osserva? non credo le "lacerazioni", le "ferite". non l’incapacità di "parare i colpi". cosa oltre il ricorso alla forma della poesia-poesia, cosa se non la
"solidità formale" del testo? non stai qui paolo confermando in qualche modo una mia osservazione qui sotto: "il valore del suo giudizio è il valore della formula con cui l’esprime."?
non ne faccio una questione di pubblico e privato. da una parte perché mi sembra evidente che almeno la poesia di marchesini abbia pretese di possedere un afflato pubblico [certo, nel modo e dalla prospettiva in cui il "pubblico"
viene inteso dai poeti italiani fortiniani (ossia ancora letterariamente)]. dall’altra perché credo come te che la "prensilità della lingua e dell’immaginazione" siano essenziali per la poesia (e aggiungo:
l’ampiezza della lingua e dell’immaginazione.) il motivo privato può dar luogo a poesia (e a poesia-poesia) universale, se il poeta è andato alla radice di ciò che accomuna il suo privato al mio e al tuo. ciò detto, nella descrizione che marchesini e maccari hanno fatto del "che cosa"
dei loro libri, non ho percepito questa consapevolezza, ma l’eco del tono della loro poesia. la pigrizia delle espressioni idiomatiche che hanno usato
per descrivere il "che cosa", l’argomento dei loro libri - "rapporto di coppia", "campo di forze", "parare i colpi" - fa a pugni (ma solo apparentemente!) con la ricercatezza delle tournures che troviamo nei loro versi. lo leggo come un sintomo del fatto che il valore della loro operazione poetica sia da riconoscersi molto più nella scelta e nella determinazione del "come", che non nella qualità e nella portata del "che cosa". paradossalmente quasi più di quanto non accada nel versante sperimentale (che pure ha i suoi temi obbligati e le sue soluzioni di maniera).
anche il modo in cui tu descrivi e spieghi la valenza "politica" (nel senso estremamente lato in cui si usa questo termine oggi) delle loro opere è
puramente intra-letterario, descrive un posizionamento dialettico - non proprio
inedito - sulla scacchiera della realtà letteraria italiana ("Insieme sembrano
dire: è adesso, nella situazione slabbrata attuale, nella profluvie
anestetizzante della scrittura varia, della semi-prosa, che la poesia-poesia ha un senso decisivo, dirimente, addirittura progressivo.") se così è, la poesia-poesia di marchesini e maccari, spendendo le proprie energie
per posizionarsi dialetticamente nella "situazione attuale" potrebbe correre il rischio di mancare un posizionamento sulla più ampia scacchiera propro di quella tradizione di cui non si desidera perdere il filo.
in conclusione: queste due opere sono forse opere di buona qualità letteraria, ma come dobbiamo valutarle come opere intellettuali? e tu paolo, credi che sia necessario o anche solo desiderabile valutare un’opera di poesia su uno sfondo più ampio di quanto non sia quello della "situazione slabbrata attuale", e più ampio di quanto non sia la piccola tradizione secondo-novecentesca italiana, e che magari comprenda anche lo sviluppo delle altre arti?
ciao,
lorenzo
Incontri di Critica e Poesia a cura di Paolo Febbraro
2009-11-24 21:53:07|di Paolo Febbraro
Provo a rispondere a Lorenzo Carlucci, su Maccari e Marchesini. Innanzitutto, nego che "il rapporto di coppia" e "ferite o lacerazioni" personali siano a priori dei temi minori, o incapaci di procurare l’attrito necessario alla forma e alla sintassi che li esprimono. Rapporto di coppia e ferite personali possono (e nei due poeti di cui sopra così accade) innescare pensieri vasti, inabissamenti, confronti speculari con un "fuori" solidale o meno rispetto agli incubi privati.
E del resto, siamo ancora alla differenza fra privato e pubblico? E’ la prensilità della lingua e dell’immaginazione a contare, la capacità di convocare sulla pagina intelligenze plurime e ampie sconfitte, magari a partire da una conclamata, iniziale inadeguatezza a comprendere, o ad accettare preventivamente, la cosiddetta "realtà". E’ così, ad esempio, che la "festa infestante" di Marchesini, o l’emicrania percussiva di Maccari sono continuamente a specchio di fatti raccontati, rappresentati, o rappresi in allegoria, di notevole ampiezza allusiva.
Sulla sintassi, sull’inarcatura del verso-verso e della poesia-poesia: a Lorenzo credo sia sfuggita la valenza storica (dico della Storia recente) che ricopre l’opzione estetica e morale di Marchesini e Maccari per la poesia versificata, per il "legame musaico". Si tratta degli unici due esempi che conosco (nella poesia dei giovani) di uso non citazionale o manieristico del sonetto, dell’endecasillabo o della rima. Insieme sembrano dire: è adesso, nella situazione slabbrata attuale, nella profluvie anestetizzante della scrittura varia, della semi-prosa, che la poesia-poesia ha un senso decisivo, dirimente, addirittura progressivo. Questo non vuol dire che non si possa scrivere altrimenti: ma la scelta di Maccari e Marchesini è anche politico-culturale, non è un’autoinvestitura formalizzata, o l’aurecintazione di un pavido contro il caos, ma il tentativo di rappresentare insieme la svuotante minaccia che abbiamo attorno e il solido occhio che la vede.
