Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
L’argomento che qui si propone potrebbe parere indotto da una pratica assai diffusa in questi ultimi anni, quella delle pubbliche letture di poesia; di poesia, vogliamo dire, fresca di scrittura o di stampa. V’ha chi afferma che di simili letture, e con tanto concorso di uditori, non si fosse dato precedente nel nostro paese. Dubitiamo sia vero: le cronache del Settecento raccontano di peggio. Solo in apparenza, comunque, quella moda è all’origine delle riflessioni che ci proponiamo, perché tanto più seria e soda è la sequenza delle questioni di metodo critico che insorgono a partire dalla analisi dei vari modi di leggere a voce alta la poesia, ossia di particolari decodificazioni foniche dei segni della scrittura; sequenza le cui fasi non ci lusingano davvero di poter neanche enumerare.
Ne saranno toccate solo alcune; cominciando subito a dire che il tema sembra pochissimo frequentato dalla pur sovrabbondante teoria letteraria dei nostri anni; ricerche monografiche sull’argomento si contano nel nostro paese sulle dita di una mano. Rammento Giovanni Nencioni, Giuseppe Tavani, Ezio Raimondi, Bruno Gentili, Gian Luigi Beccaria. Vastissima invece, e non occorrerebbe dirlo, è la bibliografia sulle letterature orali e sulle questioni relative; ricca, oltretutto, e da due secoli, di studi memorabili. E, sebbene assai giovane, abbondante è anche quella che dal punto di vista di più discipline riguarda il tanto complesso fenomeno della lettura.
Ma quello della dizione ha interessato finora soprattutto i linguisti e, tra i linguisti, i fonologi; o lo studioso di storia del teatro e della recitazione o quello del costume piuttosto che lo storico della critica letteraria o il teorico dei suoi metodi.
Di qui la tentazione (che allontaneremo rapidamente) di far riferimento ai massimi sistemi che nella cultura occidentale hanno affrontato l’argomento: dal sistema retorico – nei Sofisti, in Quintiliano e negli Scolastici – dove la upòcrisis o actio è tecnica di recitazione, comprensiva dei gesti e della dizione; a quello etico e religioso, che, naturalmente su ben più antiche radici, nelle scritture sacre (come ad esempio i Proverbi) o nei testi neoplatonici assume la serie delle valenze simboliche della parola e del silenzio. E di là sono pochi i passi con cui si perviene alle recenti interpretazioni psicologiche e psicanalitiche.
Secondo Cohen (nel suo Structures du langage poétique che è del 1966), seguito da non pochi studiosi, esisterebbero due poli della dizione poetica, il polo espressivo e quello inespressivo. L’accentuazione della dizione espressiva comincerebbe a delinearsi con l’età romantica. Già alla metà circa del secolo scorso un Téophile Gautier poteva lamentare che un’attrice come la Rachel si preoccupasse solo del senso della frase e poco curasse di mettere in evidenza l’alessandrino e la rima. Ora, scrive Choen (sposando l’ideologia delle poetiche simbolistiche e post-simbolistiche), tale procedimento non sarebbe stato praticabile nei confronti della poesia lirica; sì che la dizione di quest’ultima avrebbe allora teso a farsi inespressiva, piana, monotona ossia a porre in evidenza soprattutto quel che contribuisce a distinguere la poesia dalla prosa. Ed ecco testimonianze di dizioni d’autore, da quella di Mallarmé che legge il suo Coup de dés (riferisce Valéry) “a voce bassa, eguale, senza il minimo effetto, quasi tra sé”, a quella di Apollinaire che legge Le pont Mirabeau con una “monotonia analoga a quella della recitazione di certe melodie infantili”.
