di Rosaria Lo Russo

Rosaria Lo Russo (Firenze, 1964, www.rosarialorusso.it ), poetrice, da quasi trent’anni interprete della poesia contemporanea, ma anche medioevale e moderna, è poeta, performer, traduttrice, saggista.
Ha pubblicato Comedia (Bompiani, 1998, libro cd), Penelope (d’if, 2003), Lo Dittatore Amore. Melologhi (Effigie, 2004, libro cd) e Io e Anne. Confessional poems (d’if, 2010, libro cd).
Con la voce e la scrittura ha lavorato, collaborando con varii musicisti e compositori, per la poesia di Anne Sexton, Sylvia Plath, Piero Bigongiari, Mario Luzi, Giorgio Caproni, Andrea Zanzotto, Amelia Rosselli, Giovanni Giudici, Iosif Brodskij, Friederike Mayröcker, Erica Jong, Wislawa Szymborska, e molti altri.

pubblicato sabato 15 gennaio 2011
Quanto alla cosa poetica leggere e scrivere sono due atti cognitivi specularmente identici. Due cognizioni psicofisiche identiche di un unico (...)
pubblicato martedì 19 ottobre 2010
Il carisma corpo-orale del poeta in quanto performer. Mi capita spesso di riflettere sul perché ancora oggi, e nonostante tutto lo sfacelo (...)
pubblicato venerdì 3 settembre 2010
Quella del depensamento è stata davvero – almeno dal nostro punto di vista - forse la più grande trovata di quel geniaccio culturalmente (...)
 

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a cura di Massimo Rizzante e Lello Voce

