Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce

Redatta da:

Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.

pubblicato martedì 19 novembre 2013
Blare Out presenta: Andata e Ritorno Festival Invernale di Musica digitale e Poesia orale Galleria A plus A Centro Espositivo Sloveno (...)
pubblicato domenica 14 luglio 2013
Siamo a maggio. È primavera, la stagione del risveglio. Un perfetto scrittore progressista del XXI secolo lancia le sue sfide. La prima è che la (...)
pubblicato domenica 14 luglio 2013
Io Boris l’ho conosciuto di sfuggita, giusto il tempo di un caffè, ad una Lucca Comics & Games di qualche anno fa. Non che non lo conoscessi (...)
 
Home page > e-Zine > "LA RIMOZIONE" DI DAVIDE NOTA

"LA RIMOZIONE" DI DAVIDE NOTA

di Fabio Orecchini

Articolo postato giovedì 7 aprile 2011

Foresta erba selvosa,
l’infanzia silenziosa.

Nel rogo piattaforma,
l’effigie della norma.

C’era una volta un padre,
l’icona che non s’apre.

Serenità seriale,
la strage funzionale.

La rimozione di Davide Nota è un testo cupo e terrigno, classico e popolare; sin dall’incipit di questa strage funzionale, annunciata poi sviscerata, rotta in piccoli e minuziosi massacri, ci si immerge nel bosco della condizione contemporanea con la lente di un insetto-entomologo che studia altri insetti, le metamorfosi interne, le mute.
E’ una venatura di sangue infetto che scorre nelle viscere della terra rimossa, nella carne spolpata fino al midollo della storia ciò che unisce l’unghia del macellaio e la moglie del farmacista (alle prese con due romeni superdotati); e’ la vanga del contadino che scortica la terra cotta dal sole, è un colpo d’ascia del boscaiolo che succhia l’anima alla pianta, ma è anche il verme, il lombrico arcuato che striscia e sempre muove sotto quella terra, nella corteccia cerebrale dell’albero-pensiero.

"Io sono un continente./ Chiudessi gli occhi riuscirei a intendere/ persino gli argini, il bordo, gli orli./ E mi accompagno a questo limine / di roccia e sale, a questa / successione di frane."

La frana, la rovina, la caduta sono elementi ridondanti, forse come espressione estrema del rimosso, del non-potere, del non. Un mancare, uno svenimento consapevole, come un raver dopo ore ininterrotte di up & down, anfetamina e ketamina, stare troppo dentro per poi scomparire nell’arco di 20 secondi 20. Che fare? Chiudersi a guscio o espatriare nell’io universale?(ma anche in Francia o Spagna o Sud-America, per quel che mi riguarda..).

E’ la follia acerba dello sguardo sulla paura stessa del guardare, del vedere, come dell’essere visti, veduti. Avvistati. Lo sguardo dell’impotenza, del potenziale irrisolto e irrisolvibile.

Nota si muove nel contemporaneo accopagnato da uomini-bambini che ad occhi chiusi attraversano la campagna con la voglia irresistibile di guardare il corpo martoriato del suicida squartato dal treno della vecchia modernità: "Restò qualche brandello da scostare/ in mezzo al prato giallo, sui binari./ Scendevano di fila gli scolari/ nella campagna aperta, ad occhi chiusi./”.

Esistono però alcuni versi “macchinosamente semplici”, alcuni passaggi fin troppo chiari ed espliciti, direi barbaramente didascalici, che se da un lato, citando la prefazione di Raimondo Iemma, richiamano il discorso di Deleuze e Guattari sulla letteratura minore “non nella scala di valore artistico, ma nell’intento di fare della propria lingua un uso minore”, dall’altro rischiano di distogliere l’attenzione, scadendo nel controsenso dell’invettiva “classica” pronunciata però ad alta voce in un bar con gli amici de "La Gru" (collettivo di cui Davide Nota fa parte), esasperando il condivisibile discorso sulla “rivolta del ridicolo” contro la casta dei letterati, attaccati alle loro piccole poltrone, untuosi come i capelli rossi sul cranio di Berlusconi a Lampedusa, e della lingua morta che tuttora predicano, una lingua di Stato e stato (participio) (e scurdammece o passato...eppure Foucault l’hanno letto tutti!!, bè tutti non proprio, ma almeno sentito nominare..). Mi riferisco ad esempio a: "Mi sembrate un fottuto corpo insegnante/ a cui sparare un peto devastante/ che per millenni puzzi di diarrea./ Oh letterati, antica merda: bleah!/ Ai dotti preferisco i transessuali/ che almeno quando bruciano è davvero/ piuttosto a chi s’appiccia manco un pelo/ del culo se si brucia una scoreggia."

Interessanti e potenti arrivano poi una serie di testi satirici e osceni (nel senso pasoliniano), perentori e definitivi, senza possibilità di fuga poetica, crudi e ridicoli, sembra di legger Di Ruscio in certi momenti....ma anche uno Scataglini sfacciato e post-moderno, lo sguardo adriatico, graffiante, nel linguaggio irriverente della parola comune.