Una buona parte dell’opera dell’attore e del dicitore si manifesta nell’uso di un codice che costituisce il legante, il medium di contatto del discorso drammatico e della narrazione epica. Quando quel codice – di gesti, intonazioni, pause, ecc. – si applica ad una poesia lirica (e a questo termine diamo l’impreciso e amplissimo senso che gli è stato conferito dall’età romantica in poi, cioè di composizioni nella quale prevale un punto di vista, e un punto di voce, che per convenzione diremo soggettivo) esso concorre potentemente ad attenuare o occultare le procedure di artifizi estranianti, che in un testo scritto cospirano a far prevalere la funzione poetica del linguaggio su quelle referenziali, emotive, conative o altre. Contrariamente a quento pensa Jean cohen, nella dizione della lirica noi riteniamo che l’aumento o la diminuzione del tasso di espressività non sia dovuto solo ad imprevedibili e geologici mutamenti dei costumi culturali bensì ad una positiva esigenza di autonomia (o di somiglianza) cioè di rapporto conflittuale con altre dizioni, per esempio quella teatrale o sacerdotale; o, più in genere, coi modi di dizione di testi non lirici vigenti in un tempo e in una società dati. I modi della dizione obbediscono, secondo noi, alla medesima dialetti cadi identità e innovazione che conosciamo per tutte le forme propriamente letterarie.
Fino a quando la differenza del linguaggio poetico dal linguaggio della comunicazione non poetica è assicurata da un complesso codice di arcaismi lessicali, di allusioni culturali, di riconoscibili articolazioni metriche, il tasso di espressività può essere sacrificato a tecniche di dizione liturgiche, cerimoniali; o può essere invece largamente accresciuto.
Un esempio. Recito Parini, la prima strofe di La vita rustica (“Per che turbarmi l’anima, / o d’oro o d’onor brame, / se del mio viver Atropo / presso è a troncar lo stame? / E già per me si piega / sul remo il nocchier brun / colà donde si niega / che più ritorni alcun?”). In questo caso è possibile accentuare l’espressività anche sino al ridicolo, teatralizzarla, sciogliere le elisioni, introdurre degli enjambements espressivi (“si piega sul remo”) perché la compattezza dei settenari, i troncamenti inconsueti (“brun”), le anastrofi (“del mio viver … lo stame”, “si piega … il nocchier”) e, non ultimo, per importanza il lessico latineggiante o arcaico (“brame”, “nocchier”, “niega”), nonché i riferimenti mitologici (Atropo) e le cripto citazioni (Dante, Catullo), assicurano tale distanza dai testi di comunicazione non poetica che l’ascoltatore, quale che sia l’espressività della dizione, la contrappunta immediatamente con gli schemi culturali generatori delle sue attese.
Un secondo esempio. Recito i versi di Pasolini, da Il pianto della scavatrice: “Stupenda e misera città / che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci / gli uomini imparano bambini // le piccole cose in cui la grandezza / della vita in pace si scopre, come / andare duri e pronti nella ressa // delle strade, rivolgersi a un altro / uomo senza tremare, non vergognarsi / di guardare il denaro contato // con pigre dita dal fattorino / che suda contro le facciate in corsa / in un colore eterno d’estate, // a difendermi, a offendere, ad avere / il mondo davanti agli occhi e non / soltanto in cuore, a capire (…) ecc”, una lettura che si volesse espressiva, eliminerebbe anche quella distanza in che l’autore ripone un messaggio aggiuntivo, anzi decisivo, di questo testo; che consiste nella mobilitazione lirica di una materia ragionativa ed espositiva respinta dal gusto letterario del suo tempo, or è un quarto di secolo. Una lettura non espressiva sarà allora quella che porrà in evidenza le uniche spie stranianti: ossia le cesure di fine verso, i passaggi di strofe ogni tre versi, che il bianco della pagina segnala con carichi di una maggiore durata di pausa, le pseudo rime assonanzate fra ogni primo verso e il terzo verso, tese ad alludere così ad un fantasma di terzina. Possiamo anche chiamare “non espressiva” questa lettura ma ci sembra invece si tratti solo di una diversa espressività; che non esclude l’enfasi, anzi.