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L’ARTE DEL MELOLOGO

Articolo postato sabato 14 maggio 2011

Nel mare magnum, spumeggiante e inquinatissimo, della poesia contemporanea italiana e della sua delirante editoria, si sono formati, da troppo tempo!, due partiti di un antagonismo subdolo e feroce, i quali, esattamente come accade per i partiti politici, vanno sotto due denominazioni tanto demenziali quanto frodolente: la poesia “lineare” e la poesia “performativa”. La poesia lineare contro la poesia performativa, e viceversa, a botte di esclusione e di colpi tremendi. La poesia lineare, ritenendosi ed essendo ritenuta dai suoi sostenitori ed editori, pura (bembianamente, petrarchescamente pura), si riversa in una editoria bianca: dal bianco candido della collana omonima einaudiana, al bianco meno candido di Donzelli, al bianco sporco di Crocetti, sempre bianca e pura la poesia lineare ha da essere (e se neometricamente incoronata, ancora meglio). Essa si ritiene ed è ritenuta, dai suoi autori editori e sostenitori, la “vera poesia”, la sobria, la profonda, la riflessiva e silenziosa poesia, tutta alti concetti e alta metrica, infinitamente imitabile ed imitata. Viceversa la poesia perfomativa è rappresentata da editori multiformi e multicolori, ma a scarsa tiratura e soprattutto scarsa fiducia nel prodotto proposto, il quale “non vende”, esattamente come la poesia bianca, ma costa di più produrla, perché l’oggetto editoriale si complica di allegati quali cd audio e dvd video. Ai suoi autori e ai suoi sostenitori (che spesso sono parte di un unico e relativamente sparuto gruppo, quindi autoreferenziale) non interessa affatto la “vera poesia”, considerata vecchia, muffosa, stantìa, ma la poesia, appunto cosiddetta performativa. Ma su cosa esattamente si intenda con l’aggettivo performativa nessuno si interroga, ovvero, a parte gli autori dei blog di Absolute Poetry, nessuno cerca di dare un senso, se ce l’ha, a questo termine. L’importante – si crede, in ambito “performativo” – è che la poesia non s’en vada più per lo mondo da sola ma accompagnata da musica e arti varie, l’importante è che la poesia diventi multimediale, anche abborracciatamente multimediale purché multimediale sia. E poco importa se il prodotto multimediale che ne deriva viene performato una sola volta all’interno di un festival di poesia di provincia e di fronte ad un pubblico di quattro persone. Il poeta performer sarà ugualmente convinto di aver fatto il suo dovere artistico.
Cari lettori di questo mio blog, ormai sapete abbastanza bene come la penso, ma devo proprio dire che questa diatriba e divisione mi ha veramente annoiata. Prima di tutto perché non ci credo e non ci ho mai creduto: questa divisione fa il paio con un’altra infatti, altrettanto oziosa e frodolenta. Quella fra poesia (sottinteso “vera”, l’indiscussa, l’immota) e poesia d’avanguardia o sperimentale. Enorme, colossale pasticcio storiografico, essendo l’avanguardia (e tutte le sue derivate neo-) un fenomeno storico, ed essendo invece la sperimentazione (linguistica) la ragion d’essere stessa, in omnia saecula saeculorum, del fare poetico.
Non esiste poesia lineare vs poesia performativa e non esiste poesia “vera” (accademicamente accettabile, scritta da poeti-critici, legata insomma alle glorie fiorentine Dugentesche, Trecentesche e Novecentesche Anni ’30-’40: infinito noiosissimo epigonismo essa tutta generò, essendo che la Novecentesca Toscanità è a sua volta una replica, appena appena variantata, della Lingua Toscana dei Santi Padri... quel melmoso padule in cui non volle impantanarsi, con consapevole e corrucciata fiertà, la Grande Amelia) vs poesia performativa.
Un brutto e cattivo motivo effettivo di distinzione fra le due esiste però, e riguarda la visibilità. Il Bianco, il non-colore, il tutta luce, si vede meglio della variegata multiforme multicolore incertezza della sua nemica performativa, la spuria, la sbeffeggiante, l’immodesta e caciarona poesia performativa. La poesia “vera”, che chiamerò ufficiale, ha una sua critica ed una sua editoria piuttosto sicure di sé, con spazio di recensioni sui giornali, e anche benedetta dal Vaticano (vedi la rubrica del suo armato crociato Davide Rondoni sul Sole 24 ore); la poesia performativa invece invade il web con foga espressiva pari alla sua effimerità. Anzi, a complicare ulteriormente le faziose cose, entrambe invadono spudoratamente il web, mantenendo le stesse caratteristiche grafiche cartacee anche in cristalli liquidi. Quanti siti di poesia-spazzatura ma sedicente lineare affollano in corsivo dilettantesco, con tanto di formato centrato, a meglio simboleggiare la propria sacra essenzialità verbale, la rete universa! E quanta poesia performativa malfatta (meno, per fortuna, richiede più mezzi) ci giunge alle orecchie dalle casse mortifere dei nostri pc!
E si aggiunge un altro grosso problema, all’interno del mare magnum (più fluvial-logorroico che marino), alla definizione di performatività poetica: il suo infinitamente minore impatto sul pubblico (l’agognato pubblico della poesia performativa, confinato in gabbie-festival autoreferenziali) rispetto alla sua sorella più furba, la canzone d’autore. La cosiddetta “canzone d’autore”. Fiumi di parole son stati spesi negli ultimi decenni nell’unica tematica affrontata dalla critica riguardo alla poesia performativa: quella della sua distinzione dalla canzone d’autore; con la domanda, che non trovò mai unanime risposta: è la canzone d’autore poesia oppure no?
Unica cosa certa è che la canzone d’autore vende (tramite supporto cd audio e pubblicità in video su You Tube) e la poesia performativa no, restando talmente multiforme e variabile da essere invisibile-inudibile, un fenomeno artistico d’élite, si dice, o di nicchia, spesso dovuto però alla sua incertezza dilettantistica, sia della penna che della voce che la veicolano.
