Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce

Redatta da:

Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.

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La poesia italiana dal 1960 a oggi

considerazioni in margine all’antologia di Daniele Piccini (Rizzoli, Milano 2005)

Articolo postato giovedì 14 settembre 2006

Ricevo dall’autore e propongo volentieri come spunto di discussione le seguenti considerazioni. M.B.

Dicevano i fratelli Schlegel che una recensione - intesa quasi come genere letterario, o almeno come forma essenziale del pensiero critico - dovrebbe essere «la perfetta risoluzione di un’equazione critica». Ma è ovvio che non è possibile dare una soluzione univoca a quell’intricatissimo sistema di equazioni, dalle variabili implose e tendenti all’infinito, dai valori quanto mai contraddittori, relativi, controvertibili, che può essere rappresentata dal panorama, vastissimo e assai frammentato, della poesia italiana del secondo Novecento. Sostanzialmente sterili paiono, del resto, le tante discussioni e le inesauribili schermaglie sulle numerose antologie della poesia novecentesca («il Novecento in liquidazione», è stato detto) edite in questi ultimi anni: polemiche e dispute rese perlopiù vacue ed infondate dagli apriorismi e dalle faziosità che le animavano, e che portavano a denunciare, per partito preso, l’inclusione o l’esclusione di un dato autore senza che ne fosse citato e discusso neppure un verso, oltre che dalla forzosa pretesa di ridurre entro griglie valoriali rigide e schemi e categorie indubitabili un’entità per definizione fluida, cangiante, proteiforme come il contemporaneo, che forse solo uno sguardo duttile, flessibile, mobile, fenomenologico - nel senso husserliano e anceschiano - può cercar d’illuminare.

Prendo spunto dalla recente antologia a cura di Daniele Piccini, La poesia italiana dal 1960 a oggi, Milano, BUR, pp. 900. In questo caso si deve innanzitutto riconoscere al Curatore - a prescindere dagli orientamenti e dalle predilezioni - il merito di avere tracciato, di questo panorama così nebuloso e irto, una mappa e un panorama testuali e bibliografici (essenziale, a quest’ultimo proposito, il corposo repertorio conclusivo) ampi e complessivamente imparziali, pur se prevalentemente intonati, parrebbe, ad una linea neo-orfica di ripensamento e aggiornamento della grande lezione simbolista, surrealista ed ermetica, una linea ancorata alla grande testimonianza - il cui rilievo storico non può del resto disconoscersi - della rivista «Niebo» e dell’antologia La parola innamorata.

Maggiore spazio si sarebbe potuto dare, coerentemente proprio con questa atmosfera e questa impronta prevalenti, a poeti forse sottovalutati come Danilo Bramati e Mario Baudino, autori di due opere ragguardevolissime, entrambe edite da Guanda, rispettivamente Nel cuore della luce e Grazie (che contiene, inter alia, il poemetto Brindisi, a mio parere uno degli esiti più alti, per densità lirica, accensione visionaria, densità gnoseologica, della poesia dell’ultimo ventennio): due libri, questi ultimi, in cui il respiro discorsivo e narrativo (evidente soprattutto in Bramati), peraltro infittito di risvolti meditativi e simbolici, si concilia molto più di quanto non avvenga, poniamo, nel Cucchi aspro, oggettuale, “lombardo”, del Disperso, con l’approfondimento della parola in sé, còlta nel suo autonomo e puro valore estetico e conoscitivo. E le predilezioni di chi scrive andranno semmai, sulla base di questi presupposti, al Cucchi della Luce del distacco, animato da una teatrale verticalità di linguaggio mèmore della grande tradizione della mistica apofatica, e implicato, su questo fondamento, in un’ascesi letteraria che conduca dalla greve rudezza delle cose e dei fatti all’aura più luminosa e tersa, ma non meno innervata di vita e di esperienza, del pensiero e della poesia.

Qualche perplessità può invece destare, oggi, la poesia di Alessandro Ceni, che sembra largamente ondeggiare, divagare, distendersi, di suggestione in suggestione, di associazione in associazione, di agudeza in agudeza, alla ricerca del lampo di luce improvviso, della repentina condensazione di significato, della inattesa e sorprendente folgorazione espressiva che possano gettare su tutto il testo una luce di senso e di pienezza, ma che spesso il lettore è destinato ad attendere invano.