Un terzo esempio; da Saba. Un esempio che è intermedio tra il primo e il secondo:
In fondo all’Adriatico selvaggio
si apriva un porto alla tua infanzia. Navi
verso lontano partivano. Bianco,
in cima al verde sovrastante colle,
dagli spalti di antico forte, un fumo
usciva dopo un lampo e un rombo. Immenso
l’accoglieva l’azzurro, lo sperdeva (…)
Aiutato magari dalla citazione dannunziana (Adriatico selvaggio), l’ascoltatore di media memoria culturale avverte la sequenza degli endecasillabi. La lettura espressiva eliminerebbe i ben quattro enjambements; la lettura monotono-melodica li sottolinea invece. Ma questa sottintende quella e viceversa. Come scrive Juri M. Lotman: “sullo sfondo dell’intonazione ritmica quella di senso si presenta come una violazione dell’attesa. Entrambi questi aspetti dell’intonazione formano un’opposizione correlata”. E aggiunge ancora, in modo, a mio avviso, perfetto: “la non realizzazione dell’elemento di struttura è una sua realizzazione negativa”. Dunque se io non rispetto la pausa di fine verso, l’orecchio esercitato avverte tale oblio. Mentre, se la rispetto, quando sia presente un enjambement e l’ultima parola del verso sia preceduta da un segno d’interpunzione di forte pausa, questa parola viene, per così dire, a distaccarsi. Si danno così due situazioni estreme. La prima suggerisce di leggere:
(…) si apriva un porto alla tua infanzia.
Naviverso lontano partivano.
Bianco, in cima al verde sovrastante colle,
dagli spalti di antico forte,
un fumo usciva dopo un lampo e un rombo.
Immenso l’accoglieva l’azzurro, lo sperdeva (…)
e la seconda: si apriva un porto alla tua infanzia navi / verso lontano partivano bianco / in cima al verde sovrastante colle / dagli spalti di antico forte un fumo / usciva dopo un lampo e un rombo / immenso l’accoglieva l’azzurro, lo sperdeva ecc.. La prima implica la seconda e viceversa. È questo un esempio luminoso di come sia impossibile qui applicare la regola del tertium non datur. In questa materia, solo tertium datur.
La dizione instaura, sempre, quand’anche sillabata “fra sé e sé”, un rapporto col tempo infraindividuale, con il patto temporale che più individui stabiliscono o una comunità sancisce statuendo precisi cambi di velocità.
Così l’ “alta voce”, i segni temporali che il testo scritto reca, e che sono mere indicazioni di lettura, non entrano più in relazione soltanto con il tempo interno del lettore ma vi giungono attraverso il tempo “reale” o “convenzionale” della relazione intersoggettiva, anzi vanno quasi sempre a disporsi nel tempo del rito, della istituzione (letteraria) e della sua sequenza processionale. Consideriamo certe recitazioni storiche, esemplari solo perché legate a momenti riccamente iconografici, quali Virgilio che intrattiene la famiglia di Ottaviano sul testo dell’Eneide, Tasso che declama la Gerusalemme a Eleonora d’Este, Puskin con il manoscritto dell’Onieghin e i suoi amici, Mallarmé sul suo divano del martedì, rue de Rome; o per venire alla storia contemporanea, Saba come chi parla lo ha ascoltato leggere i suoi ultimi versi, seduto su una branda in una stanzetta della Milano 1945; non è difficile vedere che ognuna di queste recitazioni si dispone entro un tempo sociale e cerimoniale specifico, oggetto, se vogliamo, della semiologia della cultura; un tempo comune al dicitore e ai destinatari. Ed è su quello che, a livelli successivi, si situano prima la porzione di testo prevedibilmente recitato (ad esempio un canto della Gerusalemme), poi l’unità prosodica (nel nostro esempio, l’ottava, di regolare respiro e attesa costante); e poi, a partire da quest’ultima, i vari livelli metrici, quelli sintattici, i fenomeni d’intonazione, oggettivati nella interpunzione, ecc.; e, finalmente, la specifica interpretazione che l’io-esecutore propone dell’io-scrittore. Come scrive il medievista e filologo romanzo Paul Zumthor in un saggio (Pour