Come stupirsi, dunque, in tutto questo immane e astioso casino guelfoghibellinico, se la poesia non ha fortuna nel mercato dell’arte? E dico dell’arte perché non trovo un termine migliore. Dovrei dire mercato editoriale? Esiste ancora un vivo mercato editoriale che non sia di libri di cucina? Dovrei dire mercato teatrale? Il teatro versa in una miseria indegna per un paese civile, indecente, qui in Italia: figurati se ha posto per la poesia (persino la Valdoca, nonostante sia un’eccezione quanto a fama – ma sempre di nicchia - e sia veicolata in bianca einaudi e dotata di un apparato promozionale degno di tal nome, non ha una posizione chiara e distinta nel caos sistemico in cui mi sto addentrando, almeno quanto a critica: la poesia della Gualtieri è poesia o teatro? Cosa pensa di sé, criticamente, il Teatro della Valdoca? Quali dichiarazioni di poetica sostengono la poesia di Mariangela Gualtieri? Lei non se ne cura, a quanto ne so, di questo aspetto. Ha scelto il personaggio della poetessa pura, quindi indiscussa. Come la Merini, come la Valduga. Esistono come personaggi della poetessa, e quanto basta, a loro, a me no).
La poesia contemporanea resta perciò un fenomeno artisticamente ineffabile e di fatto invisibile-inudibile ai più, sia in libreria, sia nei teatri.
Mi provo a dare un’interpretazione del tristo fenomeno e a suggerire una, almeno parziale e valida nell’attualità, via d’uscita (o di mio gusto: avanti coi commenti e le polemiche!).
Chi segue questo blog sa già come la penso riguardo a quella vera e propria chimera che è il termine performance. Di per sé esso non significa null’altro che azione, prestazione. Ho già suggerito il mio punto di vista sulla differenza che intercorre tra l’attore come performer e il poeta come performer. Rimando ai post precedenti, ma lo riassumo: è sempre la voce-corpo il soggetto in questione (la voce è corpo perché è respiro che fa vibrare le corde vocali e articolazione delle posizioni della bocca e della lingua), ma mentre l’attore teatrale recita una parte-personaggio anche se quel che dice è in versi, il poeta-performer riscrive vocalmente il testo giacente sulla pagina (anche se non scritto da lui o lei medesimo/a), sostanzialmente, e misticamente, incarnandolo, ovvero dandogli vita fisica, tridimensionalità rispetto alla pagina scritta. Però, proprio perché il soggetto è la voce-corpo anche per il performer-poeta, anche questi, come l’attore teatrale, deve avere una formazione confacente ad una prestazione scenica (performance in senso stretto). Deve cioè sapere usare (brutto e impreciso termine, ma tant’è) la voce e il corpo, avere un carisma scenico, la presenza scenica, quell’unità mente-corpo di cui parlavano i grotowskiani è un buon suggerimento tutt’oggi per intendere cosa deve essere un performer. Ma questo soggetto deve anche saper scrivere poesia, un testo che abbia in sé la propria oralità-vocalità metrico-ritmica, fonosimbolica, fonosemantica, un testo cioè che regga come tale. Difatti, in soldoni, quel che distingue la canzone d’autore novecentesca dalla poesia sua contemporanea è che nella prima il testo è in funzione della musica, vera struttura del pezzo, e dunque in sé incompleto stilisticamente, mentre la seconda è conclusa in sé, strutturalmente, ma la sua vaga e pura, leopardianamente petrarchesca, suggestività, può tollerare e talvolta beneficiare (Orrore! Melensità!) di una musica di sottofondo. Oppure c’è la “poesia sonora”: identica a se stessa dagli Anni Settanta, essa ignora il testo, perlopiù ridotto a gioco di parole, e si sfoga nell’happening. Molto divertente, ma non c’entra nulla con la poesia in quanto genere artistico in cui phonè e semantikè hanno da fondersi inscindibilmente, se vogliono accedere al senso.
La critica letteraria si occupa perciò solo di poesia ufficiale pura e semplice, perché il resto è inclassificabile ed indecifrabile, affidato ad una empiricità più effimera del fumo. Flatus vocis, ma non nel senso migliore del termine.
In tutto questo ribobolo magmatico i più affondano e la poesia ha perso, da quel dì oramai, il mandato sociale. Anche questo argomento è stato oggetto di accorate pagine critiche. La poesia ha perduto il suo carisma sul pubblico dei fruitori delle arti della parola. La funzione poetica di Jakobson si è rifugiata e prostituita nella pubblicità. La poesia “non si capisce”, questa l’accusa del popolo. E giù a cercar di rimediare aggiungendo la musica, le gare in ottava rima, gli slam poetry, la lotta politica e tutto quanto fa spettacolo.
Ma grazie al cielo il Novecento è finito e finito da un decennio, quindi possiamo cominciare davvero a liberacene di questi meccanismi vecchi decrepiti. Vorrei che sorgesse una critica letteraria priva di queste aberranti distinzioni e dotata di competenze varie e scritta da menti libere e vorrei che la poesia tornasse ad essere epica gloriosa delle italiche genti schiacciate dal tiranno televisivo. Vorrei che i poeti studiassero letteratura canto e recitazione. Vorrei che i poeti fossero autori, ovvero avessero una poetica solida, troppi sedicenti poeti si inebriano della propria narcisistica estemporaneità. Ricordiamo che la poesia o è (sperimentazione linguistica e fonoritmica-fonosemantica) o non è. E che se il poeta vuole, come deve, recuperare il suo mandato sociale, deve lavorare professionalmente su più fronti, dagli Anni Zero in avanti. E’ deplorevole il fatto che ancora oggi, in piena fase storica di oralità secondaria, di civiltà orale secondaria, escano ancora libri di poesia. Bianchi donzelli silenziosi e spenti. Specchi mondadori per le allodole accademiche.