Ad ogni modo, si deve rendere merito alla linea editoriale di questa antologia per aver posto nel dovuto rilievo, nell’aver saggiamente salvaguardato, quella che si suole definire come la “specificità”, cioè la purezza, l’assolutezza, diciamo pure la nobiltà e l’altezza, della parola poetica, sovente esposta, nell’odierno universo semiologico e comunicativo, e specialmente negli autori più giovani, a contaminazioni e ibridazioni con altri linguaggi (primo fra tutti quello della canzone), con il risultato di snaturarla, per così dire di adulterarla, alterando - se non violentando... - la sua delicata natura, la sua fragile essenza, il suo statuto ontologico quanto mai problematico, cangiante, sospeso.

Che - come si sente dire - la canzone, più o meno d’autore, soddisfi un “bisogno di poesia” radicato e diffuso, che potrebbe, se opportunamente guidato, orientarsi verso la poesia in versi destinata alla lettura, è lecito dubitare, dato il lampante ed abissale dislivello di cultura, complessità e consapevolezza culturale che divide, sul piano della fruizione non meno che su quello della creazione, l’ambito della poesia d’arte da quello della musica popolare e di consumo. Come pensavano gli antichi, “la bellezza è difficile”. Né, sia detto per inciso, si comprende per quale motivo, se non forse per ragioni promozionali, un critico stimato come Roberto Galaverni abbia dato ad un testo in cui peraltro, in modo forse un po’ scontato, ma non privo di dottrina, si ribadisce giustamente e calorosamente il ruolo, proprio del poeta, di tenere - come diceva Pound - “in efficienza il linguaggio”, proteggendolo da fattori di esterni di strumentalizzazione ideologica, appiattimento convenzionale, imbastardimento commerciale e mediatico, il titolo di Il poeta è un cavaliere Jedi (Roma, Fazi, 2006, pp. 137, € 15): contrariamente all’icona postmoderna e kitsch che campeggia sulla copertina, Dante (ben lontano, nella sua vera essenza, accuratamente celata «sotto il velame de li versi strani», da quello farsesco e sguaiato, per quanto pittoresco, che risalta dalle forse troppo decantate letture di Benigni, e anzi, al contrario, quasi emblema e personificazione stessi di una Musa difficile, di una poesia “doctrinata”, dotta, densa di cultura, di un’arte consapevolmente erede di una tradizione millenaria, e tramata, scriveva Thomas Carlyle, da un canto in cui risuona «il silenzio di dieci secoli muti») non ha nulla da spartire con una spada laser, segno gelido e inumano di una cultura postmoderna, mediatica, asetticamente artificiale, superficialmente illusoria. Credo che ancor oggi il poeta (come Callimaco, come Orazio, come Mallarmé...) detesti il profanum vulgus, non beva alla pubblica fontana, non calchi la strada seguita dai più.

Ma una poesia che affermi e difenda la propria autonomia e la propria assolutezza sarà inevitabilmente indotta a riflettere, in chiave metapoetica, sulla propria natura, sui propri mezzi e fini, sul proprio spazio vitale e le proprie modalità di esistenza; se non a farsi (ed è proprio questa, da Mallarmé in poi, l’essenza della poesia contemporanea) metalinguaggio, discorso che parla di sé, enunciazione del proprio stesso parlare, del proprio stesso dirsi ed esserci, quando non della propria insensatezza, della propria assenza di fondamento, in definitiva della propria impossibilità.

Ci si rammarica, allora, che il curatore abbia scelto, in modo peraltro legittimo, il discrimine cronologico dell’esordio dopo il ’60: un discrimine che ha portato ad eludere il variegato ed irto cammino secondonovecentesco di autori (da Luzi a Bigongiari a Zanzotto) di formazione in senso lato fra surrealista ed ermetica, che, sorti in vario modo e per diverse vie dal vasto alveo della poesia pura, delle poetiche della parola e di quelle del sogno, dell’analogia, dell’associazione, si sono poi via via interrogati con lucidità assidua, tesa, quasi eroica, sulle dimensioni e sulle sorti di un linguaggio poetico sempre insidiato, discusso, minacciato, sempre proteso e gettato sugli abissi dell’indicibile e dell’informe, del «magma» o del «ricchissimo nihil» da cui - per citare lo Zanzotto di Meteo - si dipartono, «dimentichi» e «intontiti», tutti i possibili «infiniti» di un dire poetico infinitamente proteso, quasi per una sorta di “limite” in senso matematico e fisico, sul ciglio delle inesauribili vertigini dell’essere e del nulla.