la poétique de la voix, 1979) che è il più serio contributo a questo genere di indagini: “La poesia, detta o cantata, aspira a ‘sistemare’ (mettre en place) tanto il gruppo sociale come tale quanto ognuno degli individui che lo compongono”. Che è affermazione capitale e che dovrebbe fare riflettere su questo legante sociale della lettura come costitutivo di un tableau in cui non ci sia ancora o non ci sia più la distanza tra platea e palcoscenico. E chiedi amici dunque: chi è presente quando si legge in pubblico una poesia lirica? Che è come dire: quale è la differenza tra la dizione di un testo teatrale e quella di un testo lirico e dunque non teatrale? Ecco il dicitore che declama versi ad un pubblico. Come in qualsiasi recitazione possiamo rilevare l’ovvio sdoppiamento di attore e personaggio. Ma con una decisiva differenza: che il personaggio non è quello indicato come tale nel testo drammatico e neppure quello dell’autore e neanche il cosidetto “io” del romanziere, bensì quello che emerge dal testo lirico come proiezione della soggettività radicale della poesia lirica; e che tuttavia non coincide con la comunicazione complessiva che essa è. Declamo Leopardi:
Lungi dal proprio ramo,
povera foglia frale,
dove vai tu? – Dal faggio
là dov’io nacqui, mi divise il vento.
Esso, tornando, a volo
dal bosco alla campagna,
dalla valle mi porta alla montagna.
Seco perpetuamente
vo pellegrina, e tutto l’altro ignoro.
Vo dove ogni altra cosa,
dove naturalmente
va la foglia di rosa,
e la foglia d’alloro.
E subito divengono distinguibili una costellazione di almeno sei persone o figure. La prima è quella della mia identità biografica, o meglio: anagrafica, di parlante; con le caratteristiche fisiche, un certo tipo di prestazione fonica ecc.; la seconda è – o meglio: è stata – la persona anagrafica di Giacomo Taldegardo dei conti Leopardi di Recanati, deceduto centoquarantaquattro anni or sono e universalmente ritenuto autore di questi versi; la terza è il fantasma vocale o personaggio di cui or ora si diceva, che, un verso dopo l’altro, chiama se stesso, si atteggia, occupa spazio e tempo; la quarta non è persona ma ente ed è quella che ho chiamato la comunicazione complessiva, eccedente infinitamente il personaggio; la quinta e sesta sono, appunto, quella dei destinatari o ascoltatori, divisi anch’essi in entità anagrafiche o specificità individuali e in totalità culturali che la percussione del testo chiama ad esistenza. E sebbene sia, questa, gravissima materia e soverchiante le nostre competenze, cioè la questione della lettura cosiddetta mentale (quel “fra sé e sé” che anche il parlare comune distingue in almeno due persone), si può con prudenza avanzare l’ipotesi che le componenti di cui or ora si è parlato si ritrovino anche in quest’ultima, ossia nella lettura mentale e solitaria. In questo caso corrispondendo ad altrettanti livelli o momenti del circuito psichico: alla identità del dicitore e dell’ascoltatore, quando dicitore e ascoltatore sono un solo individuo, bisognerebbe far corrispondere due maschere, contigue ma non identiche, della stessa persona, due aspetti della immagine di noi stessi che la società ha fatto di noi, come passato e moria; uno sarebbe il fantasma umano che evoca se stesso in quanto dicitore, mentre, agli ascoltatori corrisponderebbe quella parte del lettore che recepisce e si espone, per così dire, all’impatto con il testo. D’altronde il medesimo Zumthor che avevo citato rammenta una verità semplice ed importante quando fa presente che oralità non vuol dire assenza di scrittura né scrittura vuol dire assenza di oralità. O altrimenti, che, data la radicale trasformazione che il messaggio subisce nel passaggio dalla oralità alla scrittura e viceversa, non è indifferente che quel che si dice sia scritto e rechi quindi le caratteristiche del discorso ordinato in vista della scrittura; né inversamente.
