Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

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L’IMPOSSIBILE RESURREZIONE

nulla crux nulla corona

Articolo postato mercoledì 21 giugno 2006
da Nevio Gambula

«Per salvare il teatro bisogna distruggere il teatro: gli attori e le attrici devono tutti morire di peste» ELEONORA DUSE

per Anna che cammina di traverso

Abito questo luogo appartato, abito questo corpo in affanno, corpo viscido, infetto. La mia carne è la mia città. Città in agonia, città di letame, con strade luride, strade dissestate, abito queste strade mestruate, dove batte forte il ritmo della tortura, strade di forza e paura. Abito questa carne ruvida. In disparte, faccio del mio corpo la mia musica, del mio corpo dolorante. Canto il baratro, il fondo e l’abisso, canto il sogno e la meta lontana, e poco importa se mai ci arriverò. Esausta, all’alba d’un giorno inesauribile, sempre meravigliosamente in ritardo, allo stremo, contagiata dal terribile, e definitivamente fuori-rotta, canto. Canto la mia devastazione.

Lingua, lingua tremula, lingua che oscilli in ‘sta bocca-tana, che cosa vuoi che m’importi delle spume tenere o delle verità capite e approvate? Lingua di brace, davvero, in te vogli’ora germogliare. Splendido è il crepitio del tuo fuoco, non posso negarlo. Limpido è soltanto il mio desiderio, e in me non abitano parole eleganti. Lingua opaca, nebbia furiosa, inferno e flagello, piaga, ferita, lingua di fantasia, radicale lingua di fango. Posso mostrarti solo così, con voce spezzata, come farfugliando, con le labbra ricolme del tuo vomito, lingua di cartapesta, così, appena udibile o gorgogliando in un pandemonio agghiacciante di suoni, così, come pioggia rovente. Lingua che mi divora. Canto la mia dissoluzione.

Nata ieri, morta subito. Uccisa per mano di mia madre, la disgraziata, che volle a tutti i costi farmi uscire da quel tunnel ricoperto di peli, l’assassina. Costretta a vivere, e ammantata di tenebra, mi sono messa a fare finta di essere un’altra, a recitare. Fui attrice, già da allora, fin da quando il grembo di mia madre, anziché distillare il solito sangue, espulse questa fragile carne, la mia carne piena di rughe, questo grumo inesploso, d’odor cattivo e repugnante, attrice storpia e inadeguata, terribilmente nuda. Nacqui col freddo in bocca. Nacqui mangiatrice dei miei sogni, o come cancrena di me stessa, balbettante. Eccomi attrice, maschera della morte. Canto la mia decomposizione.

I vostri soldi sono del tutto fuori luogo. Non vado a tempo e la mia gola è gonfia d’un fiato inesausto. Ampolla ereticale, ventre grottesco, minuetto delirante, eccomi malata di teatro. A che scopo? Il mio scopo è non avere scopo. Bisogna ch’io rida, e rido col ghigno. Filastrocca ardente, di ghiaccio, questo ghigno è il mio cancro. Bisogna ch’io pianga, e piango lacrime che mi squarciano il viso. Prolungato lamento, sbranamento e inciampo. Bisogna ch’io sembri, ed io sembro la serpe che s’annida nel petto. Sibilo giocondo, morso informe, o urlo sudicio. Canto la mia decadenza.

Potevo essere diva, piccola guitta senz’anima, e abituarmi al gemito delle folle ... Potevo accettare il ruolo di attricetta cinematografica e morire in un cliché prefabbricato. Ne sono capace, guardate, ecco guardate le mie anche: guardate come si muovono: illusione pura, nudità ingannatrice; è facile illudere chi guarda, attirandolo in una trappola dove il desiderio è sublimato, mai esaudito, e dove le stelle sono una menzogna. Questa non è la vita, mi sono detta. La vita è l’acciaio del reale, il respiro è duro e ogni passo è di sangue. E poi, io sono morta. Il mio gorgoglio è senza vita, senza la dolcezza dell’esistere, senza il sublime dell’esserci. Ho imposto al mio essere il divenire della morte, il suo diluire nel silenzio. Mi squaglio mentre mi guardo tramontare. Canto il mio sfacelo.