Né si comprende appieno l’accusa sostanziale, rivolta a Zanzotto come a Sanguineti, quest’ultimo peraltro antologizzato (entrambi, per quanto divisi da una polemica anche aspra, ascrivibili ad una comune temperie epocale d’innovazione e di sperimentazione ardite e tormentate, tant’è vero che pochissimi anni dividono due opere capitali del secondo Novecento come La beltà e Laborintus), di non essere per così dire usciti dal linguaggio per farsi incontro al vissuto e alla storia, di non avere varcato i limiti della pagina, lo spazio, tendenzialmente autoreferenziale e adiabatico, del testo, di avere insomma esercitato, in modo manieristico, se non sterile, una sorta di “poesia per specialisti”.

Essere, per citare Ferlinghetti, «poets’ poets writing poetry about poetry», «poeti per poeti che scrivono poesie sulle poesie», è, a ben vedere, esattamente la condizione essenziale, tragicamente solitaria, del poeta contemporaneo, marginalizzato dalla comunicazione di massa e privato, per sua sfortuna o fortuna, di un pubblico che lo ascolti e gli faccia eco (ma che rischierebbe, d’altra parte, di condizionare la sua parola, di compromettere la sua autonomia e la sua libertà irrinunciabili). Per una sorta di tragico pathei mathos, di strenua «comprensione per via di sofferenza», la grandezza del poeta contemporaneo (la quale in sostanza coincide, mi sembra, con il suo grado di autocoscienza letteraria e di consapevolezza critica) risiede proprio nell’abitare virtuosamente, quasi eroicamente questo esilio puro e silenzioso, nell’inondare il suo remoto deserto della luce ostinata e abbagliante di un “mestiere” e di un’ “arte” accesi dal rogo appassionato della razionalità creativa, dell’identità stilistica, dell’appartenenza storica.

Né sarà del tutto giusto tacciare questi due poeti di inappartenenza epocale, di fuga dalla storia, di elusione del tempo e degli eventi nel chiuso laboratorio dell’artificio stilistico: al contrario, nei loro versi pullulanti di ecolalie, bisticci, azzeramenti semantici, e tesi, a tratti, fino ai limiti del non-senso, della mancanza totale di significato e di intelligibilità nel senso usuale, è possibile scorgere proprio la diretta, quasi necessitata, ancorché criticamente sorvegliata e filtrata, oggettivazione verbale di uno stato di neurastenia e di alienazione (da intendersi, quest’ultima, in senso ora mistico, ora marxiano, vuoi psicanalitico, vuoi esistenzialistico) che sembra aver colpito, in un dato momento, un’intera società, un’intera civiltà, un’intera concezione storica ed epocale, né a ben vedere sembra essersi, a tutt’oggi, pienamente sanato.

Continuare a riflettere e a consumarsi, in modo ostinato e forse vano, sullo specifico del linguaggio, sull’elaborazione stilistica, sul ripensamento e sulla riscrittura, per quanto a volte distorcenti e stranianti, della tradizione, del canone, della biblioteca, del museo, della millenaria, quasi inorganica stratificazione del pensiero e del Verbo, è forse ciò che resta da fare ai poeti; e prendere atto, sconsolatamente ma lucidamente, di questo stato di cose, è, mi sembra, condizione indispensabile al loro rilievo storico, alla loro consistenza, in una parola alla loro grandezza.

Si può vedere, come a sintesi di questa tensione insieme stilistica e gnoseologica, Ascoltando dal prato di Zanzotto, fra i vertici assoluti della lirica secondonovecentesca: nella «nota sempre sbagliata» eppure «al di là di ogni esempio azzeccata» battuta insistitamente da un «dito annichilito» si concentra un’interrogazione esistenziale ed ontologica fondamentale, «non mai esauribile / né esistibile», che sfocia infine in un cieco «indovinare», in una sorta di mallarmeano «scacco», «colpo di dadi» od «oscuro disastro».