Gian Luigi Beccaria, eminente linguista, ha voluto nel 1975 dimostrare che né la scrittura metrica né la ritmica della poesia sono riconducibili alla sua esecuzione orale. Questa può avere innumerevoli, anche se non infinite, variazioni, intorno ai due poli estremi dei quali abbiamo parlato. La tesi centrale di Beccaria, ci vede consenzienti; e che cioè sia un errore metodologico confondere l’astrazione metrica con ognuna delle sue attuazioni. Il nostro disaccordo comincerà invece dove finisce l’astrazione. Ci sembra che proprio l’autonomia (non assoluta, ma certo rilevante) della dizione dal testo scritto assicuri pari legittimità alla dizione d’autore, a quella d’attore, a quella di dicitore, a quella di chiunque; e, per di più, lungo tutta la gamma di letture, ad altissima, media, bassa voce, a quella mormorata o pseudo silenziosa. Si tratta di istituzioni storiche della dizione. Foscolo e Majakovskij urlavano i loro versi, Pasternak li diceva con un filo di voce e con lui tutta un’età, quasi un secolo, di dizione spiritualizzata interiore litànica odiatrice della emozione ed esaltatrice della parola segreta e dei suoi poteri liturgici; ma in quella, tuttavia, Ungaretti li ruggiva, Saba li cantava e persino a Montale non mancava un certo ‘vibrato’. L’automortificazione della eloquenza emotiva è stata tanto grande e di moda, nell’ambito ermetico e nell’Italia degli anni Trenta, che dir con garbo o passione i propri versi, secondo un costume conviviale di alcune regioni italiane, quasi bastava a squalificare l’autore. Siamo stati educati a disprezzare gli attori di quel tempo – Ruggeri, Ricci, Benassi – che declamavano in teatro Dante o Carducci, Lorenzo de’ Medici o D’Annunzio. Posso testimoniare che il timore della sonorità della eloquenza e del gesto è stato, in quella generazione, così grande che Sergio Solmi, Vittorio Sereni, Mario Luzi spingevano spesso l’inespressività, la depressione del porgere (vera moda d’epoca) sino a mascherare, leggendoli, alcuni dei loro più belli endecasillabi.
Quando Beccaria afferma che la lettura, introducendo il fattore tempo, non però introduce variazioni nella struttura del ritmo di un verso o di una strofa, sembra evidente di dover consentire con lui. Ma quando dice che Petrarca “riduce al minimo il senso del movimento” e che questo rallentamento non è una durata oggettiva bensì una “astrazione, con un significato puramente formale”, che la “definizione del ritmo poetico come ritorno di tempi forti ed intervalli eguali” è una “definizione formale, non una realtà oggettiva” e che in un endecasillabo, quali siano i ritardi e le accelerazioni di lettura, l’isocronismo formale della serie di endecasillabi è salvo – dice, mi sembra, che per lui la dimensione temporale è integralmente sostituita da una di tipo strutturale o, meglio, spaziale. L’astrazione può, in questo caso, far benissimo a meno della dimensione temporale reale e raggiungere l’interiorità intellettuale assoluta, il silenzio della lettura cioè la non-lettura, o la lettura del rapporto invariabile o logos che i greci distinguevano dal megethos o durata (variabile) del piede metrico, come B. Gentili ci rammenta. Si scorge qui a occhio nudo la vivissima insofferenza che non pochi eccellenti studiosi hanno, o ebbero, per quella specifica attenzione alla dimensione temporale che è, talvolta, la dimensione storica. La loro resistenza ad accettare il tempo naturale, perché contamina la purezza della analisi, è un portato storico-sociale.
