Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
Considerando come, e quanto programmaticamente, la scrittura di Moresco sappia divincolarsi dalla stretta dell’antinomia poesia-prosa, non può stupirci il fatto che uno dei suoi istituti fondamentali sia rappresentato dalla metafora. Al riguardo vorrei per un momento soffermarmi sulla celebre definizione di questo tropo come onomatos allotriou epiphorà fornita da Aristotele nella Poetica (1457 b 10): la metafora consiste nel “ricorso a un nome d’altro tipo”, nel “trasferire a un oggetto il nome che è proprio di un altro”, nel “trasferimento ad una cosa di un nome proprio di un’altra”, traducono rispettivamente (e, del resto, in modo impeccabile) Gallavotti, Lanza, Pesce. La versione italiana (“trasferimento”) non accoglie però una sfumatura decisiva del sostantivo epiphorà: perché se è vero che il verbo epiphéro da cui esso deriva significa in primo luogo “portare su, verso”, “to bear upon, further”, una delle sue accezioni, secondaria ma non certo trascurabile, è quella di “portare contro”, “bring against”, “assalire”. Proprio in questo senso epiphéro viene per esempio usato da Omero nell’Iliade (ou tis … soi … bareias cheiras epoisei: “nessuno … ti … metterà le mani addosso”, I, 88-89), mentre nella medicina antica l’epiphorà designa, tra l’altro, l’”assalto” della febbre (correntemente, invece, questa parola denomina una patologia peculiare dell’occhio provocata dall’eccesso di secrezione lacrimale). Nella terminologia aristotelica sembra sottesa un’idea di ostilità e di debordante aggressività che segna la distanza più netta sia dalla visione della metafora come giustapposizione di saperi, sia da quella che la riduce a ornamento sovrastrutturale del discorso. Non semplice “trasferimento” di nomi, la metafora costituirebbe piuttosto, in questo tentativo di lettura, il prodotto di un’irruzione, di un flusso minacciosamente indistinto di materia e senso verbale: o anche, per usare un termine molto caro a Moresco, di una invasione. In Moresco la frequentissima irruzione di metafore e, a tratti, la loro proliferazione assumono costantemente i connotati dell’obliquità, di un agire distanziato, differito o indiretto che si esprime con la mediazione del genitivo - come nel classico precedente dantesco di Purg., I, 2: “la navicella del mio ingegno”. E’ soprattutto la seconda parte dei Canti del caos (uscita presso Rizzoli nel 2003: da qui sono estrapolate le citazioni che seguono) a squadernare un abbondante campionario di metafore oblique che, con un esprit de systeme spero discreto, può essere segmentato in almeno una decina di aree archetipiche: la sfera (bolla, globo ecc.), che molto spesso investe oggetti come televisori e terminali (come a p. 14: “le bolle dei video”) ma può anche riguardare la pancia e il ventre: “la grande sfera del ventre” (p. 52); il calco, che interessa lo spazio e l’aria: “nel calco dell’aria immobilizzata” (p. 274); la catastrofe: “sotto la catastrofe della volta celeste” (p. 240), “nella catastrofe dell’annuncio” (p. 393); la voragine (cratere, buco nero), perlopiù con riferimento alla bocca (“il cratere della sua bocca tatuata”, p. 331), ma in qualche caso alla creazione e alla visione: “nel cratere della creazione e della visione” (p. 298); il passaggio stretto (il filo, il nastro, l’imbuto ecc.), nel cui àmbito rientrano p. es. la strada (“verso il nastro di una strada più grande”, p. 201) e ancora la bocca (“nell’imbuto della sua bocca aperta”, p. 266); il bozzolo (involucro, nicchia, sacco, scrigno, scafandro): “il bozzolo della sua testa” (p. 58); la maschera, riferita a testa, faccia, volto: “le maschere ottuse dei volti” (p. 249); la pietra (macigno, massa, mastodonte), ancora per il cranio e la testa: “il mastodonte della mia testa” (p. 197); la poltiglia (colla, polpa, schiuma, melma, grumo), con un raggio di applicazione che svaria dalla luce alla bocca, dall’aria/atmosfera (“nella poltiglia dell’atmosfera”, p. 360) alle automobili, dalle radiazioni all’annuncio (“la polpa increata di questo annuncio”, p. 231), ecc.; il proiettile (bolide, freccia, meteora, meteorite, mitragliatrice, cuspide), in molti casi combinato con il cranio o con la testa (“il bolide della sua testa rovesciato e puntato”, p. 398) e con la visione (“da dove nasce il proiettile della visione?”, p. 297). Quale conclusione ci suggerisce questa veloce e certo incompleta ricognizione testuale? La scrittura di Moresco non tende soltanto a una tipizzazione (e non esattamente nel senso lukacsiano del termine…), cioè a una stilizzazione in chiave formulare di linguaggio e di visioni tale da avvicinarla all’epos, ma inoltre, riconoscendo nel mondo l’immanenza di forme e strutture che tornano ciclicamente, si assicura la possibilità di cantare il caos.
["L’Ulisse", 7, 2007]
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