Ogni mio passo è un passo di danza. Ogni mia parola un accenno di canto. Prendetevi questo scherzo irridente. Il calore del mio corpo s’irradia senza luce su questo palco esiguo, senza vincoli la mia carne cerca la sua libertà. Volete partecipare all’orgia? Entrate. Ma attenzione: qui mancherà tutto, mancherà l’orgasmo e anche la catarsi. Qui si può solo mancare il bersaglio. Cosa vi aspettate? Non lo troverete. Il contagio del sangue, il ribollire del supplizio, l’elevarsi del tormento, il ritmo dell’inabissarsi, il sapore del veleno, la morte dell’armonia, il suicidio del personaggio, l’enigma del senso, la congiura del verbo, l’esplodere della rappresentazione, l’arresto d’ogni narrazione, l’uccisione di ogni impegno e di ogni messaggio e di ogni consolazione ... Canto la mia rovina.

Il caos è l’unica sinfonia che riesco ad ascoltare. Suono ciò che ascolto, ascolto ciò che suono. Sono da me il mio caotico concerto. Sono la morte del dramma, la morte decisiva. Recito col suono del mio sangue. Recito la morte, solo la morte, e canto i corpi abbandonati ai corvi. E le minacce e la tenebra e le genti nemiche, canto la lotta furibonda. Io su questa rocca, unica superstite. Ho scordato la mia vita, e per questo recito. Sono la più giovane, la meno forte dei figli della terra, eppure il mio braccio regge scudo e lancia e di sangue mi nutro, del sangue dei morti che per bramosia dell’oro caddero, per tenerselo stretto, l’oro, e si sgozzarono tra loro, per l’oro. Canto la mia voragine.

Dove vorrei trovarmi? Al Palazzo di vetro, con la mitraglia in mano. Al Colosseo, in compagnia del mio bersaglio preferito. Alla Casa Bianca, per aprire il ventre dell’unico guardiano. Ai piedi di Madre Teresa, per avvolgerla di speranza prima di massacrarla con l’ascia. Tra le cosce della Piazza Rossa, per vendicare Majakovskij. In fondo al mare, per annegare respirando. Alla sommità del gorgo, per traboccare insieme alle acque. Vorrei stare nel torto, senza raddrizzarlo; nel diritto, per tirare un manrovescio al commovente capo del governo; nell’incendio, per godere del tuo grido di dolore; nell’orgasmo, al culmine delle pulsazioni. Vorrei essere nella sirena d’allarme e convocare la fine del mondo al mio cospetto. Io la peste, io la sventura, io il girotondo che fa cascare il mondo. Canto la mia deportazione.

Moda, denaro, lavoro ... Mi godo il paesaggio, ora. Guardo dall’alto i frutti del massacro, ora che giaccio su questa rocca e i flutti dell’onde guardo priva di lacrime. Ah, che fortuna!, che fortuna poter guardare tutto ciò senza patirne. Lascio a voi il dolore del mondo, io vivo nella catastrofe. La catastrofe è l’unico mio amore. L’unica verità. L’unico poema. Vi reca sgomento il mio dire? Vi spaventa la mia ombra? Scusatemi, ma davvero non m’importa. O fanciulle mai nate, reggete questo corpo, stringetelo ai vostri seni, ch’io possa goderne prima che la freccia m’apra il core! O fanciulle, amatemi con leggerezza, questa notte stessa, prima che l’ingordigia degli uomini mi renda preda per cani! Ciarlatani, preti, potenti, scrittori, allontanatevi da me. Il mio corpo non è cosa che possa piacervi. Io sono fatta per i deformi, per quelli senza linguaggio, per gli estranei, per i dementi, per i rivoltosi, per i senza dio, per gli sconnessi, io sono fatta per quelli che vogliono uscire dalla gabbia. Io non ho segreti, vedete? Ho trucidato ogni delizia. I vostri pensieri? I vostri lamenti? Non mi riguardano. Siete con la testa nel fango? No, non credo. Più vi guardo e più vedo in voi i giusti che si vendono per denaro. Io sono una poesia avvelenata. Non sono fatta per chi stende i panni dei lapidati, dopo averli saccheggiati. Grazie, ma non mi serve la vostra acqua. Piuttosto vi ruberò il vino. La vostra visita è inopportuna. Ma visto che ci siete, voglio deliziarvi con la mia ira. Canto il mio clamore.