Una fredda ed intellettualistica “poesia per poeti”, per specialisti, può apparire semmai, oggi, quella di Magrelli (il quale, peraltro, non può non figurare in un’antologia del Novecento, non foss’altro per l’oggettivo rilievo storico e generazionale che riveste, a posteriori, un libro come Ora serrata retinae): le parole che «vengono dal silenzio» e che «s’incastonano/ nella bianca calce della pagina» (sulla scia del grande tema, già mallarmeano e dannunziano, del «bianco silenzio» che avvolge e fascia la parola e il canto) paiono entità puramente mentali e razionali, nudamente logiche, immuni e preservate da ogni assalto e da ogni epifania così della trascendenza come del profondo.

Un’ottica, peraltro, non lontana da quella da me delineata nelle pagine che precedono (un’ottica, intendo, volta a preservare alla parola poetica la sua purezza, la sua specificità, il suo spessore storico) sembra motivare, in questa antologia, lo spazio giustamente accordato a Franco Scataglini e Umberto Piersanti: due autori che, pur percorrendo vie divergenti, fanno dello scavo, della regressione stilistici e memoriali (d’impronta più o meno esplicitamente prenovecentesca o antinovecentesca) una sorta di sentiero per risalire, come diceva Valéry, «alle sorgenti del poema», fino alla sorgente, alla fonte (sorta di Ippocrene o di «fons Bandusiae») del dire poetico. E poco importa se ciò avvenga, nell’ultimo Scataglini, attraverso l’adozione di una sorta di metatemporale, sovrastorica koinè umbro-marchigiana, di sapore jacoponico, e in Piersanti, invece, tramite una rete di echi e risonanze di timbro vagamente bucolico, virgiliano o pascoliano, filtrata magari dal Bertolucci della Capanna indiana o da quello, ultimo, di Verso le sorgenti del Cinghio. Si pensi, nella prima delle Bucoliche, al mito essenziale e primario delle selve che risuonano del nome dell’amata, facendo risplendere una sorta di rinnovata sintonia, di restaurata simbiosi, tra la voce e il silenzio della natura e la parola umana, articolata, voluta, consapevole.

Nell’uno come nell’altro caso, in Scataglini come in Piersanti, a prendere corpo sulla pagina e nei versi è la Parola, il Verbo, il dire puro e necessario, si manifestino essi nella «voce del divino/ paterno», voce sottratta alle «scritture ineloquenti», di Scataglini (una linea, questa, che sembra proseguire, sempre in area marchigiana, nel recentissimo Ronda dei conversi di De Signoribus, che insegue, nelle profondità del pensiero e della carne, la parola radicale e primigenia, annidata «prima dell’alfabeto», al di qua della temporalità distesa del linguaggio regolato e articolato, nell’«inconosciuto corpo/ della scritta parola»), o piuttosto nel «fresco e odoroso [...] / profilo della grazia», luminoso e netto nel «tempo oscuro che lo cerchia», di cui parla Piersanti. E si confronti un altro autore non incluso, Cesare Viviani, che nella sublime Opera lasciata sola canta il «vuoto niente dei cieli», l’«indescrivibile forma dell’Uno», l’eterna «assenza di effigi, di anime,/ di altezze inimmaginabili», e nelle pagine saggistiche di Il mondo non è uno spettacolo fissa le prerogative, vastissime e insieme angoscianti, di una parola che è «il tutto, l’universo infinito, ma un infinito impensabile, in cui si è immersi e da cui non si può uscire».

Nella coscienza secondonovecentesca, all’ontologia negativa, sostanzialmente nichilistica, di uno Zanzotto, o alla visione ancora più radicalmente, quasi ciecamente materialistica e antimetafisica, di Sanguineti, sembra giustapporsi un’ontologia positiva, piena, inverante - sebbene forse destinata, essa stessa, in presenza o in assenza della prospettiva di una trascendenza e di un divino, a naufragare, all’ultimo, nell’«infini-rien» di Pascal, a far coincidere, una volta negato ogni terreno limite, ogni proporzione immanente, il supremo tutto con l’estremo vuoto, con il puro nulla. Ma, almeno nel caso di Zanzotto, sono comuni, a queste due vie dell’ontologia poetica secondonovecentesca, lo sforzo ostinato di conoscenza, la richiesta inesausta e inesauribile di senso.

