Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

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Redatta da:

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L’IMPOSTURA “MITOPOIETICA” DI D. H. LAWRENCE #2

Articolo postato martedì 3 ottobre 2006

Agli occhi di Lawrence il più elevato e nobile traguardo che l’uomo possa prefiggersi consiste nell’appartenere all’immanità organica dell’universo, nell’essere cellula di un corpo sempre perfettamente e assolutamente vivo, soggetto/oggetto di «un desiderio che è carne e sangue e non si affida ad altro che al proprio viaggio» (14): si comprende allora come l’ossessione nostalgica di Lawrence per la (presunta) rotondità autoriflettente del paganesimo ignori o voglia nascondere l’inquieto vuoto notturno, la lunga ombra dell’indifferenziato primario sulla cui linea si mantiene in bilico la memoria della vita e della morte. Sottrarsi al pensiero del niente-in-comune implica già di per sé uno scivolamento nel nichilismo, poiché è proprio la negazione del nulla, dell’altro in quanto fondamento del tutto, a implicare l’annientamento dell’essere, l’avanzata del deserto. Si veda allora con quale paradossale ma inevitabile movimento di rotazione sul proprio asse l’universo pulsante concepito dal vitalismo lawrenciano possa all’improvviso ribaltarsi in un’allucinatoria waste land dominata dall’onnipresenza della morte: «Il Cosmo non è altro che l’aggregato dei corpi morti e delle energie degli individui trapassati. I corpi morti si decompongono, come sappiamo, in terra, aria, acqua, calore, energia radiante, elettricità libera ed innumerevoli altri fatti scientifici.» (15). Come la comunità macrocosmica ipotizzata da Lawrence costituisce soltanto l’inversione speculare del soggettivismo, allo stesso modo nel vitalismo che la caratterizza così vistosamente è dato scorgere, e il testo appena citato lo dimostra bene, la faccia nascosta di una costante ossessione per la morte: anche in queste righe, voglio dire, continua a parlare, sia pure antifrasticamente, il fanatismo moderno dell’incompiutezza, l’orrore impregnato di attrazione necrofila per la putrescenza, per la dissoluzione finale nell’inorganico. Partendo da tale premessa è più agevole vedere anche come il tradizionalismo patriarcale di Lawrence, inevitabilmente minato da questa contraddizione non risolta, dia luogo a un raffinato e però indiscutibile integralismo fallico le cui radici affondano non nell’incomprensione ma nella profonda intuizione della natura e della potenza dell’Incompiuto tellurico. Perciò l’atteggiamento maschilista che esponenti del movimento femminile come Simone de Beauvoir e Kate Millet hanno rilevato in Lawrence va considerato soprattutto la riprova della paura e dello sconcerto accusati dallo scrittore davanti a un rinvenimento archeologico di stampo bachofeniano che attesta l’esistenza di un genere inaudito di sovranità (che per comodità e non senza il pericolo di essere fraintesi è possibile dire “matriarcale”). Perché è indubbio che quando Lawrence riflette sulla civiltà e sull’arte etrusca giunge molto vicino all’essenza non bianca, non razionalista, della tradizione lunare e acefala di cui gli Etruschi furono tra gli ultimi eredi prima che prendesse avvio, con le conquiste dei Romani, l’”occidentalizzazione” del mondo (16). Nella communitas la cui storicità viene intuita da Lawrence la sovranità non si esprime in modo imponente e monumentale ma, come mostra simbolicamente la struttura dei piccoli templi etruschi, con la calma di una leggerezza remota e contemplativa che non ha nulla di epidermico o di oggettivo (nulla, insomma, che rimandi al frenetico, servile «mondo delle opere utili», direbbe Bataille (17)). Ma ciò che lascia stupiti è che perfino nella sensualità notturna e impersonale degli Etruschi da lui stesso riconosciuta (18) Lawrence decide di vedere, come gli è consueto, un’espansione dell’energia luminosa e un imporsi della «maturità della conoscenza fallica» (19)! La rimozione della comunità lunare aborigena e la mascolinizzazione dell’indifferenziato-magico anteriore alla nascita antropomorfica del mito patriarcale, solare, illuminista (20) procedono dunque di pari passo con quella comprensione impaurita della forza femminile da cui l’eloquenza di Lawrence trae alimento. Ecco perché alcune annotazioni dedicate alla religione etrusca valgono più come sintomo dello shock che cercano di nascondere che non per i loro contenuti positivi (e aggiungiamo pure, “propagandistici”): «Era lo stesso cosmo vivente, complesso nella sua luce abbagliante e nel suo poderoso respiro, che era divino e poteva essere contemplato soltanto dalle anime più forti, e soltanto per brevi attimi. E soltanto le anime senza pari potevano attingere un po’ di fuoco alla vita cosmica. In tal caso si aveva un dio-re» (21). L’istante sovrano in cui il Soggetto si libera di sé per accedere alla vita comunitaria, entrando in una dimensione ignota come il tuffatore di Paestum, non può essere illuminato dalla coscienza, non può chiarificarsi alla ragione, perché ciò che esso esige è un atto gratuito (e insieme non razionalmente saggio) di folle spreco. Lawrence invece continua a differire la caduta verticale di questo istante, pur presagendone la dirompenza, continua a proteggersi, a risparmiarsi, sostenendo con la consueta petizione di principio che la vita, la passione, la consapevolezza dell’universo appartengono all’Identico celeste: «Al tuo plesso solare sei conscio in modo primario: là, dietro il tuo stomaco. Là possiedi la profonda ed originaria consapevolezza che tu sei tu (...) Là è la sede della tua prima e più profonda consapevolezza. Là sei trionfalmente consapevole della tua propria esistenza individuale nell’universo. Là in assoluto vi è il torrione e la roccaforte centrale del tuo io-cosciente trionfante» (22). Intimamente connessa al primato della luce mi pare l’importanza centrale, determinante, conferita al logos, all’arma ambigua di Apollo che, da quando la divinità solare ha usurpato le prerogative del principio materno, è in grado di restituire la vita a ciò che appare sepolto in un torpore irrevocabile: «Ecco quello che m’interessa. Le radici che penetrano a fondo, al di là da ogni distruzione. E le radici e la vita ci sono. Sono pronte. E non occorre altro che la parola, perché la foresta risorga. E qualcuno, tra gli uomini, dovrà dire questa parola» (23). È attraverso l’opera della parola risanatrice che si consuma la rivincita di Quetzalcoatl, il cui processo di individuazione e immunizzazione viene interrotto dall’intervento della Dea Madre che lo riconduce nell’indifferenziato facendone il suo amante (24); anche la lotta con il serpente terrestre ingaggiata da Kate va letta proseguendo su questa stessa direttrice paradigmatica: «Eppure bisognava rinascere. E vincere la battaglia con la piovra, col dragone della esistenza degenerata e informe, per giungere a questa dolce fioritura dell’essere che il minimo contatto contamina» (25).