Io mi rallegro del sangue. Io sono il Moloch dei profeti. Sono il segno della disobbedienza. Io sono il primo assassino. Sono colei che fa sacrifici di sangue, che ama bere del sangue, il sangue delle vittime. Non ho grazia, solo odio e disprezzo. Non ho amore, solo prigionieri di guerra da possedere. Chi siete, voi, per decidere cosa dovrei dire o scegliere? Sono venuta al mondo con la spada in mano, per portare guerra agli umani. La strage è l’unica cosa che mi rende felice. Ogni mia parola è una marcia funebre. Ogni mio gesto un urto contro lo stabilito. Se apro le mie cosce ad un uomo è per renderlo servo del mio furore. Ho corrotto dieci bambini. Ho ingiuriato cento sbirri. Ho interrotto il comizio di mille ministri. Non ho seguaci, non ho alleati, non ho amici. Il manicomio? Mai frequentato. Il carcere? Ne ho bruciato uno, l’anno scorso. La camicia di forza? Un angelo ci ha provato, prima che lo sbranassi. La chiesa? Carbonizzata. La scuola? Saccheggiata. E un giorno, un uomo dalla parlata vellutata, osò addirittura propormi un lavoro in uno spettacolino della merce fatta bella ... Conservo ancora il ricordo degli occhi che gli cavai, prima di ingurgitarli dentro un bicchiere di grappa. Ospedale, teatro, cinema, convento, stadio, non c’è posto al mondo in cui non apparvi completamente nuda, dapprima per farmi ammirare, poi per diventare portatrice di morte. Canto la mia bellezza.

Oh, Tersite, unico ch’io possa amare, dove sei? Perché non riappari, tu, ciarlatano, tu deforme e calunniatore, appari, amore mio, questa donna ti desidera, ora, non aspettare, vieni, Tersite, tu che sei stato l’unico capace di rimbrottare i principi, tu, mio piccolo segreto, appari, sono pronta, le mie cosce, il mio ventre, tutto di me ti aspetta ... Niente. Vedete, il mio richiamo si perde davanti ad una comunità che ha perso ogni capacità di fondarsi nella disperazione. Sepolto Tersite, resta Marco Paolini. Resta, per le anime candide del buonismo, Ascanio Celestini. Dovrei sopportare? Meglio fare massacro. Mi rivolgo al mare, da qui. "È nel mare che vale, assoluto, il principio di distruzione". Non c’è dottrina, non c’è credo o ideologia che mi soddisfi. Solo il rumore del mare ... “Mare, mare, preferisco il rumore del mare / che dice fare e disfare” ... Canto la mia mareggiata.

Écrasez l’infame ... Estirpare l’infamia ... Mutilare l’oppio dei popoli ... Estinguere l’illusione ... Abolire l’armonia ... Rovesciare la vita ... Punire l’alienazione ... Ingannare la proprietà ... Seppellire il denaro ... Stordire il servilismo ... Sopprimere i catenacci ... Imbavagliare lo strillo domenicale ... Giustiziare il decoro... Dimenticare le tariffe ... Evitare la perfezione ... Massacrare la logica ... Rifiutare l’ordine ... Disconoscere l’angelo custode ... Uccidere il Dio-inganno ... Svelare la menzogna-Dio ... Sovvertire il Dio-istituzione ... Canto la mia meschinità.

La pace è sospetta. Chi sono io per dirlo? Nessuno, ma lo dico lo stesso. Alzate le vostre preghiere al cielo, se volete. Io poserò il mio piede sul vostro capo. Lasciarmi stordire dalle favole? Istupidire dalla muffa spettacolare? Scorra sangue! No, questo non è un mero esercizio vocale. È lo spirito della rivolta ad animare questo mio fiato. Io esplodo in mille scintille, al di là di ciò che è. Io senza trono, senza speranza, senza pace, senza croce. Epifania o apocalisse? Io il coltello che insiste nella ferita. Io senza pazienza. Io senza teoria. Larva che si decompone, io farfalla nata morta, io che non penso volentieri, che soffoco irriconoscibile, io carica di dinamite, a vele rigonfie cerco il mio mare. Io sono “la sofferenza che non vuole rimanere tale” ... Canto la mia occasione.

Lupo o leone, che importa? Dalla mia bocca è svanito ogni scopo, il mio dire è senza fine, e il mio senso, l’unico mio senso, è questo mio corpo. Non più serva, ridotta a misera carcassa, senza pubblico, mi consumo in questa nausea, pronta a essere ricacciata nel nulla del buio. Sono morta, sono nata morta, clinicamente morta. Io sono un esperimento. Hanno prelevato il mio corpo all’obitorio e l’hanno messo sopra un palco, finché mi hanno donato la parola. Questo grido è poi diventato sospetto. Volevano che mi esprimessi con delicatezza. Mi sono allora messa in disparte, di traverso, senza per questo fuggire. Mi sono servita dei loro intrecci, rovesciandoli. Ora parlo la mia lingua. Là fuori c’è una forca già pronta per me, lo so. Bene, non voglio farli aspettare. Può morire un già morto? Ma la mia morte è il mio esodo. È la mia aperta negazione. È il mio raggio di sole. Ogni morte ha la sua vita nel sangue ... Canto la mia morte vitale.

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