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L’opera racchiusa, di Federico Federici

Premio Montano 2009 per la raccolta edita

Articolo postato martedì 28 luglio 2009
da Lorenzo Carlucci

propongo qui sotto una nota di lettura de L’opera racchiusa di Federico Federici (Lampi di Stampa, collana Festival diretta da Valentino Ronchi). il libro è risultato vincitore - ex aequo con La distrazione di Andrea Inglese (Luca Sossella, 2008) e Le omissioni di Ottavio Fatica (Einaudi, 2009) - del Premio Lorenzo Montano 2009 per la raccolta edita.

Nota di lettura

Omnis enim resurgemus, sed non omnes immutabimur (I Cor., 15, 51)

L’opera racchiusa di Federico Federici consta di tre sezioni, precedute da un esergo in russo e da un esergo in tedesco: “l’anima tema” (un esergo in tedesco più diciotto poesie), “radici scoperte” (un esergo in tedesco e in italiano più dieci poesie), e “come s’inoltra" (un esergo in italiano più sette poesie). Il libro è chiuso da una nota finale. I componimenti sono in verso libero e senza rima.

Si potrebbe dire che le tre sezioni corrispondano a tre componenti fondamentali che ci sembra poter individuare nell’opera di Federici: un’ansia escatologica radicata in una visione sconsolata dell’esistenza umana, cui il poeta risponde delineando due soluzioni. La prima è di natura metafisica ed ha la forma di una escatologia della luce, la seconda – di natura etica – è una filosofia del dialogo e della cura.

La prospettiva iniziale del poeta de L’opera racchiusa è una visione quieta ma sconsolata della vita e della morte umane, della impermanenza degli individui, della irreversibilità della successione temporale, della fragilità della memoria. L’esistenza umana scorre sull’orlo di un abisso: “gli abitatori del mondo addossati alla cruna dell’ago” (30) (con valenza anche morale, in riferimento al detto evangelico), “in colmo all’invisibile restano del mondo voci / e d’altri appena gli occhi; accolti in una turba scura” (25). Identico è il destino delle cose: “fan le cose cumuli sui margini del vuoto, vuote” (54). L’umanità è costretta in una morsa fatta di inevitabilità della fine, labilità della materia individuale, imminenza e quasi immanenza della morte. Gli “uomini occupati meglio in ciò che li tormenta” (26) sono presi ne “la trafila inconcludente delle cose” (53). Una tale visione è acuita dalla consapevolezza scientifica dell’autore (Federici ha una formazione da ricercatore in Fisica): “l’elencazione dei morti toglie il respiro” (30, enfasi mia), “mai nessuno perso nel conto della grazia” (24, enfasi mia). Come il mondo è stato creato “in misura e numero” (“omnia mensura et numero et pondere disposuisti” Sap 11, 21), così anche la morte. La successione dei vivi e dei morti – che formano per Federici un’unica fila (“qui tra i morti, vivi” (44)) – si staglia sullo sfondo di una cosmologia dominata dalla ciclicità e dall’eternità del mondo – e dunque dalla assenza di fondamento – “l’opera del mondo non ha fine” (39), e dalla irreversibilità del tempo (“noi / due tornati senza tornare” (50)).

In questa ciclicità l’individuo è condannato a vivere nella indeterminazione (“le tue spalle l’ombra che calpesti muta”, (41)) e nella perdita: le sue azioni sono destinate ad essere consumate nella “smemoratezza nostra” (20) e a non poter tornare.

Su un tale sfondo si leva sicura e chiarissima una interrogazione escatologica.

Le figure ricorrenti dell’attesa, del ritorno (reditus), tesi ad un finale ricongiungimento, ne sono un indizio: “da terra a cielo la perfezione è nell’attesa” (13), “credevo di ascoltare un tempo andato altrove / ritornare qui nel suono […]” (17), “[…] figura / che ritorna a farsi viva nell’immagine intravista, / solo ricongiungimento al caldo della luce” (19), “un’attesa grigia abita la nebbia / porta ai fianchi l’erba sulla casa / che ci aspetta, ma non è ritorno” (40), “io lo sapevo dal muro caldo di luce / che questa casa vuota ci aspetta” (51), “ciò che facciamo / insieme non si dà pace o ragione da sé / a ritornare” (51). La voce della morte e quella della vita sono una sola voce, che “[…] tutto e tutti indifferentemente / chiama al ricongiungimento” (20). Ma l’ansia escatologica di Federici si esprime anche assai esplicitamente in versi come “e danno l’impressione di sapere / già il futuro i morti […]” (37), e finalmente nella menzione de “la felicità promessa”.