Nella stessa ottica si giustifica il rilievo dato, nell’Introduzione (anche se purtroppo non nella scelta antologica), ad un poeta di formazione neo-orfica, ma votatosi poi ad una forma di inquieto e moderno classicismo, come Giancarlo Pontiggia, di cui si coglie l’occasione per segnalare la recente, ragguardevole raccolta Il bosco del tempo. Nei suoi versi, la parola poetica sorge, sulle orme del Virgilio georgico, avvolta dal brusio delle api, simbolo classico e cristiano, ma anche umanistico, di feconda e laboriosa humilitas (i «puri suoni» dei versi sono «celle/ di un pensiero più forte, ronzanti/ nelle stanze quiete», si condensano nel «miele che distilla una quieta/ pace» e nel «tempo [...] che lo affina»), non senza toccare però un respiro mitopoietico originario, cosmogonico, che fa pensare all’Esiodo della Teogonia o all’Ovidio del proemio delle Metamorfosi («Canto ciò che fu prima/ e ciò che venne. Tutto/ era sospeso in una/ quiete lunga, nel forte/ vuoto»), o porta a risolvere talora - in un modo che si potrebbe definire serriano - la vivida percezione del testo classico in catene avvolgenti di metafore, analogie, suggestioni: «Plinio leggevo, il Giovane,/ in quelle albe, le sue epistole/ soffuse di una verde ombra muschiosa».

Più difficilmente si comprende invece, benché avallata da molte antologie precedenti, l’inclusione di Vivian Lamarque, la cui poesia mi sembra, nel complesso, fragile, fatua, vacuamente risonante, studiatamente tesa a far intuire o intravedere una profondità in definitiva inesistente, ad accennare a una complessità e ad una ricchezza in realtà assenti, a mascherare, insomma, una sostanziale mancanza di spessore culturale e concettuale. Se si voleva, come del resto era giusto, rendere conto di una certa linea musicale, cantabile (se non cantilenante), melica e idillica, della poesia contemporanea, si poteva includere un Ruffilli, che sotto la superficie di una musicalità fluida, limpida, scorrevole, quasi mozartiana, cela riflessioni storiche ed esistenziali spesso amare e profonde (se ne veda il recente, splendido La gioia e il lutto, sprofondato, anche sulla scia del Profeta di Kahlil Gibran, nella nera luce della vita e della morte, del tempo e dell’eternità) o un Claudio Damiani, i cui versi limpidi e melodiosi, e insieme discorsivi, risuonano lontanamente da paesaggi e scenari eterni, immoti, senza tempo, da una natura incontaminata ed ancestrale, che ha qualcosa di Orazio come di Pascoli; o, magari, dare voce alla Musa straniante, ipnotica, allucinata di Beppe Salvia, che muoveva da un patrimonio e da un repertorio classici manieristicamente, quasi scolasticamente rivisitati e riplasmati onde esprimere una vocazione estetica che pare di per se stessa proiettata e precipitata verso l’annientamento e il vuoto, consacrata al «bianco nulla» della tela e della pagina, che inghiotte infine la stessa vita.

Ci si può rallegrare, viceversa, dell’inclusione di Raffaello Baldini, che rende il debito riconoscimento all’importanza che la poesia neodialettale romagnola, capace di attraversare in profondità e scuotere dalle radici, immettendovi una vena di più deciso e impietoso realismo, l’ispirazione bucolica e idillica insita nella lezione del maestro Spallicci, riveste nel panorama poetico contemporaneo: si può vedere, al riguardo, l’equilibrata antologia Le radici e il sogno. Poeti dialettali del secondo ’900 in Romagna, a cura di Luciano Benini Sforza e Nevio Spadoni, Faenza Mobydick, 1996.

Nel dialetto, in linea generale, la poesia sembra aver ritrovato la dimensione del vernacolo ora come lingua pura, “vergine”, incontaminata, come naturale via d’accesso e punto di partenza per una possibile “discesa alle madri”, per un ritorno alle radici, prelogiche e pregrammaticali, dell’essere e del pensiero, ora - si pensi ad un Loi - come icastico e talora rude strumento espressivo capace di cogliere gli aspetti dell’umano più densi, scabri, corposi. Credo, però, che forse un giorno si dovrà riconoscere il più alto esito della neodialettalità romagnola non nel pur ragguardevole “realismo impuro” - cioè narrativo, discorsivo, accesamente caratterizzato, e nel contempo deformato, talora, attraverso un’ottica visionaria, allucinatoria, grottesca - di un Guerra o di un Baldini, ma piuttosto nel lirismo purissimo, traslucido e sapiente, a tratti cristallizzato, astorico, nutrito di fantasmi e di archetipi, di Tolmino Baldassari, che non a caso, in un suo intervento, oppone agli assalti del “villaggio globale” una poesia che «filtri», «attraverso lo studio, la cultura in senso lato, e particolarmente la cultura letteraria», la nuda immediatezza esistenziale del «porsi nel mondo».