Per noi la poesia (conclude Beccaria) è “artefatto e scrittura letteraria, indirizzata pertanto ad una lettura silenziosa …”. “Pertanto”? Perché “pertanto”? le obiezioni sono facili; ma almeno una e decisiva, va detta. E cioè che probabilmente non esiste la lettura silenziosa, nel senso rigoroso della parola, non più almeno di quanto, probabilmente. Non esista un pensiero non verbale. Quello che Beccaria chiama “lettura silenziosa” sarebbe la contemplazione visiva di segni grafici assolutamente muti. La trasposizione del tempo nello spazio. Ut pictura poesis? Evidentemente tra il non-silenzio registrabile in tracce acustiche e l’apparente silenzio della pronuncia interiore (sempre percepito però come traccia sonora), c’è un’area che la ricerca deve indagare; ma è di pertinenza dei psicologi e dei biologi prima che dei critici letterari.
A proposito della lettura silenziosa, è citazione corrente da Agostino che, parlando del vescovo Ambrogio, dice il suo ammirato stupore per averlo veduto leggere in silenzio, non dunque recitando. Meno osservato è che al momento della conversione quando Agostino risponde all’ordine Tolle, lege del misterioso canto infantile, la lettura simbolicamente comandata dal passo scritturale che egli si precipita ad adempiere, è compiuta, esplicitamente “in silenzio”. La differenza è fissata e non lascerà mai più la cultura occidentale. Una delle chiavi dei diversi atteggiamenti storici di fronte alla lettura a voce alta è, crediamo, nella lettura per eccellenza, quella liturgica; anzi in quella parte della liturgia che è la preghiera.
La teologia morale cattolica distingue tra preghiera mentale e preghiera vocale; ma i moralisti affermano che anche nel caso di preghiera mentale vi debba essere l’attenzione esterna ossia quella attenzione che esclude ogni azione capace di impedire la pronuncia integra ed esatta delle parole; e anche il Concilio Vaticano II ha ribadito l’antica diffidenza della Chiesa per tutto quel che, nella preghiera, può indurre a diminuire l’importanza della materialità del significante e ad un aumento degli elementi di eccessiva interiorizzazione; tendenza, quest’ultima, probabilmente di origine neo platonica, che adduce verso l’estasi e, come nell’ottavo secolo voleva Giovanni Damasceno, facilita la rischiosa “ascesa della mente in Dio”. Nel volgersi dei secoli successivi, in particolare nel XI e XII, la parola parlata, dunque la lettura profana ad alta voce, è considerata come appartenente alla “carne e al sangue” e quella silenziosa come appartenente invece allo Spirito, ma questo rapporto può invertirsi, la lettura ad alta voce del testo sacro, dello scongiuro, della omelia e dell’inno rivolta agli umili e inaudita ai sapienti, può incarnare lo Spirito mentre quella a bassa voce o silenziosa può essere accompagnata dalla superbia elitaria o demoniaca.
Ma questo è vero anche oggi: la lettura silenziosa che sembra essre per eccellenza quella della attenzione e dello studio, delle analisi e del raziocinio può invece diventare l’area dell’arbitrio estetizzante. Si rilegga la celebre prefazione di Mallarmé a Un coup de dés (del 1897) e tutte queste contraddizioni, ad un alto livello di lucidità, appariranno attualissime.
Voce alta e voce bassa, lettura vocale e lettura mentale, tempo di tutti e tempo di solitudine: se una questione qui si pone, è quella di interpretare che cosa, ai nostri giorni, stia dietro la falsa coscienza collettiva che si riconosce tanto nelle forme della lettura-spettacolo quanto in quella della lettura-privatezza. Che cosa significa, di cosa è sintomo, la tendenza alla teatralizzazione di testi poetici che la tradizione avrebbe situati nell’ambito della lettura privata o di una dizione per pochi e la parallela rinascita di un orfismo della parola, di una pratica estatica dei testi poetici?
Per comprendere di cosa tale sintomo sia sintomo, ci sarebbe necessaria una ricognizione delle condizioni reali e contestuali in cui si svolgono tanto le teatralizzazioni pubbliche quanto le cerimonie private, per conoscere meglio di quali domande queste operazioni siano risposta simbolica. Si tratterà di sapere (diremo per metafora) che cosa la struttura delle pubbliche declamazioni nelle nostre Terme Imperiali abbia in comune con quelle dei giochi dei gladiatori nei nostri circhi; e in cosa la lettura privata delle ultime novità letterarie venute da Alessandria o da Pergamo assomigli a uno dei tanti culti misterici praticati nelle notti della nostra provincia consolare.