Nel libro si delineano tanto una soluzione sul piano etico quanto una soluzione sul piano metafisico al problema che assilla il poeta: come sopportare la ciclicità del mondo o sottrarsi ad essa, come alla indeterminatezza della materia e alla irreversibilità del tempo? E, d’altra parte, nel tempo della nostra vita, “nell’andirivieni dei vivi” (30), come sfuggire alla solitudine e all’ansia che la coscienza dell’assenza di un fondamento della nostra individuazione (“uniti senza origine nel moto” (18)), della irrimediabile perdita del nostro irripetibile passato possono generare?

Federici disegna una escatologia strettamente intrecciata ad una metafisica della luce, forse di stampo neoplatonico. Accanto ad essa delinea una etica fondata sul dialogo e sulla cura.

La dialettica – neoplatonica - di luce e ombra percorre l’intero libro. “colta in luminosa piaga / dentro il fuoco: qui l’origine comincia in luce, nominata” 26, “nella stessa luce il volto avvampa, […] / la memoria buia” 54; “sulla pelle in luce li tortura l’ombra” 25, “credi, poi che di tutti i nostri gesti / cade l’ombra addosso ai muri” 22, “l’ombra sgrava il buio” 23. La luce si configura come un ente relazionale, e la sua azione, come in Plotino, presuppone il suo opposto, l’ombra, la materia: “nella verità del sole / che mi dà l’ombra” suona l’esergo alla sezione come s’inoltra.

Sul piano metafisico, la “felicità promessa” (29) sembra trovarsi in una comunicazione con una forma di luce quintessenziale e atemporale, che verrà fruita dall’uomo fuori dal tempo e indipendentemente dagli organi di senso: “la sempre viva luce senza fuoco, / la felicità promessa, data finalmente salva e senza causa / di dolore all’occhio che non serve più a vederla” (53). In due punti chiave dell’opera ritorna la menzione de “l’ago della fiamma”, figura dell’essenza della luce: nella prima occorrenza, “l’ago azzurro della fiamma” è una destinazione ineluttabile, il termine inevitabile che inghiotte la materia: “non tra noi / ricade l’ombra dove entrando il fuoco più si vuota / la materia prende a sé in un ago azzurro luce propria” (19); nella seconda occorrenza, invece, è la destinazione finale, luogo della salvezza e della rigenerazione delle forme: “[…] vieni invece all’ago della fiamma, / in luce, dove s’agita ogni cosa alla sembianza / mai avuta prima” (53).

Più che ad una consummatio nella luce, la “felicità promessa” dalla luce all’uomo, secondo Federici, è quella di una sua traduzione in riflesso e rifrazione indefinita nella composizione del creato. L’individuo è raccolto dalla luce, come un fiore: “qui […] un po’ di luce ancora ti raccoglie, poi riflessa non / vivente, ti consacra il giorno”. La luce raccoglie la materia d’ombra dell’individuo e lo “consacra” come eco nel mondo: “non la traccia vera - […]” (43) dell’individuo è conservata, bensì il riflesso, la eco. La luce è pure una figura del ritorno. Il ritorno è impossibile, la materia decade e il tempo è irreversibile. La luce è però una figura del ritorno, è la natura che vince il tempo. La luce determina la durata della materia e insieme libera - nel riflesso (nella eco, nel canto) - la materia dalla durata, facendo durare l’eidos, (la sembianza, la apparenza, “non la traccia vera” (43)) e in esso l’individuo, oltre la materia signata che ora lo individua. Allora gli uomini possono essere come le stelle, visibili anche dopo la morte, consegnàti ad una comunicazione universale.

