Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

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LE PAROLE TRA GLI UOMINI, n. 2: Umberto Saba

di Luca Baldoni

Articolo postato mercoledì 14 luglio 2010

Numero_2: Umberto Saba (parte II: 1932-48


Oggi occupandoci della tarda poesia di Saba tocchiamo un argomento che penso dovrebbe convincere anche gli scettici sulla necessità di studi che si occupino senza reticenze e pregiudizi della presenza omosessuale nella nostra cultura. Le poesie sui fanciulli di Saba che ho postato la volta scorsa non hanno infatti mai destato troppo scandalo, e vengono spesso menzionate (anche se non analizzate) dai critici come prova dell’omoerotismo latente nella psiche del poeta. Le ragioni di questa relativa tolleranza sono evidenti; un conto è proiettare il proprio desiderio su figure esterne di giovani popolani illuminati da un alone di classicità, altro è confessare in prima persona il coinvolgimento con un individuo del proprio sesso. È proprio questo il salto enorme che Saba fa nella poesia della vecchiaia, la cui densità omoerotica è stata sino ad oggi ignorata dalla critica. E direi anzi che la fioritura omoerotica della vecchiaia, innestandosi sui precedenti ma meno decisi tentativi di dar voce alla propria omosessualità, rappresenta una delle rivoluzioni interiori più profonde e radicali a cui assistiamo in tutto il corso del Canzoniere.
A partire dalla raccolta Ultime cose (1932-45), il Canzoniere si arricchisce infatti di un nuovo personaggio, un fanciullo numinoso ma reale, unico, per il quale il poeta manifesta un’intensa passione. Il giovane in questione si chiamava Federico Almansi, ed era nato nel 1924 da Emanuele, piemontese di famiglia ebrea, librario antiquario legato a Saba da rapporti professionali e d’amicizia. Il poeta lo conobbe nei primi anni Trenta a Padova, e immediatamente ne fece il nuovo astro della sua poesia in un momento di inaridimento della vena creativa. Le poesie di Ultime cose testimoniano di una passione che esplode prorompente in un contesto storico sempre più cupo, e che Saba sembra non solo voler dire, ma addirittura urlare al mondo, con un superamento radicale dei procedimenti indiretti praticati in prevalenza sino ad ora.
Durante la guerra Saba e Federico saranno separati, l’uno perseguitato e l’altro partigiano. Si rincontreranno nel dopoguerra, quando Saba si stabilirà per lunghi periodi a casa Almansi a Milano nella speranza di trovare un lavoro in campo editoriale. Federico continua ad essere la sua musa, apparendo trasfigurato nelle figure mitologiche di Ganimede o Telemaco di Mediterranee (1946-47), il figlio-amante a cui il poeta continua a rivolgersi sino allo struggente epilogo di Epigrafe (1947-48, apparsa postuma nel 1959). In questa raccolta testamentaria (l’unica che Saba non volle pubblicare in vita), si intuisce una oscura crisi che determina la fine del rapporto, e che è probabilmente ricollegabile alla grave malattia mentale che colpì Federico portandolo all’internamento in istituto nel 1949. Il giovane non uscì più dal suo stato e morì nel 1979.
Riguardo a tutta questa vicenda, esistenziale e poetica, la critica ha steso un silenzio assordante. L’ho ripercorsa brevemente non per amore del pettegolezzo biografico, ma perché la presenza di Almansi come musa poetica è un dato centrale del tardo Saba con cui gli studiosi continuano a non voler confrontarsi. Ci sono le poesie, eloquentissime, che leggerete sotto, eppure esse non vengono mai messe in relazione l’una con l’altra, o in rapporto con gli eventi personali della vita di Saba in quel periodo. Si pensi ai fiumi d’inchiostro dedicati (giustamente) al trattamento poetico che Saba riserva in gioventù al rapporto con la moglie Lina, è la disparità di trattamento risulterà evidente. Mentre la vicenda amorosa di Saba per Almansi andrebbe considerata, per la qualità dei versi che ha ispirato lungo l’arco di un quindicennio, come uno dei grandi amori poetici del Novecento italiano, alla stregua di quello di Montale per Clizia, o di Saba stesso per Lina. Ci sarebbe molto altro da dire su questo “caso”… ma attendo le vostre reazioni dopo la lettura.
L.B.



da Ultime cose (1944)


AMICO

Trovare,
quando la vita è al suo declino, il raggio
che primo la beò: un amico. È il bene
che mi fu dato.