4. Lawrence non abbatte il potere di Roma ma con un gioco di prestigio ne sposta l’ubicazione dall’esterno del nomos all’interno dell’io: un’interiorità (o un’anteriorità) imperiale (26) che non coincide con la coscienza intellettuale o morale ma con quella estetica e mitopoietica, rimanendo comunque (è qui il punto cruciale dell’intero discorso) un Identico, un Soggetto forte. Alle spalle del mondo e del cogito si configura un Ego metastorico svelato e narrato in modi diversi presso i diversi popoli grazie alla mediazione di eroi-sacerdoti fondatori: «Mi piacerebbe che i tedeschi pensassero di nuovo secondo i termini di Thor e di Wotan e dell’albero Igdrasil. E che i celti tornassero a vedere nel vischio il loro mistero e ch’essi medesimi fossero i Tuatha De’ Danaan, vivi, ma sommersi. E che un nuovo Hermes riapparisse tra i Mediterranei, e un nuovo Astarotte a Tunisi, e Mitra in Persia, e un indomito Brama in India, e il più antico dei draghi in Cina (...) Il mistero non è che uno, ma occorre che gli uomini lo vedano in maniere diverse» (27). L’unità essenziale del molteplice che si realizza su di un simile piano noumenico può riguardare soltanto i pochi che accedono al logos xynòn, non la folla degli exoterici: un’incongruenza analoga è riscontrabile nelle sociologie elaborate dal tradizionalismo elitarista, che concepiscono comunità piramidali unite al vertice invisibile ma separate alla base come l’asvattha, l’albero capovolto indiano, con le radici poste in alto e i rami protesi verso il basso. È però evidente come questa originaria separazione di attitudini, che nelle civiltà indoeuropee prelude alla distinzione dei privilegi assegnati alle caste, rientri a pieno titolo nel canone patriarcale: ha senso allora ritenere che tale verticalizzazione della memoria, del rapporto con il divino, comporti anche un “tradimento”, o comunque un misunderstanding, dell’essenza della letteratura? E questo non perché la letteratura abbia a che vedere qualcosa neppure con il polo opposto dell’”orizzontalità”, ma in quanto la sua essenza si presenta come movimento di uscita dal mondo già dato, dallo spazio orientato e gerarchico della verità diurna: un gesto che Lawrence, troppo legato al versante della manifestazione, al momento dell’irradiazione cosmogonica, vieta a se stesso di compiere, quasi che il non-manifestato impersonale fosse an sich un puro nulla di cui temere l’irruzione. Per “non-manifestato” intendo invece la notte, lo zero che sfugge al progetto della creazione divina e alla maledizione del lavoro umano, disegnando il loro confine invalicabile. L’àmbito dell’individualismo, come quello speculare della comunità, è il nulla del dolore, della violenza, della volontà di morte; esso presuppone una vittima da sacrificare per sostenere l’unanimità e accrescere la propria identità. Ma se la violenza è in ogni comunità condizione di esistenza, ciò vale a maggior ragione per il macrosoggetto patriarcale, per la comunità degli identici: ed è questo modello politico, di cui Lawrence percepisce in maniera nitida la crisi (intrecciata, certo, con la personale sofferenza fisica dello scrittore), a venire inseguito continuamente, ossessivamente, nei suoi testi. Si pensi per esempio al breve romanzo La donna che fuggì a cavallo (28), di cui è protagonista una donna americana che vive in Messico con il marito, di vent’anni più anziano di lei, e i figli. Prostrata nella capacità di resistenza nervosa, la donna fugge da sola, finalmente da sola, via dall’uomo bianco e dal suo Dio astratto, alla ricerca di una primordialità tribale ancora non raggiunta e intaccata dal cristianesimo: ma dopo essere stata accolta tra gli indigeni (di cui Lawrence sottolinea la mascolinità oscura e viscerale) e avere espresso il desiderio di conoscere i loro dei, la donna è sacrificata dal sacerdote più vecchio in una grotta, e proprio quando questa viene significativamente invasa dal sole, per dare forza alla comunità e consentirne la perpetuazione. Perciò nessun dubbio può sussistere sul fatto che l’emancipazione, l’indipendenza femminile dall’inerte maschio moderno disprezzato da Lawrence venga sì incoraggiata ma solo perché si dimostra funzionale, come il carnevale, alla reintegrazione dell’arcaico, identificato in toto (e, lo ribadisco, arbitrariamente) con la società fallica al culmine del proprio splendore. È del tutto impossibile credere che l’”Osiride restaurato” a cui agogna Lawrence possa rappresentare «l’unica mitologia positiva da opporsi all’inquietante e onnicomprensivo mito postmoderno dello smembramento di Orfeo» (29) e non, piuttosto, il suo rovescio, l’ombra affermativa, il sigillo.