La metafisica della luce è in Federici dunque una metafisica del riflesso e della riflessione, e perciò una metafisica della contemplazione. In questo senso è strettamente legata ad una concezione del canto e della voce, ad una idea (piuttosto classica) di poetica: “l’apparenza delle cose va da sé / dura bene viva nei riflessi d’aria”. La voce, come la luce, e nella voce il canto del poeta, estendono nella eco i limiti dell’esistenza individuale: “[…] materia al dire che ci nomina e riporta / via a memoria, scossi alla trafila inconcludente / delle cose” (53).

Il tono della poesia di Federici è sommesso, continuamente attenuato (“quasi”, “forse”, “per ora”, “appena”, “credevo”, etc.). La poesia è detta sottovoce, perché è intimamente dialogica, e invita il lettore ad una intimità, ad una prossimità.

Sul piano dell’etica, nella dimensione dell’affettività e della temporalità, la soluzione indicata dalla poesia di Federici, sta proprio nella prossimità, nel dialogo e nella cura.

L’invito alla cura è costante. Si esprime in motti programmatici: “tempo è di dare le mani nell’andirivieni dei vivi” (30), ma è già implicito nel lessico: e.g., in termini come “opera”, “scelta”, “coltivata”, “lavora”, “ripara”, “rifinire”, nonché nella predilezione per lemmi alti e talvolta ricercati (e.g., sempre “volto” piuttosto che “faccia”, “non veduto”, “colmo”, “adornata”, etc.). L’invito alla cura (ma pure l’escatologia della luce) è strettamente connessa alla riccorrente analogia tra uomo e pianta (nutrita di luce, bisognosa di cura): gli uomini sono “scossi come si riscuote / l’albero nei rami alti lungo i muri, lasciano cadere / polline e capelli […]” (25) e ancora si trovano a “[…] coltivare le radici / dei capelli […]” (40), “le ossa, i rami” (40). L’uomo partecipa dell’opera del mondo e la subisce. Ma quest’opera è perfettibile. L’invito alla cura è un invito alla partecipazione all’opera del mondo, alla stessa opera che ci disfa e ci rende sgomenti.

A questo invito alla cura si accompagna una sorta di ossessione per la misura, per la pienezza, per la perfectio, già evidente nel titolo della raccolta, e ribadita continuamente nel lessico: “rifinire l’anima” (13), “[…] più d’ogni altra / dài regolata la mano” (51), “piena di misurato respiro” (51), “com’è bella in aprile, già governata dal vento” (51), “scelta come l’acqua” (52). Quasi che l’esercizio e il rigore (lo studio) nella nostra vita fossero da considerarsi come atti di devozione verso una perfezione che ci assorbe e che ci contiene, rispetto alla quale saremmo, altrimenti, puramente passivi, come piante: “fra i trent’anni ed ora un amore solo, superato / con la morte, rosa dolce e chiara, scelta a fioritura / prima che divenga scura messa in terra e coltivata”, (55). L’uomo – sembra suggerire Federici – è insieme pianta e giardiniere: “sempre in grazie la radice al ramo cede l’acqua / sufficiente a reggere la rosa, poi s’aggiunge all’opera / la mano […]” (55). Il termine “opera” ricorre con grande frequenza: “opera” sono tanto il mondo come totalità quanto il corpo umano e le sue parti (“l’opera / dolce delle labbra”, (16)), e infine le azioni dell’uomo. È forse interessante notare come il termine “opera” comporti una connotazione di lavoro collettivo, che sarà centrale nell’elaborazione di un’etica fondata sul dialogo, di cui parleremo più sotto.

All’invito alla cura, a “fermare gli occhi, lo sguardo a chi trema”, sono credo da ricondurre pure l’attenzione e la particolare sensibilità che Federici dimostra nei confronti delle forme della devozione popolare, dell’apparato materiale della fede, delle pratiche del culto (“le mani agli altari - quelli delle figlie in sposa -”, “sta nei cuori l’atto di presenza il battito nel petto”). Forse questa attenzione è derivata dalla famigliarità dell’autore con la letteratura russa, ma sembra pure potervisi riconoscere un’altra figura della “cura”. I riti scandiscono il tempo della vita, conferendo al suo scorrere un rigore che non avrebbe altrimenti. Anche, sono una forma di collaborazione all’opera del mondo, intesa come opera di Dio. Sia chiaro: se ne fa un uso figurale. Federici è piuttosto risoluto nel voler condurre la propria meditazione in una dimensione puramente umana: “perché parlare ai numi? – ai padri i figli e i nuovi nati ai figli”. Desiderio per altro assolutamente coerente con l’attenzione alle pratiche cultuali, che costituiscono l’aspetto umano e tangibile della religiosità.