Le due tendenze continuano dunque ad alternarsi e ad affrontarsi. La moda delle pubbliche dizioni di versi, che negli ultimi anni ha corso la penisola, può spegnersi da un giorno all’altro; dicitori più intelligenti e più aggiornati, persuasi di parlare, come ha detto J. Derrida, con una Voce con la V maiuscola, non corporea e quindi non individuale, possono diffondere la parola d’ordine che sola ammissibile sia la lettura “silenziosa” o “mentale”.
Ma tanto la prima quanto la seconda di queste due tendenze non sfuggono alla critica pronunciata dalla realtà sociale e dalla condizione complessiva della nostra cultura.
Procedono infatti da una medesima confusione di ruoli e dal tenace rifiuto tardo-romantico di distinguere fra generi letterari. Infatti, e dobbiamo ripeterlo, non stiamo parlando della dizione propriamente drammatica di testi teatrali né della dizione connessa col canto e la musica, bensì di forme di lirismo riconducibili alla eredità simbolistica o surrealistica o genericamente avanguardista, che la dizione ad alta voce trasforma in monologhi a forte densità teatrale. Tale trasposizione, nella fisicità e nella corporeità di un uditorio collettivo, fa pensare alle effusioni amorose in pubblico; che non scandalizzano ma interrogano. Che cosa vogliono significare? Come queste ultime, contengono sempre un elemento di esibizione e di oltranza. La lirica che, come ha scritto N. Frye finge sempre una assenza di pubblico, quando non può più fingerla (ossia quando un pubblico è davvero presente) subisce una torsione; nella più benevola ipotesi è la trascrizione per orchestra di una sonata per violino.
Se così è la nostra preoccupazione non può essere quella filologica, di restaurare un immaginario originale, una interpretazione autentica; ciò è compito della critica, non della dizione. Ma di intendere e partecipare del grado possibile di autenticità e vitalità della parafrasi, della parodia, della imitazione, della amplificazione. Al limite, l’esecuzione per altoparlante e massa di Leopardi o Holderlin equivale a Beethoven trascritto per ritmo rock. Nessun scandalo e nulla in contrario; purché lo si sappia.
La dizione poetica ha preso il suo ruolo nella società dello spettacolo ossia nella teatralizzazione della esistenza. Un’era che passerà alla cronaca delle nostre miserie come quella del Turismo e Spettacolo, quando (diranno i posteri) per non saper o voler punire i colpevoli di atroci delitti si declamava Dante alle folle o quando (com’è stato a Milano) si potevano leggere, a sera, versi di poeti viventi (anche versi di chi qui parla) proiettati con ingranditori sulle facciate delle banche che al mattino avevano deciso della gestione economica del paese. Ma tutto questo induce anche al comportamento apparentemente contrario: si ritorna alla poesia come libro dove ci benedicono e gratificano intimità e privatezza, penombra, contemplazione e silenzio, edificazione spirituale e iniziazione; in accordo con filosofie correnti che predicano flessibilità, debolezza, cedimento, nichilismo a bassa voce, vita negli interstizi. Non sappiamo quale fra le due posture sia la peggiore. Se possiamo esprimere una opinione soggettiva, diremo della poesia quel che Manzoni diceva dell’amore: che ce n’è troppo più di quanto sia necessario a riprodurre la nostra specie.
Possiamo a questo punto riassumere quelle che ci paiono essere le questioni di metodo relative alle dizioni della poesia e ai campi di ricerca che interessano la critica letteraria e la sua vicenda:
1) La dizione espressiva e quella non espressiva sono o no e in che misura funzione di modi di dizione propri di altre istituzioni? 2) Quali i rapporti fra attore e dicitore? 3) La dizione ad alta voce e quella a bassa voce o mentale implicano o no esperienze diverse del tempo e della durata? Qual è il rapporto col tempo convenzionale delle istituzioni in cui si producono? 4) Quali possono essere le radici antropologiche, mitiche e psicanalitiche della recitazione pubblica e di quella individuale?