Cosa fu il melologo nell’Ottocento in fin dei conti poco importa. E’ il termine che mi piace, che è acconcio ad un rinnovamento della pratica poetica e critica. Ho così sottotitolato un mio libro con cd del 2004, Lo Dittatore Amore, che ha raggiunto il grado assoluto dell’invisibilità-inudibilità critica. Il melologo è un testo in versi che implica perciò, dall’interno, il suo recitar cantando, ma che è aperto alla musica non come sottofondo sottomesso ma come contrappunto necessario al compimento della sua esistenza artistica. Chi o coloro che lo esegue o lo eseguono devono essere in grado di scrivere da autori, di recitare secondo una coscienza della vocalità praticata da attore teatrale e/o da cantante, di comporre e suonare musica professionalmente.
Quand’è così i risultati si vedono, è la poesia c’è, e pure il mandato sociale: penso a Vinicio Capossela i cui testi (specialmente di Ovunque proteggi e di Marinai, profeti e balene), sono fortemente e stabilmente letterari, ovvero non hanno la struttura della canzone d’autore (oppure sì, ma allora la musica cambia), detti secondo un recitar cantando accompagnato da contrappunti musicali i più varii, a seconda della natura testuale, sia stilistica che tematica. Ho assistito inebriata al concerto di Capossela Marinai, profeti e balene. Un insieme variegato e coeso di stili letterari e musicali, sostenuto da un cantante-attore dalla vocalità inconfondibile e tostissima. I testi, pur “difficili”, non demoralizzavano il pubblico, che anzi li pogava, lacerti danteschi inclusi, con partecipazione pari a quella dimostrata nei confronti di pezzi più marcatamente pop. Vinicio Capossela è un poeta performer? No di certo. E’ un cantante? Anche, ma non solo. E’ un attore? Anche, ma non solo. Cosa lo distingue da un cantautore e da un attore? Il fatto che è anche un musicista e che perciò tratta la testualità melologicamente. La stessa tendenza, seppure secondo uno stile radicalmente diverso – direi anzi opposto per sensibilità e riferimenti culturali rispetto a Capossela– l’ha manifestata Massimo Zamboni, proprio a partire dagli Anni Zero. Dopo essersi fatto le ossa performative (nel senso tecnico e vasto del termine) come chitarrista-compositore del miglior fenomeno punk-rock italiano degli Anni Ottanta-Novanta (CCCP-CSI etc., per molti di noi fenomeni artistici veramente auratici e formativi, nelle zone della mente e del cuore), negli Anni Zero diventa autore. E pubblica, un po’ restando in nicchia un po’ no, insomma rimanendo come in molti fra color che son sospesi fra generi espressivi varii (vero cancro delle arti della parola e della musica in Italia), due cd melologici: Sorella Sconfitta e L’inerme è l’imbattibile. Bellissimi. Con testi troppo “difficili” per diventare canzoni famose? No, con testi poetici melologici, quindi difficili da digerire per il mercato musicale della canzone d’autore. E così questi testi confluiscono oggi in un Donzelli, Prove tecniche di resurrezione, scivolando nella nicchia bianca degli invisibili-inudibili poeti. Con varie case editrici Zamboni pubblica nella forma testo + cd + dvd (rimando i non informati al sito omonimo), ma resta di nicchia. Ecco cosa accade ai migliori a causa del casino gigantesco di cui sopra. I testi di Zamboni sono poesie, non lineari né performative, poesie punto e basta, ma la loro destinazione nasce melologica, a seguito della formazione musicale dell’autore e grazie alla sua capacità di evoluzione artistica. E quindi la scissione fra il libro e i cd è forzosa. Ma certamente è stata indotta dalla necessità di Zamboni di affermarsi come autore, quindi ben venga. Però la mia speranza, la mia più viva speranza, è che il guazzabuglio delle false definizioni – che serve a far progredire i furbastri e mantenere invisibili i molti artisti validi e in buona fede, vero grande cancro italico – imploda per entropia in un gran buco nero silenzioso, che s’inghiotta i mediocri e sputi fuori pochi ma buoni quasars luminosissimi e sonorissimi. La parola magica? Intonazione. La poesia, quando c’è, ovvero quando è frutto di una ricerca sperimentale cioè ha un suo decifrabile stile, è un fenomeno di INTONAZIONE. La detto Derrida, io mi limito a ricordarvelo e a far lavorare dentro le vostre teste polisemiche questo antico termine retorico.