Inoltre sarebbe tempo, a mio avviso (ma so che questa opinione non è condivisa dai più), che della vulgata e del canone antologici della poesia del Novecento entrassero finalmente, e stabilmente, a far parte due “poeti professori” dotti, profondi, possenti come Giorgio Bàrberi Squarotti e Silvio Ramat, del quale è da poco uscita presso Interlinea, fra l’altro, l’opera poetica completa: si tratta di autori che, forse, per il loro voluminoso e corposo spessore erudito, incontrano difficoltà ad essere recepiti in un contesto culturale come quello italiano, che non ha avuto poeti per così dire cattedratici come un Allen Tate o un Richard Wilbur, e che sembra a volte restare ancorato ad un frainteso e banalizzato mito, pascoliano o sabiano, di spontaneità, naturalezza, “onestà”.

Ramat e Squarotti si rivelano, anche come poeti, capaci di perlustrare e di rivisitare il museo o il canone di tutta l’identità letteraria occidentale, di vagare e spaziare nei meandri e nei labirinti della Biblioteca di Babele (mitico ed emblematico luogo borgesiano che non a caso ricorre costantemente nella poesia di Squarotti), nonché di guardare a fondo, con lucidità, senza veli o infingimenti, al nucleo di vuoto e di nulla, all’abisso di vanità e d’insensatezza che si annidano e pulsano dietro il velo variopinto e risonante delle forme e delle parole. Si può dire, pur nelle differenze anche sostanziali fra i percorsi dei due autori, che se, da un lato, Squarotti (da La declamazione onesta al Marinaio del Mar Nero al recentissimo, splendido e quasi ignorato Le vane nevi) insegue e vagheggia, come il Fauno di Mallarmé, le fuggevoli parvenze e le subitanee ed evanescenti incarnazioni di una Bellezza nuda e fragile, sempre insidiata dalla violenza della storia e dall’abisso del nulla e della morte, dall’altro Ramat, nei suoi libri più tesi ed organici - e segnatamente in quelli degli anni Ottanta, da L’inverno delle teorie a Orto e nido, pervasi da una «tentazione poematica», da un’«idea di poema» che «ti segue e ti ha precorso», che sembrano suggerire qualche contatto o qualche convergenza con la coeva esperienza dello Zanzotto della “trilogia” o con quella dell’ultimo Bigongiari - affonda lo sguardo e lo scandaglio poetico-critici nelle «lacune del senso», «oltre la lettera», «nel grembo/ dell’indistinta Citazione», e impronta il suo canto ad una «vocalità di abisso», ad una quasi surrealistica «lingua del sonno». Egli esplora, insomma, ed esperisce le profondità e le tenebre di una parola, di un Verbo che, nel loro stato abissale, impersonale, quasi inorganico, dicono e ripetono, eternamente, il nihil aeternum, lo stesso unico senso ultimo di tutti gli infiniti enunciati possibili - pur lasciando dischiusa, quasi montaliano «fantasma che ti salva», una dantesca «speranza dell’altezza», un balenante riflesso che piove «dall’alto, più alto della voce».

È con questi fondamenti ontologici, o se si vuole con questa tragica e vacua assenza di fondamenti, che il poeta contemporaneo davvero consapevole e maturo (e tale dunque, per definizione, da poter essere considerato “canonico” e “classico”) deve, anche correndo il rischio della freddezza, dell’intellettualismo, dell’ornatus difficilis, misurarsi.

Che la linea prevalente, e comunque in sé legittima e coerente, di questa monumentale antologia paia tendere, in definitiva, a conciliare un fondo neo-orfico con una stretta adesione alla vivezza dell’esperienza e all’immediatezza del sentimento e della testimonianza, anteposte in ultima istanza alla mediazione conscia e riflessa dell’elaborazione stilistica e della consapevolezza culturale e letteraria, può risultare confermato dal fatto che essa si conclude con Davide Rondoni, la cui oggettiva importanza è comprovata, se non altro, dal suo largo influsso (attestato in primis dall’antologia I cercatori d’oro) sui cosiddetti “poeti nati negli anni Settanta”.

