Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce

Redatta da:

Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.

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L’IMPOSTURA “MITOPOIETICA” DI D. H. LAWRENCE #1

Articolo postato martedì 26 settembre 2006

1. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, D. H. Lawrence (che, osserva Burgess, pur non essendo chiamato alle armi ne vive gli eventi come un grave trauma (1)) replica alla «colossale idiozia» che preannuncia il tramonto dell’Occidente nel segno del nazionalismo e soprattutto del trionfo della tecnica, con il progetto di un’Isola-rifugio, di una comunità di eletti che, si legge in una fiduciosa lettera del 1915 indirizzata a un’amica, «sarà per noi il punto di partenza d’una vita nuova» (2). All’idea di fondare Rananim (questo il nome ebraico scelto per la piccola comunità) Lawrence rinuncia però ancora prima di tentarne una traduzione concreta: non soltanto perché da parte dei potenziali compagni si frappongono fatalmente ostacoli insormontabili di carattere e temperamento ma anche per l’irrigidimento dello scrittore stesso (3), ciò che fin dal principio condanna il progetto al fallimento. Al di là delle solite questioni personali, c’è qualcosa, in questa utopia palingenetica e comunitaria, che non “funziona” come dovrebbe: il progetto si sviluppa sotto l’egida di un rifiuto drastico e insistito dell’individualismo, dell’io utilitario borghese con quel suo «morboso fanatismo dell’incompiutezza» (4) che preclude all’uomo e alla donna moderni la possibilità di amare (5). In modo altrettanto drastico risuona il no opposto alla tecnica, considerata la massima espressione dell’individualismo e del declino spirituale dell’Europa, entrambi legati a doppio filo all’affermarsi progressivo dell’astrazione e dell’intelletto scientifico; tuttavia, bisogna aggiungere, l’evidente intransitività di una simile posizione viene aggirata e sublimata da Lawrence, e senza mediazioni, nello stesso momento in cui è enunciata, trasformandosi nella visione utopica di un futuro “sacro” e selvatico che assisterà alla sconfitta della macchina: «Ah no, la macchina non trionferà mai. / In certi cuori ancora i templi della / vita selvatica sono intatti» (6). Questa fede nella contrapposizione tra natura e cultura, risolta a vantaggio della prima contro la hybris tecnologica della seconda, si nutre principalmente di insoddisfazione biografica, di finta allucinazione e finta nostalgia per mondi in apparenza morenti o perduti: e senza voler negare che, pur nel suo movimento a ritroso, Lawrence abbia sempre uno sguardo rivolto all’avvenire, è vero che il sogno dello scrittore si scontra frontalmente non con la verità prosaica della storia ma con la sua stessa intima falsità, con il fatto che non di un vero sogno si tratta ma di una posa, per quanto estremamente raffinata. Perciò il fallimento di Rananim non ha niente a che spartire con il destino “rivoluzionario” dell’arte, che coincide con il pensiero dell’impossibile, con il silenzio strappato anche solo per un istante alla monotonia del divenire; non ha niente a che vedere con la delirante lacuna fondativa della letteratura e neppure con le piccole nevrosi dell’uomo, che sono comunque più rispettabili di qualsiasi messa in scena. Anche il pacifismo, come pure l’intenzione di “combattere” i misfatti della tecnica e di gettare le fondamenta di una comunità estranea agli ukase della merce con il richiamo alle civiltà antiche e al Terzo Mondo (possiamo seguirne il filo dipanato lungo l’intero lavoro di Lawrence, e non soltanto nei romanzi più noti), sono lontanissimi dalle proposte di un Serge Latouche, per citare la mente migliore del movimento new-global. E tutto ciò non tanto perché la poetica politeista di Lawrence non ospiti in effetti motivi apertamente regressivi, ma perché tutto in essa suona artificioso, floreale, convenzionale: «Da mille e mille secoli dell’uomo / le felci si dispiegano, mentre le lingue dell’acanto sciabordano nel sole, / per un secolo triste soltanto / le macchine hanno trionfato, ci hanno sbattuto / di qua e di là, hanno rinsecchito / la terra, scosso il nido dell’allodola / sino a spezzarne le uova» (7). A meno che non si venga frenati da pregiudiziali obsolete e da un razionalismo vecchio stampo, l’anello che non tiene, l’elemento che più suscita perplessità e riserve in seno al “sistema” di Lawrence non può essere la simpatia o l’interesse, sebbene sui generis, per le culture primitive ma la modalità con cui viene opposto al Soggetto della tecnica un altro Soggetto che a un grado ontologico non più elevato ma, per così dire, soltanto più snob ne ribadisce lo stesso linguaggio di dominio. In Lawrence l’io non scompare, ma si ritira, si cela dietro un’apparenza di infuocata negatività (l’incendio, ovvio simbolo dell’energia vitale che resiste alle malattie e alla morte, non è che una metafora dell’ego) da cui è fondamentale non lasciarsi illudere e fuorviare: «E io, che specie di fuoco sono io, tra tutto/ questo bruciare della primavera? Sono quello che manca,/ io. Neanche pallido fumo come il resto della/ gente, meno del vento che corre al fiammeggiante/ richiamo» (8). A dispetto di questa ennesima messa in scena, Lawrence, ed è qui che scatta il cortocircuito immanente alla sua critica del Moderno, non supera mai la metafisica dell’Individuo e la deriva immunitaria che rimarcano il tratto forte del nichilismo, limitandosi piuttosto ad aggirarle, accoglierle, declinarle entrambe secondo le linee di fuga di una prospettiva diametralmente capovolta rispetto al Canone e dunque essa stessa canonica. Lawrence non arriva mai a rompere le catene di Ananke per essere vissuto dalla libertà, a nutrirsi del ricordare, dell’Andenken, come premessa a un vedere prospettico: ma in quali termini avviene, e come si estrinseca, questo processo di neutralizzazione del dono (e della libertà)?