Simile a me e dissimile, ribelle
e docile. Lo guardo
a me vicino respirare come
un figlio fuor d’ogni speranza nato
tenera madre.

In breve partirà, per la sua via
andrà, dubbia e difficile. Alle angosce
dei miei anni in discesa lascerà
egli la casta dolcezza di un bacio.

Ma, se il tempo gli orrori suoi precipita,
a serena letizia oggi si è volta
per lui la mente mia.



DALL’ERTA

Dall’erta solitaria che nel mare
precipita – che verde oggi e schiumoso
percuote obliquo la città – si vede
il bianco panorama di Trieste.

Tu già le conoscevi – dici – queste
mie strade, ove s’incontra, al più, una donna
che la lunga salita ansia, un fanciullo
che se Bòrea t’investe, mette l’ali
a ogni cosa, per te vola. Poi torna
a se stesso, ti passa accanto altero.

Tutto un mondo che amavo, al quale m’ero
dato, che per te solo oggi rivive.



PER UN FANCIULLO AMMALATO

Nella casa paterna ti aggiravi
silenzioso come un gatto. Il nome
sapevi, non la realtà, del dolore.

Dai tuoi compagni diviso, le rose
sulle guance affilate impallidivano.

Rinato dalla mia anima, fiore
della vita, fanciullo amico. È tua
questa che ancora rimane estrema
lacrima che non vedi.



QUANDO IL PENSIERO

Quando il pensiero di te mi accompagna
nel buio, dove a volte dagli orrori
mi rifugio del giorno, per dolcezza
immobile mi tiene come statua.

Poi mi levo, riprendo la mia vita.
Tutto è lontano da me, giovinezza,
gloria; altra cura dagli altri mi strana.
Ma quel pensiero di te, che tu vivi,
mi consola di tutto. Oh tenerezza
immensa, quasi disumana!



IN TRENO

Guardo gli alberi spogli, la campagna
deserta, a tinte invernali. A te penso
che ti allontani, che lasciai da poco.
Mette la sera come un roseo fuoco
sulle casette, sugli armenti; il treno
in fuga volge nella corsa folle
qualche animale giovane e galline
versicolori.

Straziato è il mio cuore come sente
che più non vive nel tuo petto. Tace
ogni altra angoscia per questa. Ed appena
la dura vita a tanti mali regge.

Ma tu muti conforme alla tua legge,
e il mio rimpianto è vano.



da Mediterranee (1947)


IL RATTO DI GANIMEDE

Era un giorno fra i giorni. Era sereno
l’Ida; le capre brucavano in pace,
date in guardia a pastore adolescente.
Solo il cane qua e là vagava inquieto.

Sul volto del fanciullo ombre passavano.
Forse troppo severo il re suo padre.
Forse anelava ai compagni

– sull’Ida
erano molti della stessa età,
che tutti delle stesse gare amanti,
per il bacio di un serto, violenti
si abbracciavano a un coro d’alte grida. –
Bianche in cielo correvano le nubi.

Sempre il cane su e giù fiutava all’erta,
ed il gregge più unito in sé stringevasi.
Ai presagi insensibile, il pastore,
oblioso al suo compito, sognava.

Fulminava dal cielo aquila fosca.
Si sbandavano greggi, si sgolava
il cane.
Già dell’azzurro il fanciullo
bagnava un’ultima volta la terra.



ANGELO

O tu che contro me vecchio nel fiore
dei tuoi anni ti levi, occhi che all’ira
fiammeggiano più nostra come stelle,
bocca che ai baci dati e ricevuti
armonizzi parole, è forse il mio
incauto amarti un sacrilegio? Or questo
è fra me e Dio.

Alto cielo! Mio bel splendente amore!



da Epigrafe (1959, testi del ’47-48)


VECCHIO E GIOVANE

Un vecchio amava un ragazzo. Egli, bimbo
– gatto in vista selvatico – temeva
castighi a occulti pensieri. Ora due
cose nel cuore lasciano un’impronta
dolce: la donna che regola il passo
leggero al tuo la prima volta, e il bimbo
che, al fine tu lo salvi, fiducioso
mette la sua manina nella tua.

Giovinetto tiranno, occhi di cielo,
aperti sopra un abisso, pregava
lunga all’amico suo la ninna nanna.
La ninna nanna era una storia, quale
una rara commossa esperienza
filtrava alla sua ingorda adolescenza:
altro bene, altro male. “Adesso basta –
diceva a un tratto; – spegniamo, dormiamo.”
E si voltava contro il muro. “T’amo –
dopo un silenzio aggiungeva – tu buono
sempre con me, col tuo bambino.” E subito
sprofondava in un sonno inquieto. Il vecchio,
con gli occhi aperti, non dormiva più.