Un testo splendido, teso e vibrante, come Il terzo figlio (peraltro forse viziato, nella chiusa, con quella rimalmezzo perso-universo, da una cantabilità un po’ esteriore e facile) entrerà certamente, e non senza ragione, nella vulgata antologica della poesia degli ultimi decenni. Ci si può anzi rammaricare del fatto che il lettore non trovi qui un altro testo abbagliante come la Suite per Irene, che affianca anch’essa momenti di consistente lirismo sapienziale, intriso di mistica, luziana “conoscenza per ardore” («Irene, dolce fascina,/ passando per il terribile/ hai trovato la fiamma/ chiara dell’invisibile»), a cadute moralistiche e prosastiche («...chi fa del nero inoculato ai ragazzini/ la propria spettrale,/ ricca professione»).

Forse, paradossalmente, il Rondoni migliore è il critico, animato da un’«intelligenza militante», come Daniele Piccini felicemente la definisce, che - l’ho già fatto notare altrove, indicandolo quale tratto tipico di taluni poeti-critici - sa cogliere, con una sorta di balzo intellettuale ed ermeneutico, il mondo e l’essenza di un autore per restituirli sulla pagina con la concisa rapidità della definizione fluida ed aperta o con l’intenso lampo della metafora, preferiti alla rigidità della categoria e della formula.

Ma il fatto che un’autorevole e rigorosa antologia della poesia italiana secondonovecentesca si concluda con Rondoni ha qualcosa, se così posso dire, di teleologico, se non di escatologico. Con Rondoni - per parafrasare il Carducci, acutissimo, di Critica e arte - la poesia muore: non beninteso in quanto tale, non come poesia in senso lato, poiché come tale essa non può morire, bensì solo trasfigurarsi e trasmutarsi in altre, diverse e nuove, forme; muore - in modo, potrebbe dire qualcuno, salutare, salvifico, preludente a una limpida risurrezione - in quanto arte (o artificio), in quanto elaborazione stilistica e formale germinata dal terreno del passato, della tradizione, del pensiero, in quanto metapoesia, discorso che parla di sé e cresce su se stesso riflettendosi. Muore, potrebbe dire qualcuno, come il chicco di grano del Vangelo, per poter germinare e dar frutto.

Ma questa poesia non “muore al mondo” per rinascere in se stessa, nella sua essenza pura e chiara: piuttosto, essa muore a se stessa, viene meno alla propria autonomia, alla propria interna riflessione, alla propria intima tensione, per farsi incontro, pur generosamente e nella più autentica, quasi disarmata buona fede, all’esperienza dell’umano e del divino, immergersi nel reale, divenire una “cosa nel mondo”, più che - come voleva Rilke - “aggiunta” ad esso per inverarlo o redimerlo; essa diviene insomma - direbbe certa fenomenologia - oggetto fra gli oggetti, parte integrante e compromessa del “mondo della vita”. In termini hegeliani, questa “morte della poesia” è forse piuttosto un “superamento”, un “oltrepassamento” della poesia stessa in direzione della realtà, della vita, della testimonianza. «C’è una sala giochi a Cervia/ due stanzoni larghi/ spogli/ Alle macchine si appoggiano/ Quindicenni/ come cose [...]». Qui, come nei concreti e corposi “poeti-prosatori” secondonovecenteschi (i cui archetipi e maestri andranno forse additati in un Giudici o un Loi, se non già in certo Sereni), cose, oggetti, figure si proiettano, e per così dire aderiscono e attecchiscono, sulla pagina senza più lo schermo, il filtro e la mediazione di una spessa e rigorosa coscienza letteraria, stilistica, storica (certo presente all’autore, ma volutamente dissimulata, aggirata - messa, sempre in senso fenomenologico, “fra parentesi”).