9 commenti a questo articolo

L’ARTE DEL MELOLOGO
2011-05-17 19:53:06|di rosaria

Sono contenta che il non-dialogo inizi ad animarsi, perché l’intento del pezzo stavolta (ma in generale nel mio blog) era molto provocatorio. Di tutti gli interventi, finora, approvo solo quello di Andrea Gigli, nel senso che è l’unico che finora ha mostrato di aver capito di cosa sto parlando, ovvero del desiderio, lo dico con sdegno dantesco, che "la morta poesì resurga", e pare che per risorgere debba innnazitutto farla finita con le menzogne definitorie. Unico mio intento costruttivo era infatti mettere in risalto l’attuale menzogna definitoria sulla poesia, almeno la principale, da cui le altre derivano, ovvero la falsa antitesi lineare/performativo. Il fenomeno letterario e anche quello vocale vanno ridefiniti criticamente;tutto è ormai inafferrabile nel mare magnum di cui dico. Spero molto in Frasca come teorico e ne la nuova "rivista" "La CanGura" come sede di un possibile rinnovamento critico-teorico e anche esetico, perché c’è di molta robaccia in giro, gente...!
Un grazie a Lou, per il riconoscimento


L’ARTE DEL MELOLOGO (MELOGIA O POESIA ?)
2011-05-17 19:29:50|di MUTANTE ASSOLUTO

Grazie Rosaria, di aver invitato anche me, finalmente un errore informatico potrebbe avere conseguenze rilevanti, per il sottoscritto (molto sotto, naturalmente, il livello performaccademico, perfintopolemico del "post" postato dalla stessa POETRICE). Ma, bando alle chiacchiere, vengo al liquido, ch’è l’essenziale (se mai l’essenza sia, tuttora e in futuro prossèmo, qualcosa di PERFINTATIVAMENTE contante, cioè rilevante, interattiva, technoavailable, etc), e cioè: che assai mi sorprese (si fa per dire, non si fa per fare) che la suddetta Autrice tuttora discetti s’una distinzione partitica e perciò stesso accademica, tuttinterna alla prima classe, quella LINEARE, e con in-finita competenza linguistica manifesti tanto amore alla DEFINIZIONE per l’appunto dell’ESSENZA dell’oggetto-poesia, inteso là-fuori, non-io, non-io. Or detto ciò, e nella piena consapevolezza che mai avrò dialogo con la stessa Autrice, impossibile nonostante l’apparente fratellanza (per errore) informatica, e nemmeno con l’ottimo commento di Andrea Gigli o quello significativamente tranchante di Daniela Tamborino, oso postarmi aqui, declarando nombre y direccion como necesario, y saludando con un grande abrazo latinoamericano los hermanos y las hermanas creadores de poesìa.http://nicolalicciardello.wordpress.com


L’ARTE DEL MELOLOGO
2011-05-17 19:01:30|di gloria

sono d’accordo con daniela. Non c’è l’unica vera assoluta poesia, che sia performativa o elegiaca, evocativa, gioiellino. La poesia è senza definizioni. Poi ci sono le mode. Restano alcuni. Ma se vogliamo definire la poesia, facciamo come Croce, dividiamo tutta la letteratura in poesia e non-poesia. Io dico che le canzonette non c’entrano, che i cd non c’entrano, la musica nasce dalla parola, dal suono , dalla sinestesia verbale, dal simbolo, dalle pietre dure che rompiamo dentro di noi per dire l’esserci e l’essere che è senza suono, all’inizio,è. Anche con suoni sporchi, ma non è canzonetta, non è melos. Nasce nel silenzio e risuona nel silenzio. Nella parola viva che acquista un nuovo statuto quando ha viaggiato nell’interno di tutti noi. Di sicuro non è comunicazione. E quello che pensavamo dell’essere noi, inter nos, dopo il viaggio, all’inizio. Nello scavo interiore è gioia, dolore, ferita, odio, poi emerge nelle piccole luci della sera e resta. E’.