Poeta, cosa voglio ignoro./ Il quadro degli orizzonti è pieno./ L’ambiente ridicolo. Il possibile designato/ vuoto. Ho sognato / una casa che non c’era e una sorella/ nell’origine. Ma pure tu baciare/ vuoi nel modo in cui morire/ non sia più l’arido male. Ma l’altro/ non esiste./
E per sognare servono i soldi./

Le vacche di quarant’anni in compagnia dei mariti/ spompinano travesti/ e pompati ragazzini./ Per i glutei li afferrano o sedute sui divani/ divorano le travi/ dei figli dei vicini."

Dal “giardino” del poeta dialettale anconetano, un luogo di privazione ed emarginazione, luogo di raccolta per la voce dei senza voce, dei senza lingua (privati quindi del “potere”) si passa ad “un bosco” di muschio e funghi velenosi, di larve e animali notturni, di umido terrestre che tutto avvolge e irrancidisce, racchiude il marcio, non fertilizza, come se la terra non riuscisse, non volesse, assorbire i resti, l’hummus umano. E la poesia stessa perde il suo nutrimento come il suo nutrire e si abbandona ad un io-universo come sconfitta, come perdita, senza pathos, aver patito.

Si diceva proprio ieri, “che belle le arance sui viali di Roma”, ma aspetta che cadano, e sprigionino il nero a schizzi, i bordi marroni, eppure la scorza fuori rimane sempre splendida, irrorata dal sole. Di un arancio pop, quasi snob. Ma l’uomo è dentro, sanguinario e sanguigno, già morto e sepolto, coperto da una terra, per alcuni versi tipicamente italiota, dove sembra poter nascere solo il “fiore del fascismo universale”.

Persino la mia testa
se forzo l’unghia al cranio
perde una pelle morbida,
una polvere bagnata

che è carne morta, una
membrana da cambiare.

La chiusa del testo, nonostante le due “chiusure” del libro, a mio avviso rimane questa, immagine salvifica e ridicola, la generazione nostra, la necessità di gemmare, deflagrare, gloriosamente vili, già stanchi, meschini:

Quando usciremo dalle gabbie elettriche,
se troveremo pure noi un lavoro,
la forma sarà il frutto che riposa
di una gemma gloriosa.


Davide Nota è nato nel 1981 in provincia di Milano, da padre lucano e madre marchigiana. Dalla prima infanzia risiede ad Ascoli Piceno, dove nel 2005 ha fondato la rivista di poesia e realtà «La Gru».
Nel 2005 ha dato alle stampe per LietoColle il suo primo libro di poesia, Battesimo, con una prefazione di Gianni D’Elia. Nel 2007 ha pubblicato per Zona Il non potere, con una lettera prefatoria di Luigi-Alberto Sanchi. Nel 2009 ha curato per Effigie il libro Riscritti corsari di Gianni D’Elia, con una premessa di Furio Colombo, mentre nel 2010 ha curato per «La Gru», in collaborazione con le redazioni di «Argo», «Left» e «L’Unità», l’e-book Calpestare l’oblio, dando vita ad un acceso dibattito sulle pagine dei principali quotidiani italiani.
Dal 2008 vive a Roma.

CASA EDITRICE SIGISMUNDUS: http://www.sigismundus.it/

3 commenti a questo articolo

"LA RIMOZIONE" DI DAVIDE NOTA
2011-04-08 21:03:02|di Davide

E mi scuso per questo commento scritto di getto e non rivisto, così come parlando dal vivo; ma è un po’ così - stiamo parlando, senza il terrore dell’errore. Anche se poi mi rendo conto che il rischio che un lavoro formalmente sfiancante di quattro anni possa essere inteso come naif, c’è. Ma non importa. Per quanto mi riguarda credo che sarà poi sull’ambiguità, sul limine; su quell’incertezza (la storia vaga) anche di risiedere nella serietà o nel gioco - nella biografia o nella finzione - e che si propaga come un odore imprevisto che non riesci a definire e perdi nell’ambiguità semantica (Viòla o Vìola? Muta aggettivo o sostantivo o verbo? Còlto o colto?; ogni enjambement apre universi paralleli che l’a capo chiude) che andrà fatto un discorso più esatto che ancora anche per me è da metabolizzare. E’ vero sì, che si è in un bosco, in una successione di frane, di cadute fangose. Scrivevo ad una amica: ogni sguardo è un enjambement. Non chiudiamo mai gli occhi. E grazie ancora per l’attenzione rara.