Note

14) G. CONTE, cit., alla p. 78. 15) D. H. LAWRENCE, Fantasia dell’inconscio e psicoanalisi dell’inconscio, trad. it, Roma 1995, p. 124. 16) D. H. LAWRENCE, Luoghi etruschi, cit., p. 41. 17) G. BATAILLE, La sovranità, trad. it., intr. di R. Esposito, Bologna 1990, p. 69. 18) Cfr. ad es. D. H. LAWRENCE, Luoghi etruschi, cit., p. 71. 19) D. H. LAWRENCE, Luoghi etruschi, cit., p. 37. 20) Obbligatorio il rimando a M. HORKHEIMER-T. ADORNO, Dialettica dell’illuminismo, trad. it., intr. di C. Galli, Torino 1997, 4° ed., pp. 11 sgg. 21) D. H. LAWRENCE, Luoghi etruschi, cit., pp. 76-77. 22) D. H. LAWRENCE, Fantasia dell’inconscio..., cit., p. 33. 23) D. H. LAWRENCE, Il serpente piumato, cit., p. 97. 24) Per l’interpretazione del mito azteco cfr. E. NEUMANN, La Grande Madre. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell’inconscio, trad. it., Roma 1981, pp. 205-210. 25) D. H. LAWRENCE, Il serpente piumato, cit., pp. 69-70. 26) Sul concetto di impero interiore cfr. A. DE BENOIST, L’Impero interiore, trad. it., Firenze 1996, p. 143. 27) D. H. LAWRENCE, Il serpente piumato, cit., p. 304. 28) D. H. LAWRENCE, La donna che fuggì a cavallo, trad. it., introduzione di S. Zecchi, Milano 1980. 29) S. ALBERTAZZI, Introduzione a Lawrence, Roma-Bari 1988, p. 142.

Immagine: D. H. Lawrence, Leda, 1928

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