Oblioso, insensibile, parvenza
d’angelo ancora. Nella tua impazienza,
cuore, non accusarlo. Pensa: È solo;
ha un compito difficile; ha la vita
non dietro, ma dinanzi a sé. Tu affretta,
se puoi, tua morte. O non pensarci più.



LETTERA

Ti mando, amico, due poesie che sono
ultime voci d’uno sulla terra,
legate a un filo che la guerra rompere
non può, né giovanile il tuo delitto.

Se ti piacque, per noi dattiloscritto
sogno mediterraneo, quell’azzurro
fascicolo che in dono
ti lasciavo partendo, oggi tu, buono,
le aggiungi a quelle a Telemaco. In breve,
spero, ci rivedremo. Il tuo delitto
non è grave: è di avermi un po’ scordato.

***

LE PAROLE TRA GLI UOMINI - L’omosessualità e la poesia italiana moderna e contemporanea
n. 0
n. 1

3 commenti a questo articolo

LE PAROLE TRA GLI UOMINI, n. 2: Umberto Saba
2010-07-17 14:48:28|

@ Gianmario Lucini. Ringrazio per le tue osservazioni sui testi, che nel complesso condivido. Mi permetto solo di aggiungere una chiosa sull’uso delle parole (omoerotico, gay, omoaffettivo, omoamoroso etc...) dato che penso sia un argomento che rispunterà fuori a più riprese. Qualunque testo/studio di gay studies che non si limiti alla contemporaneità (dove la parola gay può essere storicamente applicata senza timore di incorrere in anacronismi), si trova di fronte al problema di definire il suo ambito. E’ ovvio che Saba non può essere definitivo gay perché sarebbe anacronistico, mentre invece il termine può essere usato della poesia di Buffoni. Per Saba stesso come per Penna poi (e molti altri) bisognerebbe parlare più precisamente di pederastia piuttosto che di omofilia. Poi in ogni autore possiamo trovare poesie chiaramente erotiche, come altre che, secondo la definizione di Lucini, sarebbe meglio definire omoamorose. Insomma il problema c’è, e per questo nel sottotitolo di questo progetto, piuttosto che parlare di "poesia gay" o "poesia omosessuale", ho preferito parlare di "omosessualità nella poesia", per tenere i due termini in relazione ma separati. L’idea è che di volta in volta, per ogni autore, o per ogni fase della produzione di un autore, si individuino i possibili nessi tra desiderio/amore/affettività per un individuo dello stesso sesso e produzione poetica.

P.S. Mi risulta che uno che gli amici che ci segue ha dedicato molto del suo tempo a ricerche sulla figura di Federico Almansi. Vuoi/puoi condividere con noi qualche informazione in più rispetto a quelle che ho fornito?

LUCA


LE PAROLE TRA GLI UOMINI, n. 2: Umberto Saba
2010-07-16 14:56:56|di Gianmario Lucini

Non sono certo fra le migliori poesia di Saba, ma non sono cattive poesie, e sono "vere" (questo, credo, conta più di tutto) anche se questa "verità" è celata dietro un velo (di pudore? di paura? non saprei). Se penso ai tempi in cui furono scritte e alla situazione personale difficile di Saba, posso capire il senso di quel velo.
Quanto alla "verità" dietro ogni maschera, credo che Saba (sempre considerando i tempi in cui scriveva) abbia molto da insegnare a tutti noi ancora oggi.
Tuttavia io non le considero poesie "omoerotiche", perché non sono "erotiche". Sono poesie amorose di tendenza omosessuale. L’eros è altra cosa, è vita, è progetto, è creare, è un atteggiamento positivo che parte dal centro dell’essere, dal "core" (letto in inglese non in romanesco), dalla "pancia". E c’entra anche il sesso non in funzione meccanica e mercificata, ma in funzione di spinta vitale. Qui sento depressione, stanchezza, una prospettiva decisamente senza sbocchi, un senso diffuso di morte. Non c’è eros... e sesso ancor meno.
La definirei poesia "omo-amorosa", se fosse possibile, peraltro un poco angelicata, ma la poesia "omo-erotica" è per me altra cosa.


LE PAROLE TRA GLI UOMINI, n. 2: Umberto Saba
2010-07-15 20:26:14|di paolo

una cosa sincera: saba hai rotto!


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