E, per concludere con qualche considerazione personale, diremo che, certo, il conflitto e la tensione fra i due modi polari di uso del testo letterario (quello che abbiamo detto mentale e quello che abbiamo detto orale) possono essere interpretati anche come una delle manifestazioni dei fondamentali conflitti tra repressione, sublimazione e piacere nonché di quelli fra la sfera ascetica del comando e la ampia antiascetica dei consumi, fra il regime culturale dei signori e quello dei servi, inevitabilmente seduttori dei signori.
In un libro recentemente tradotto in italiano il critico americano Harold Bloom studiando la rilevanza di metodo critico che possono avere, per la nostra cultura, le procedure del giudaismo medievale, ha rammentato con una citazione di Nietzsche che nell’artista e nel poeta l’ideale ascetico di ritirarsi dalla vita si trasforma “nel desiderio di essere diverso, di essere altrove”. Tale ricerca di identità diversa e di distanza presiede anche ai due modi estremi di lettura della poesia. Entrambi oltrepassano il testo stesso; di qui l’eterno, giustificatissimo, ma inutile lamento del filologo e del critico di fronte a questo modo di attraversare il testo poetico. Lo oltrepassano in due possibili direzioni. La prima si trasferisce verso l’ambito del linguaggio individuale, nel “diverso” e “distante” reame dei problemi etimi (percorso da voci che, come dice Holderlin, “tacite hanno fine nel cuore del poeta”: e, diciamo noi, in quelli di tutti gli uomini); e così una nuova poesia, un nuovo testo, effimero solo perché non scritto, ma potenzialmente scrivibile, nasce dall’incontro fra la voce del testo scritto e le nostre voci “interiori” e dunque nel cosiddetto silenzio. L’altra direzione invece cerca e trova la diversità e la distanza, quindi un nuovo testo, nella gestualità e la teatralizzazione, convocando i destinatari, chiamando a comparire, ad essere fisicamente implicato, quel pubblico che la poesia lirica fingeva assente.
Nella lettura intima e privata della poesia lirica, fra il tempo che è del testo e quello soggettivo della lettura resta sempre uno spazio di inadempienza, di incompiutezza. Quante volte leggendo in silenzio la poesia, anche la più grande, abbiamo creduto di sentire che quella, come Pascoli dice di uno dei suoi spettri familiari, “ai poveri labbri si tocca” perché vorrebbe dire anche di più e più veracemente; perché la conclusione della parola poetica è nel suo trasmigrare dal tempo dei separati verso il tempo dei gruppi umani.
Ma, anche, quante volte, nella pubblica o ad alta voce lettura della poesia, anche della meno grande, abbiamo creduto di sentire che fra il tempo solitario del testo e quello di relazione degli ascoltatori restasse sempre una inadempienza o incompiutezza. E ascoltando la poesia veniva in mente la parola che alla fine di una sua lirica Brecht dice al suo compagno lettore: “Non aspettarti nessuna risposta se non da te”; perché la conclusione della parola poetica è anche nel suo trasmigrare dal tempi dei gruppi umani verso quello di noi separati. Che se vi sono coloro i quali conoscono una sola di quelle due strade e non tutte e due, a quelli temo non solo torcano il viso le Muse e le Grazie ma anche non pochi altri démoni o dèi.
Discorso tenuto da Franco Fortini all’inaugurazione dell’anno accademico 1981-82 dell’Università degli Studi di Siena. Pubblicato, a cura di Carlo Fini, nei Taccuini di Barbablù n. 6, Siena 1986.
LA POESIA AD ALTA VOCE
2008-03-22 13:48:32|
Interessantissimo! Grazie Nevio,
Luigi