Un saluto, Paolo Febbraro
Incontri di Critica e Poesia a cura di Paolo Febbraro
2009-11-24 12:02:16|di lorenzo carlucci
riporto qualche mia impressione dalla seconda serata di questo interessante ciclo di incontri. i poeti presentati erano matteo marchesini e paolo maccari.
febbraro ha sottolineato come marchesini e maccari siano "poeti
che scrivono poesie", che scrivono davvero "versi", piuttosto che - per esempio - prose poetiche, e si è soffermato specialmente sull’uso che del sonetto fanno entrambi (il libro
"marcia nuziale" di marchesini si chiude e quello di maccari "fuoco amico" si apre con una suite di sonetti). commentando le proprie scelte stilistiche, i due autori hanno rivendicato - al di là di una certa
propensione "naturale" al sonetto (forse più credibile in maccari che
non in marchesini) - la necessità di confrontarsi con "la sintassi" (marchesini), per non incorrere nel paradosso di inebriarsi di una "libertà senza liberazione" (maccari). la poesia deve essere "verificabile" (marchesini), la contestazione non può che avvenire dall’interno: dall’interno della forma-sonetto, per esempio. questo, a loro parere, il modo migliore - e forse l’unico - di creare il necessario "attrito" (marchesini). al contrario, la poesia sperimentale (libertà senza liberazione) viaggerebbe "in folle" (maccari), variando liberamente su strutture libere, come in una fantasmagoria, e la prosa poetica sarebbe sempre a rischio di finire "in poltiglia" (maccari).
pur condividendo diversi dei giudizi riportati qui sopra, ho una forte perplessità sul modo in cui il vessillo della "sintassi" è stato innalzato per giustificare le scelte formali dei due poeti in questione (specialmente da parte di marchesini, il quale ha ripetuto idee espresse nella sua nota finale a "marcia nuziale"). mi sembra che, richiamando la necessità di un lavoro serio sulla "sintassi", si dica da una parte troppo e dall’altra troppo poco. il riconoscere la necessità di confrontarsi con il "dato" della sintassi, e per essa con la naturalezza (storicamente e culturalmente prodotta) della lingua *non coincide* con - né ha come corollario immediato - l’opportunità di scrivere sonetti e neppure giustifica immediatamente l’opportunità di non discostarsi di molto dal solco di una certa prosodia novecentesca (molto marcata e rimarcata in marchesini).
queste ultime sono scelte assai più connotate, che riposano su assunti ulteriori rispetto alla necessità di confrontarsi con "la sintassi", e che - in marchesini e maccari - vanno a braccetto con aspetti non certo sintattici quali la scelta di un registro medio-alto e certi non rari preziosismi lessicali, e con tutta una serie di scelte ritmiche prosodiche e pure tematiche. per giustificare tali scelte serve molto più che non un generico richiamo alla ’sfida della sintassi’. mi chiedo se i due autori riconoscano o meno la possibilità di
raccogliere la sfida della sintassi in modo radicalmente differente? per esempio: se davvero la sfida è quella della sintassi, perché mai la prosa poetica (magari ritmica) non dovrebbe essere in grado di raccoglierla, generando il desiderato "attrito"?
una seconda impressione che ho avuto è questa: al massimalismo e alla richiesta di rigore e "verificabilità" sul "come", sulla forma, si accompagnano un certo minimalismo, una certa indulgenza e un certo laisser aller sul "che cosa", indulgenza
che ha i tratti un po’ mistificanti della iperletterarietà.
quando febbraro ha messo a tema esplicitamente il "che cosa", ho osservato una certa "sfarinatura" del discorso, da parte di entrambi poeti. da una parte marchesini ha dichiarato che il tema del suo libro è il "rapporto di coppia", visto come "campo di forza", o rapporto
"bellico". dall’altra maccari ha dichiarato che il suo libro parla di "ferite", "lacerazioni", subite da un individuo poco capace "di parare i colpi". temi e motivi certo degnissimi ma che - mi sembra - testimoniano il una tendenza a non chiedere troppo alla poesia, e a mantenersi troppo vicini a se stessi. in altre parole: è possibile, con temi e motivi come questi, generare il desiderato "attrito"? si ha l’impressione di una poesia per cui la coerenza e la cogenza linguistica-sintattica-ideologica sia sufficiente garanzia di "esistenza", indipendentemente da quanto ingenuo, privatistico e circoscritto possa essere il tema o il motivo dell’opera, e indipendentemente da quanto poco originali possano essere le soluzioni esistenziali e intellettuali proposte o soltanto suggerite.