L’ARTE DEL DIALOGO
2011-05-17 15:10:03|di Antonio Limoncelli

Linea di parole, vocali perimetrali, l’area del significato non è poetica, il linguaggio non può che superare l’archetipo della forma, inserzione o inseminazione d’etimi, atomi linguistici della materia organica, cellule per consonanti, isole d’organi... le parole del pancreas, conseguenza rotatoria nel flusso surrenico, fluido amaro e fisiologico, espressione sullo snodo inarticolato, giostra di termini muti prima transitori poi, neo-sillogismi-post. L’intersecarsi di idee porta alla tipologia ortogonale, la verticale d’orizzonte, uno spostamento prospettico di lettura.
La mucillagine di voci perdute, il narratore dei Sargassi, le balene bianche su cui scrivere tantissimo, troppo... suoni grassi, olio per lo snodo comparativo, l’assurdo che innesca i paradossi, la logica dei nessi analogici.
La poesia è sinergia atavica, primordiale che si manifesta, esplosione di quanti nell’impressione minimale... micronauta dell’infinitesimo accenno alla trasparenza come possibile riflessione, pensiero di vetro.
Masterizzare la materia grigia, tramite elicoidale, genetica esplorativa. I prioni linguistici, eccedenze del senso, significante vertebrale, vibrazione pura, senza il controllo centrale, verbo decorticato per un divenire puro, termine nudo, il mio nome senza pelle.
Il tam tam concettuale, la divisione per ridiscutere il tutto e approdare al nulla, vaghezza e nebbia, dispersi con le parole nella saccatura cosmica dei dintorni apocalittici, un laboratorio di luce sulla riga tracciata Dio, altra variante prossimale, ipotetica, pretestuosa.
L’argano tira alla verità ogni menzogna che collima con la coerenza, dimentica l’energia che occorre nel trasformare i propri sguardi in visioni.
E’ la mente che separa, replica della scissura, il mondo e le parole, che spiegano in ogni caso e, spesso non occorre; la causa è determinante!
Poesia lineare? Poesia performativa? Poesia?
Dobbiamo essere scrittura fuori dal catalogo editoriale, essere editori d’essere, ritornare alla ragione che non divide, alla logica extraduale, implosiva, fluida, linguaggio d’acqua che disseta il lettore come sorgente d’arenaria, vena d’argilla, sangue minerale.
Quando l’attimo, istante conterraneo... noi tempo!
Dalla deriva dei continenti il suono millenario della parola che io cerco per descrivere l’intento, performante, lineare, implicito millimetrico che misura l’intimo, il mio atomo, atono è l’elemento, frammento comune, semplice mente, neurone altimetrico, opercolo dipendente, acrobazia sul margine, vertigine ideale.
E adesso, a te l’extratesto... mi piacerebbe sapere cosa ignori.


L’ARTE DEL MELOLOGO
2011-05-17 12:28:03|di sergio zuccaro

condivido tutto quello che dici, anche se qualche rara eccezione di poeta che fonde "phonè e semantikè" lo conosco (gianni fontana per esempio) ma non penso sia la causa della mancanza di mercato che va ricercata in un ambito puramente commerciale
la poesia, tutta, come dici tu, da omero in poi, strizza l’occhio all’ozio e non al negozio
certo, molti poeti accetterebbero anche il negozio, la poesia no, questo non significa che rifiuto la circolazione e la distribuzione ma dovrebbe passare per il lusso, che come diceva, wilde, è l’unica cosa a cui non possiamo rinunciare
un caro saluto
sergio


