Absolute Poetry 2.0
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LA CITTA’ DI BRECHT

suite de ténèbres

Articolo postato giovedì 6 luglio 2006
da Nevio Gambula

LA CITTÀ DI BRECHT suite de ténèbres

“Meditate la tenebra e l’inverno / di questa valle percossa dal pianto” B. Brecht

Partecipano: Canto: Raffaella Benetti Recitazione: Nevio Gàmbula

28 LUGLIO 2006 ORE 16.30 FORTE CORBIN, ROANA-VICENZA

all’interno della rassegna “Forti in scena - danza, musica e teatro nei luoghi della grande guerra” organizzata dalla compagnia Naturalislabor

Una suite per voce recitante, canto e tenebre preistoriche. La solista è un angelo nero. Innalza la sua voce tra sirene d’allarme e case in rovina, come resistendo agli innumerevoli orrori col canto. Poi c’è l’attore, che sta tentando di aprire un dialogo con lo stuolo di morti che fanno la polvere della città. Anche lui resistendo, e imprecando al buio. La terza presenza è Bertolt Brecht. Rimbalza come un eco sulla scena, figura rimossa che vuole essere ancora necessaria. Ora si impossessa della voce della solista, ora è la cifra segreta della recitazione dell’attore. La solista si lascia prendere dalle canzoni di Brecht, ne ripete le note, facendone rivivere sulla scena la passione. L’attore si lascia andare al racconto di una storia che di Brecht conserva il ricordo, e costruita con frammenti di autori a Brecht in qualche modo legati. Mentre l’attore coglie, con la sua parola ebbra, il vuoto del reale, la solista scava musicalmente il silenzio. La segreta affinità tra di loro, che è poi la stessa che esiste tra arte e morte, trova espressione in una pièce fondata essenzialmente sull’inquietudine della voce.

(Per vedere alcuni frammenti dello spettacolo clicca qui - file .wmv 27,8 MB, dur. 12,02 min.) ***

Fare teatro, oggi, in un contesto dominato dal gioco fatuo dei media, vuol dire scegliere di stare ai margini. Fare poi un teatro eccessivo, come quello che sono abituato a proporre, è ancora più angosciante. È come recitare ai morti. A volte ho l’impressione che siano gli unici che possano ascoltare, essendo i vivi impegnati a passare il proprio tempo altrove. Mi sembra di recitare dentro una fossa comune. Non è piacevole, ma è l’unico luogo che ho. Mi sono sempre detto che bisogna imparare a recitare dappertutto, “dalle piazze ai bordelli”, in qualsiasi posto ci sia un ascoltatore. Ed ho sempre creduto che il miglior teatro esplode dove sono evidenti le difficoltà. E siccome in questa “cavità buia dell’esistenza” sento il tanfo schifoso della morte, voglio reagire facendo un teatro che sia in grado di far sentire una fragranza di rivolta.

Se il nostro, questo in cui siamo nostro malgrado, è l’orizzonte del senso comune, ovvero del non-senso, io preferisco tenermi a distanza. Non uso le parole di tutti. Seguo un altro ordine di discorso. Ecco, qui, in questa città in cancrena, mi sento inadeguato ad omaggiare, come fanno un po’ tutti intorno a me, le regole della convivenza; anche perché in effetti si tratta di un omaggio a precise volontà politiche di sopraffazione che fanno del teatro una merce. Profanare ciò che tutti venerano. Rifiutarsi di obbedire. Con la consapevolezza di parlare al deserto. Al vento che sparge il puzzo dei morti. E a causa di tale uditorio, il mio teatro tende a far regredire la parola al silenzio. Ma in mezzo, tra la parola e il silenzio, c’è l’attore, c’è l’invenzione e la memoria (il corpo che inventa e la nostalgia del futuro). L’attore irrompe nel regno dei morti e, prima che lo colga l’orrore che lo farà tacere per sempre, esplode in trionfante vitalità. Come resistendo al disfacimento. Con la parola che scuote, con la visione che squarcia. Per turbare i sordi, per disingannare i ciechi. Ecco, nel gorgo incolore che inghiotte passioni e pensieri, ci vuole una rottura di linguaggio e uno spiazzamento di orizzonte. Essere attore è parlare di altro.

Ho sempre trovato la lingua di Brecht molto affascinante, perché molto inventiva, malgrado l’apparente rigidezza ideologica che contiene. È un arabesco di temi, conciso e zeppo di verità ritmate; è una grande utopia, piena di amarezza, retta da un bisogno irresistibile e visionario di stare fuori dagli schemi. Brecht è stato capace di estrarre poesia dal magma della storia, di volta in volta rinviando al dubbio, allo sconforto, alla lotta, alla saggezza, al distacco ironico. Ho sempre pensato che le sue opere richiedessero un pubblico particolare, interessato. Un pubblico non teatrale. E che solo per questo possano essere recitate. Ma oggi, periodo storico di immane miseria intellettuale, il pubblico potenzialmente interessato ai temi di Brecht si perde dietro storielle televisive senza senso. Ed io sono nell’impossibilità di fargli cambiare parere. Scegliere di recitare comunque Brecht aumenta l’angoscia. E i rischi di ulteriore solitudine. Per i palati odierni, abituati a spettacoli insulsi, Brecht è indigesto. Per di più io sono affascinato dal Brecht più oscuro, quello meno indagato, là dove mostra affinità con il “contemplare la morte e il nulla” tipico di Beckett. Un Brecht non canonico. Di disperata lucidità. Capace di constatare l’amara sconfitta e annunciare “la grande era del mio nemico mortale”. Un Brecht caustico, come attraversato dall’ossessione del buio, della città avvolta dalle tenebre; dal pozzo nero delle metropoli, scuole di morte e di disumanità. Mi sono sempre promesso di lavorare su questa ossessione: la città di Brecht, appunto.

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