se è vero che una dose eccessiva di pretese filosofiche da una parte e di pulsioni vitalistiche dall’altro rischiano di indebolire la poesia, specie se si accompagnano ad una misera tenuta sintattica, non corriamo qui il rischio opposto? ossia di avere componimenti formalmente solidi e ben "posizionati" su di una scacchiera letteraria (e ideologica) mentre sono il "che cosa", il significato - e con essi la portata culturale e intellettuale dell’opera - ad andare "in poltiglia"? la natura dei temi trattati, l’opacità concettuale di molti componimenti, un certo eccessivo intimismo e personalismo, me lo fanno temere.
ma in qualche modo ciò non deve stupire. sono caratteri coerenti con il tipo letterario che marchesini e maccari incarnano e propongono. che non è nuovo di certo e che potremmo
dire essere quello del letterato-letterato, di matrice borghese e ottocentesca. l’opera di un tale letterato è tutta letteraria, nel bene e nel male, anche quando egli sembra volgersi a tematiche sociali o filosofiche, il valore del suo giudizio è il valore della formula con cui l’esprime. un tale letterato deve esibire un certo magistero tecnico (la "verificabilità" invocata da marchesini qui rischia di diventare una "credenziale" dell’autore piuttosto che una proprietà del testo), e inserirsi nel solco di una tradizione "verificata". marchesini e maccari propongono una poesia-poesia che si rifiuta di andare oltre ciò che la poesia è sembrata dover essere agli occhi di certi "maestri" italiani del Novecento. una poesia-poesia che rifugge l’eccesso disperatamente, ma rischia di essere eccessivamente indulgente con le proprie riflessioni, con la propria medietà, con le proprie ricercatezze lessicali (penso qui in particolare a marchesini), con le proprie soluzioni stilistiche, con certe lungaggini (penso qui a certi ’per esteso’ di maccari).
nulla di male in ciò, ma resta lecito chiedersi: è questo il tipo di poeta di cui abbiamo bisogno oggi? o pure è un tipo che oggi può esistere soltanto accanto ad altri, e in aperto e schietto dialogo con essi?
saluti,
lorenzo carlucci
Incontri di Critica e Poesia a cura di Paolo Febbraro
2009-11-09 11:10:11|di lorenzo
l’orario: 18:30...
lorenzo
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su gezzi e carabba
2010-01-02 15:59:44|di lorenzo
ho visto di qua e di là avvicinare la poesia di gezzi e quella di carabba (protagonisti di uno dei prossimi incontri alla nuova pesa). trovo l’accostamento un po’ superficiale. copio qui sotto qualche osservazione rapsodica sull’argomento.
su gezzi e carabba.
al di là di un uso classico dell’allegoria, la poesia di gezzi e quella di carabba mostrano nettissime e profonde divergenze. gezzi ricerca esiti montaliani, i suoi componimenti hanno un alto grado di orchestrazione, egli usa il crescendo e le chiuse repentine ma pulite, tutto senza rinunciare a una forte fluidità del dettato, a un andamento melodico (se pure di tono medio). gezzi traccia le immagini a tutto tondo, ricerca immagini e allegorie di alto peso specifico, è tutto teso all’assunzione di una posizione stabile, a un equilibrio di compostezza e possenza.
carabba mostra caratteristiche del tutto differenti. v’è in lui un laisser aller, una lunaticità e una cialtroneria tutta (propria di certa Roma), un gusto per la dissipazione e l’indulgenza (anche la self-indulgence) da bambino cresciuto negli Anni Ottanta e che sono quanto di più lontano possiamo immaginare dal dettato di gezzi. gezzi ricerca l’immagine scolpita nel marmo, necessitata dalla struttura del testo, coerente con l’argomento. carabba può partire da un’immagine più o meno solida, ma poi lascia derapare il suo testo lungo inclinazioni trasversali, si sente in lui una ebbrezza del pericolo, un gioco giovanile del lasciare la macchina slittare lungo un pendio, continuando a spingere l’accelleratore, pur sempre mantenuto molto al di qua dell’autodistruzione. in ciò riconosciamo dei caratteri totalmente alieni a gezzi: una fiducia verso sé che sfiora la follia e la lunaticità, ma che è insieme una fiducia - filosofica - verso il mondo, verso la risposta che si può ottenere dal mondo. carabba frulla il mondo mentre gezzi lo compone faticosamente. la poesia di carabba è in qualche modo online - sembra scritta dal vivo - mentre quella di gezzi è composta, offerta e fruita offline. gezzi mette il proprio io empirico a servizio della (propria) poesia, si appoggia ad esso come ad un cavalletto per imprimere alla propria poesia solidità e coerenza, mentre carabba getta alla rinfusa tutte le determinazioni del proprio io empirico nel testo, come offrendole in pasto alla poesia, come chi giocando con la macchina dello zucchero filato aspettasse col fiato sospeso - ma pure con una certa sconsolata preveggenza - la meraviglia della nuova forma.