Il dialogo e la prossimità sono la “felicità promessa” per l’uomo nella sua dimensione sociale, relazionale. Il dialogo umano – la cui forma pura Federici riconosce nel dialogo amoroso da solo a sola – risolve il problema della impermanenza: “dura la tua voce umana a dirmi / che s’è persa la miriade e i colori” (42). La durata della voce umana testimonia della perdita inesorabile – del non poter durare – delle cose materiali, tra le quali l’uomo si trova compreso. Nel dialogo con la donna è possibile colmare “l’incolmabile divario che ti ha un’altra lì da me”. Ma in Federici l’amore umano è una approssimazione della perfezione ultima, della felicità promessa: “quasi in noi avesse tregua l’opera del mondo, la fortuna” (enfasi mia), “un andare quasi via dal mondo” (enfasi mia), “io lo sapevo, che il domani qui va oltre il tempo; forse l’amore” ( enfasi mia). Di là dal dialogo con la donna, il canto del poeta è il suo dialogo con gli altri e con il mondo. Il poeta deve “correre narrando a chi s’incontra di sfuggita”. Nel dialogo – che è sempre e comunque da solo a solo – è possibile l’oggettività, la liberazione dalla indeterminatezza della individualità. Nel dialogo, nella dimensione duale, nel mutuo riconoscersi e ricordarsi è possibile il ribaltamento del motto di Eraclito, perché in quel fiume, “noi vi entrammo già due volte per bagnarci”. Anche in questo caso, Federici non tende all’astrazione: il suo dialogo è bensì sempre concepito come inscindibile dai suoi supporti materiali: le “labbra”, la “voce”.

Nell’ultima sezione abbiamo la piena articolazione dei concetti salvifici di Federici: il dialogo e la luce. L’autore ci avverte che l’ultima sezione ha avuto origine in una serie di dialoghi realmente scambiati tra l’autore e “A.”. Ma Federici ha cura di darci questa indicazione (dal connotato privato, intimo) proprio per indicarci che l’ultima sezione del libro è il luogo in cui - nella scrittura - avviene una trasmutazione, una trasmigrazione quasi, dal contingente all’eterno, “di dentro a fuori”, “da terra a cielo”: “[…] e tutto / questo sembra cambiare nell’ordine // detto […]” (49). La messa in scena del dialogo non è una mise en scène, non è una narrazione: è bensì l’attuazione – nella scrittura (“nell’ordine // detto”) - delle condizioni per un dialogo tra l’autore e il lettore, e insieme l’offerta di uno spazio per il dialogo possibile tra due individui qualunque. Le poesie dell’ultima sezione sono il banchetto della Bestia (il poeta) per la Bella (l’interlocutore).

Federici pone il linguaggio in posizione equidistante tra i due interlocutori. Grazie ad un sottile e impercettibile spostamento della prospettiva il linguaggio viene a trovarsi, nell’ultima sezione, in una posizione equidistante tra l’autore e il lettore, e, infine, tra il lettore e un altro interlocutore indeterminato. Siamo noi, il lettore e l’autore, infine “rimasti a dividerci / due labbra sopra un silenzio”. Le poesie sono infine trasformate nelle assi di un tavolo che è posto prima di tutto tra i due interlocutori - il poeta e la donna - ma che è concepito in modo tale da poter essere ruotato attorno a un nuovo centro, mantenendo invariata la propria funzione. Il poeta, invitando alla prossimità, non invita soltanto il lettore ad avvicinarsi alle sue labbra, ma si protende anch’esso verso il lettore, offrendo il linguaggio della poesia - ossia il proprio “nome” di poeta - come condizione e tavolo dell’incontro.