2. Non è casuale che alla concreta e tragica evidenza del tramonto in atto, percepito con istinto infallibile, Lawrence reagisca con un’idea di comunità inserita pur sempre nel classico quadro teologico-politico del Moderno; partendo dalla constatazione che la tecnica, sulla quale aleggia sinistramente lo spirito di Seth, ha smembrato il corpo e rapito l’anima dell’Occidente-Osiride, la comunità lawrenciana rinasce (o meglio, deve rinascere secondo le intenzioni volontaristiche dello scrittore, destinate al fallimento proprio perché mosse dall’ossessione della performance), in nome della presunta “immediatezza” pagana, come animale cosmico, come macro-soggetto. Ma chi volesse cercare una via d’uscita dal paradigma della mitologia bianca, dalla monocoltura mentale, per ritrovare il contatto con la dea «dai molti frutti», la physis la cui ira è così temuta dai popoli tradizionali, non potrebbe riconoscere in Lawrence (nonostante la sua fede ostentata nella sacralità della natura) un autentico precursore. Perché non si tratta in realtà, come fa Lawrence, di racchiudere l’io, il desiderio, il corpo in una Persona di più ampie proporzioni, di inscrivere il cerchio inferiore in quello superiore, ma di infrangere completamente l’astratta sicurezza della figura chiusa. La contraddizione entro cui si dibatte Lawrence emerge da considerazioni come quelle che vediamo espresse nel Serpente piumato, quando viene descritta la danza di Kate con gli indigeni messicani («oscuri uomini di folla, non già individui» (9)): «Com’era strano, essere immersi nel desiderio al di là del desiderio, essere andati col corpo oltre l’individualità del corpo, con la scintilla del contatto esitare come una stella mattutina tra se medesima e l’uomo, tra il proprio più grande io di donna e il più grande io dell’uomo!» (10). È così che l’utopia di Lawrence non comporta l’estinzione dell’ego e il reale superamento del prologo in cielo all’egemonia della tecnica ma piuttosto un arretramento, una regressione ipnotica che finisce per sottointendere espansivamente il Soggetto senza abolirlo, in correlazione con lo sviluppo di una «poetica dell’ego anteriore» (11) tutta interna al pensiero dell’appartenenza, che impedisce a Lawrence di aprirsi sia pure faticosamente una strada al di là dell’individualismo moderno. Poco cambia se l’individualismo di Lawrence non faccia leva sulla categoria politica dell’uno-bene, sull’ideologia dello Stato o della Chiesa, ma si immagini una comunità anticonformista conciliabile con l’indipendenza del singolo, con la facoltà intangibile di disporre della propria solitudine. Non è per una più alta concezione della socialità ma per un malcelato egoismo che il Cristo-Dioniso protagonista de L’uomo che era morto può affermare la necessità dell’assenza, della non-partecipazione al flusso coinvolgente e coercitivo dell’oggettività: «Com’è bene ch’io abbia compiuto la mia missione e ne sia al di là! Ora posso essere solo e lasciare che il fico resti sterile, se vuole, e che il ricco sia ricco. Il mio modo di vivere non riguarda che me» (12). In simmetrica opposizione al comunitarismo integrale del diritto e dell’ipocrisia moralistica storicamente rappresentato (secondo Lawrence) dai Romani (13), la comunità fiorisce con l’impeto dell’inconsapevolezza creaturale, di una turgida esistenza vegetale che non conosce pause o fasi di stanca né i limiti dello spazio vuoto. Questa pienezza che non ammette l’angoscia dello spaesamento/spossessamento e annuncia l’impeto dell’ego anteriore (solo in apparenza lontano dal volgare, meccanico trionfo della volontà) fa di Lawrence non un fascista in senso stretto, come a torto pensava Bertrand Russell, ma piuttosto l’antesignano delle posizioni reazionarie sviluppate dalla Nouvelle Droite di fine Novecento nei confronti di un fenomeno complesso come la globalizzazione: sono infatti tematiche già lawrenciane il comunitarismo abbracciato dalla Nuova Destra in contrasto con l’individualismo (post)moderno, la riscoperta del mito e il ritorno alla sacralità della natura versus l’aridità del sapere tecnoscientifico, la critica al primato dell’economia, la teorizzazione dell’etnopluralismo e del “diritto alle differenze” in risposta all’omologazione neoliberale, il paganesimo “aristocratico” contrapposto polemicamente al cristianesimo “egualitario”.