L’ARTE DEL MELOLOGO
2011-05-17 12:01:59|di andrea gigli

se proseguirà la linea di tendenza affermatasi a partire dagli anni ’80 (ma già evidente da molto prima), credo che in brevissimo tempo il termine "poesia" non sarà più adeguato a raccogliere in un’area semanticamente comune la miriade di fenomeni di scrittura e di testo/voce che ci si ostina a mantenere uniti. Le ragioni di questa ostinazione mi paiono chiare, anche se non edificanti: editori e autori ritengono che tenere artificialmente in vita questa categoria possa dar loro chance di sopravvivenza.
Propongo allora di anticipare i tempi e dichiarare che quella che storicamente siamo abituati a definire poesia sia definitivamente esplosa in una fertilissima, immensa nebulosa di nuovi fenomeni e territori di intervento linguistico, orali e scritturali, assolutamente non più riconducibili a una matrice comune (se non nel senso filogenetico: ovvero più o meno nello stesso senso per il quale gli esseri umani discendono dai primati). Interventi che sono ormai diversi per tutto: non solo, come è sempre stato, per materiali lingua e metodi, ma oggi anche per scopi, intenti, fini, aspettative e credenze. Ogni testo, ogni autore, si muove su binari che stanno manifestamente divergendo. E allora, autori, provate con un po’ di coraggio ad anticipare il futuro. Prendetelo in contropiede prima di restare impantanati in questa trappola linguistica - tanto "non avete niente da perdere, fuorché le vostre catene". Cos’hanno in comune moltissimi "poeti"? Solo il fatto di scrivere e definirsi tali. Un po’ poco. Nessuna matrice può più definirsi unificante, ma ognuna, storicamente generata, è a sua volta matrice di catene di fenomeni in espansione. La nebulosa linguistica originata da quella che una volta era "poesia" ha forma sferica, ma irregolare, terribilmente frastagliata e si espande a vista d’occhio: ai poli estremi navigano autori che non hanno più neanche gli scopi dei loro testi in comune, negli altri spicchi parentele e sovrapposizioni sono complicatissime e in costante divenire. Acceleriamo l’agonia, che non sarà morte ma rinascita. Una pietosa eutanasia per il termine "poesia", con tutto il suo indimenticabile bagaglio di ricordi e storia. Diamo inizio agli anni zero della scrittura. Cari autori, davvero pensate che il termine "poesia" vi possa essere d’aiuto? davvero ci tenete ancora così tanto a diventare famosi? E perché? Dovete sublimare frustrazioni represse, traumi, sofferenze? Be’,anche in quel caso scrivere, urlare, parlare, cantare forse vi aiuterà. Diventare famosi no: quello vi ucciderà. Non preferite essere liberi?... no? Detto in altra forma: da che parte state? vi piace davvero tanto vivere appesi al parere di critici e editors che nel migliore dei casi sono semplici impiegati, nel peggiore battitori di testi a pagamento? schiere di epigoni, decine di "poeti" affermati siedono sui loro scranni amministrando "potere culturale" (che orribile e rivoltante ossimoro: la cultura è per definizione rivoluzionaria), e tutto quello che riuscite a immaginare guardandoli è di prendere il loro posto? una rivoluzione comincia quando inizi a pensarla possibile e finisce quando ti fanno credere che non ci sarà mai. Che ognuno prenda la sua strada. Ci sarà spazio per tutti, ma almeno si vedrà davvero chi osa, chi attacca, chi in questo trapasso già in atto di civiltà sottopone la lingua a "oltranza e oltraggio" e chi continua a proporre tritissime banalità nascondendosi dietro l’alibi della Grande Madre defunta, la Poesia


L’ARTE DEL MELOLOGO
2011-05-17 09:45:31|di Lou

Brava, Rosaria. Dividersi in parrocchie, partiti, tifoserie, mi sembra rimasto l’unico divertimento di un panorama di poeti cui non frega niente di farsi "società" (e stretta, magari) e soprattutto in cui pochissimi - a parte te - si degnano di entrare nel merito delle questioni.
E a proposito di multimedialità coatta, qualcuno mi spieghi per favore perché necesse allegare al bel libro di Azzurra D’Agostino "d’aria sottile" il cd di Kay McCarthy...


L’ARTE DEL MELOLOGO
2011-05-16 22:45:40|

per l’appunto!


L’ARTE DEL MELOLOGO
2011-05-16 18:36:00|di daniela tamborino

....poesia "vera" e poesia "performativa"?
contesto in radice la distinzione.
Se fosse vero, tutti i greci e i latini (da Omero a Saffo in avanti), con la loro poesia metrica fatta per essere recitata e accompagnata da musica e danza, ricadrebbero tutti nel "moderno" concetto di performer.
Per non parlare dei poeti dal Duecento in poi (ivi inclusi settecento e ottocento) che andavano di corte in corte (o di circolo letterario in circolo letterario) a declamare i loro versi.
Ben lo sapeva Arthur Rimbaud che quei circoli contestò.
Il che dimostra che l’ unica poesia è sempre stata ab origine quella performativa, e che la poesia vera semplicemente non c’è, o meglio se l’ è inventata l’ editoria moderna.


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