"LA RIMOZIONE" DI DAVIDE NOTA
2011-04-08 20:36:15|di Davide

Caro Fabio,
la mia promessa di dialogo in verità si limiterà ad un appunto che vorrei aggiungere a postilla di questa tua bella lettura.
L’immagine dell’arancia che pende lucidamente irreale, cade sul selciato infetto di Roma e si spalanca, nuova caverna di sughi, succhi e odori: frutto che non seminerà, disperderà il suo potenziale sotto le plastiche delle scarpe da ginnastica degli abitanti della grande città, sarà poi scartato come gomma da masticare al primo scalino o tappetino condominiale; EPPURE in un frammento d’apertura - poco prima della disfatta finale - avrà ricordato qualcosa che gli è negato, la memoria simulata del ciclo vitale.
Quello che chiami classico; e che forse è maniera - la “lingua seconda” di Fortini (se “Ogni lingua parla di sé stessa” - più o meno scrive così Benjamin - non c’è altra possibilità d’adiacenza che parlare una lingua morta nella storia “sepolta sotto la neve” di Roversi o nel grande freddo di Grifi - e che ora è neve sporca, pestata a sangue, ma nessun accenno ancora della futura stagione). Da questa ibernazione della storia immaginare il germoglio sepolto che “non conosceremo”. L’unica sincerità linguistica che risiede nella sua assenza: e questa è la prima parte del libro: l’arancio irreale sopra all’albero dei viali di cui parli, come una presenza senza luogo, un “corpo ricusato dalla storia satura”, privo non solo di luoghi ma della dimensione temporale stessa, abbarbicato a memorie saltuarie e intermittenti: il rigetto fisiologico in una spiaggia pinta dal neon viola dello stroboscopio di uno chalet come unico mistero fanciullesco. Ricordare l’inizio di un’attesa, durante l’attesa che non finisce più. E che prima o poi la si farà finita, in un modo o nell’altro; in Francia o in Sud America (sogniamola così, per ora).
Non prima certo di cadere sul selciato e spalancare il proprio sgradevole succo alla città dimentica della fisiologia dei corpi: la seconda sezione di questo doppio libro a doppia chiusura, errata e disperatamente allegra o meglio dire tragicomica. Il ridicolo. L’orgoglio del ridicolo, del cattivo gusto.
Qui c’è un antefatto, che è questo: http://www.lagru.org/index.php?opti...
A pagina 41 accade dunque questo, che quello che tu chiami “arancio” e che io ho chiamato nel libro “noce” cade (si stacca dal proprio ambiente) - e cadendo scopre la “gravità”. E nella gravità tocca il selciato e s’apre; ed aprendosi scopre la propria verità.

La noce buona è eburnea
sotto una fresca membrana,
la marcia è una castana invece
peluria di vermi.

Qui inizia la rivolta del ridicolo, come l’ha definita Raimondo Iemma; e che è una rivolta contro la concezione del ridicolo. L’abolizione del buon gusto accademico, i bei versi di cui ride Michelstaedter, a suon di peti e tragicomiche risate: pare arrivi Villon a cavallo in questo delirio notturno dipinto ad olio da Nicola Alessandrini, in questa Alice nel paese delle ossessioni, con sotto braccio un personal computer pieno di virus scaricati assieme ai pornazzi: il Trovatore canta “la mistica allegria degli alienati” con l’occhio torvo e scavato, corroso, di chi non ha nessuna strada ma neppure facoltà di darsi un tono. Unico dovere: massacrare la finzione con “un peto devastante / che per millenni puzzi di diarrea.”.
Sono le ballate del cattivo gusto, della sgradevolezza, in cui l’io è il nostro condannato ridicolo inconfessabile in rivolta (velleitaria? Non solo: auto-dichiaratasi “demenziale”) contro un trentennio di finzione culturale anche di una sinistra ultra-borghese ed antipopolare.
Di fronte a questi foulard indignati di classismo contro il cattivo gusto italiano il mio caro Villon canta (mostrando l‘uccello, perché è ubriaco) e prende le difese degli ultimi, dei derisi (“è mio fratello o sono io persino”).
Qui sì, c’è molto del clima anche da bar di paese sud marchigiano - che fai bene a ricordare, sono un provinciale e il mio amore ne è pieno - la bella risata piena e grassa, gonfia ed oliosa. Sugosa, che ammiro. I baffi sporchi di sugo con la pancetta.
Per questo è vero che è quell’arancio che dice tutto e ti ringrazio ancora per avermelo ricordato. Sembrava tanto bellino lì appeso, e poi esplode e fa tutto questo schifo. Era meglio se fosse stato finto! (O morto).

Con affetto, GRAZIE. (Ho solo detto 1/infinitesimo di quanto avrei, sfiorando solo praticamente tutto, ma mi fermo). Dav.


"LA RIMOZIONE" DI DAVIDE NOTA
2011-04-07 13:27:00|di Davide

Intanto GRAZIE. Più tardi tornerò, anche per un dialogo fraterno con Fabio, che dice molte cose su cui mi piacerebbe intervenire. Davide


Commenta questo articolo


Un messaggio, un commento?
  • (Per creare dei paragrafi indipendenti, lasciare fra loro delle righe vuote.)

Chi sei? (opzionale)