Questa nota di lettura sembra mancare di una sintesi, di una prospettiva sul libro di Federici. Ma è forse anche questo il senso de L’opera racchiusa, se è vero che – come scrive Federici in una recensione a Petr Halmay (Atelier, 54, 2009) - la scrittura deve essere “non solo uno strumento di formazione estetica o morale condivisa, ma di autentica costruzione esistenziale”. La poesia di Federici rifugge dalla perentorietà, in essa “l’ago azzurro della fiamma” può essere tanto – come spiega l’autore stesso (comunicazione privata) - “la figura filiforme di una fiamma azzurra, utile a sterilizzare, incidere, fondere, piegare”, quanto “l’ardere senza rumore di un cero (o più ceri) in luoghi di culto”, quanto ancora “la forma stessa di certe fiammelle indisturbate […] insensibili alla gravità, non all’aria”, e diversi significati non sono piegati per toccarsi, ma stanno ciascuno al proprio posto e si attraggono come magneti, creando quei campi (araldici, magnetici, esperienziali) che la poesia di Federici delimita e racchiude, offrendoli come strumento per la “costruzione esistenziale” di ciascuno di noi altri.

1 commenti a questo articolo

L’opera racchiusa, di Federico Federici
2009-10-13 12:38:43|di Giovanni Catalano

Trovo molto attenta questa nota critica di Lorenzo Carlucci.
Nel complimentarmi ancora con Federico, vorrei citare uno dei miei testi preferiti in cui credo riecheggi, in tutta la sua tragica compostezza, il tema di Orfeo ed Euridice, tema molto caro anche ad alcuni miei lavori.

E la variazione su un tema così denso lascia inevitabilmente spazio a suggestive risonanze...

per aver soltanto vòlto il viso al tuo passaggio
hai finito lì da dietro di guardarmi, dove non vedevo
a onor del vero: non sono forse belli i tuoi occhi? o
come non sapessi già il colore dei capelli, l’opera
dolce delle labbra, il fiato, il dono della voce, chiusi
dietro al dito che indicava la più breve via in silenzio.

C’è un atteggiamento mistico di fronte ai simulacri dell’immaginazione e del ricordo.
In una poesia che è religione della poesia, il poeta si muove misurando ogni gesto e ogni silenzio, risparmiando la luce perchè la luce è sacra, la luce brucia irreversibilmente.
E la luce è quello che resterà di noi dopo la nostra morte, per persistenza retinica.
Ma anche la luce ha una velocità finita e questo ci condanna ad arrivare sempre in ritardo.
Per cui questi appunti di viaggio, scanditi dall’ansia di misurare, sono traditi dalla paura di non trovare una corrispondenza spazio-temporale nelle cose e nelle parole.
Il poeta si muove, deve muoversi, deve viaggiare perché ogni saluto per strada, ogni incontro fortuito, può farsi salvezza.

Non è dato sapere se il poeta si muova alla ricerca delle tracce lasciate da una donna nella speranza di indovinare il prossimo momento di un incontro, se prevalga la paura di dimenticare e quindi commettere in futuro gli stessi identici errori (se bastasse la memoria), se - come dopo un trasloco - il vuoto di una casa abbia magicamente risparmiato qualche indizio, un capello, una fotografia.
C’è un attraente odore di polvere quando si entra in questa casa e, tra una poesia e l’altra, quel silenzio di chi resta in piedi a guardarsi attorno perchè è arrivato in ritardo (o in anticipo) ad un incontro importante.
Ci sono morti che non si rassegnano, che ancora parlano ai morti.

E se è la distanza a rendere tutto impossibile, la ricerca della via più breve è il tormento degli uomini attaccati alla terra, con le loro "radici scoperte". Non a caso l’indice che chiude le labbra è lo stesso che da indicazioni stradali.

Nella missione etica di significato, nella ricerca del senso (sia esso regola o eccezione) il poeta deve mettere in discussione non solo la percezione ma l’esistenza tout court.
Allora il logos (parola, numero, rapporto) è la cura quotidiana che dobbiamo al mondo, perchè esista davvero.

Giovanni Catalano


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