[continua]

Note 1) A. BURGESS, La vita in fiamme, trad. it., Milano 1987, p. 85. Come è noto, Lawrence aveva sposato la tedesca Frieda von Richtofen. 2) Citato da P. NARDI, La vita di D. H. Lawrence, Milano 1971 (2° ed.), p. 463. 3) Cfr. P. NARDI, cit., pp. 478 e 541-42. 4) D.H. LAWRENCE, Il serpente piumato, trad. it. (di E. Vittorini), Milano 1969, p. 130. 5) D. H. LAWRENCE, Apocalisse in ID., Apocalisse. L’uomo che era morto, trad. it. a cura di S. Zecchi, Milano 1980, p. 111. 6) D. H. LAWRENCE, Poesie, a cura di G. Conte, Milano 1987, p. 92. 7) Ivi, p. 90. 8) Ivi, p. 30. 9) D. H. LAWRENCE, Il serpente piumato, cit., p. 159. 10) Ivi, pp. 159-160. 11) G. CONTE, D. H. Lawrence, in «il verri», 17, 1980, pp. 50-79, alla p. 65 (il corsivo è dell’autore). 12) D. H. LAWRENCE, L’uomo che era morto, cit., p. 137. 13) Cfr. D. H. LAWRENCE, Luoghi etruschi, trad. it., prefazione di L. Storoni Mazzolani, Firenze 1985, pp. 74-75.

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