Discorso non troppo diverso si potrebbe fare per la poesia di Gianfranco Lauretano (qui non incluso), per la sua prosasticità franta, ansante, a tratti angolosa e ruvida - e pur così densa di sentimenti, di affetti, pregna di un’eticità autentica, mai ostentata o didascalica, intimamente, e quasi pudicamente, vissuta. Sono, quelli di Lauretano come quelli di Rondoni, versi per così dire vergini, che paiono sorgere come rose nel deserto, da un vuoto aurorale e primevo, da un’esclusione o un azzeramento preliminari di ogni ascendenza e di ogni scuola, eccezion fatta forse, in Rondoni, per certi echi e reminiscenze che affiorano, di tanto in tanto, da Baudelaire a Eliot, da Péguy a Luzi, ma sempre piegati, un poco unilateralmente, ai fini di una poesia immediata, fatta di vissuto, esperienza, testimonianza. Sembra esservi, in Rondoni, una sorta di cieca “superstizione del dicibile”, di un poco gratuita ed irriflessa fiducia nella parola usuale e usurata, nel dire quotidiano e materno.

Io credo che, come la fede non può - dopo Nietzsche, dopo Heidegger, dopo la teologia della demitizzazione, della crisi, della “morte di Dio” - esser data per scontata, come l’idea stessa del Divino e dell’Essere non può più partire che dalla propria preliminare, demitizzante negazione, e non dall’aprioristica certezza, così, dopo Mallarmé, dopo Valéry, dopo Zanzotto, la poesia non possa muovere e trarre alimento se non dal proprio esser-ci drammatico e contristato, dal proprio cupo Essere-per-la-morte, dall’abisso sempre aperto e opprimente dell’impossibilità, del nulla, dell’afasia.

Così posta, la poesia s’intride di riflessione e di pensiero, si fonde con la critica, si fa poesia della poesia, del proprio essere, o non poter più essere, poesia: e solo in questa forma può continuare a detenere la sua dimora cristallina e fragile nelle regioni dell’arte e del pensiero. Paradossalmente, l’arte trae vita dalla morte, da una - dice Valéry - «nouvelle morte/ plus précieuse que la vie»: deve morire al mondo per poter davvero e pienamente nascere e vivere, deve negarsi alla realtà e all’immediatezza dell’esperienza, ripiegarsi e chiudersi su se stessa, per affermarsi ed attestarsi come poesia.

Matteo Veronesi

68 commenti a questo articolo

La poesia italiana dal 1960 a oggi
2009-08-29 23:08:18|

DOCTOR FAUSTUS di Thomas Mann

- I miei due figli servono oggi il loro Fuhrer, uno in un posto borghese, l’altro nelle forze armate... così i legami di questi giovani con la tranquilla casa paterna sono assai lenti.-

Il romanzo racconta la vita del compositore tedesco Adrian Leverkuhn.
Il protagonista venderà l’anima al diavolo in cambio dell’immortalità della propria opera artistica.

- La natura stessa è troppo piena di produzioni a sorpresa, che danno del magico, di capricci ambigui, di allusioni semi velate e accennanti stranamente a un mondo incerto, perché i devoti, nella loro pudica moderazione, non debbano scorgere in queste occupazioni una temeraria trasgressione...
Non mi si venga adire che qui non si comunica niente ! É una comunicazione inaccessibile, e contemplare questa contraddizione è pur anche un godimento... da ragazzo, comprendevo chiaramente che la natura extra umana è fondamentalmente illetterata, e questo, secondo me, costituisce il suo lato inquietante.-

- Intanto un generale d’Oltre-Atlantico fa sfilare la popolazione di Weimar davanti ai crematori, e dichiara (dobbiamo dire: a torto?) quei cittadini che hanno tenuto dietro apparentemente con onore ai loro affari e tentato di non saper nulla, benché il vento portasse alle loro nari il puzzo di carne umana bruciata: < li dichiara correi degli orrori ormai smascherati...>.-

- Il mio racconto s’avvia alla fine < come tutte le cose. Tutto precipita verso la fine; il mondo è sotto il segno della fine, lo è per noi tedeschi...>
La profezia della fine, detta “Apocalipsis cum figuris”, risuonò, grande e tagliente, nel febbraio 1926 a Francoforte sul Meno...-

- Chi del concerto poté udir la fine
fu soltanto un cagnetto,
che quando torno a casa
ahimè! Si mise a letto.-

- ...ora non voglio più nascondervi che fin dai miei ventun anni son legato a Satana...
Non crediate, diletti fratelli e sorelle, che per la promessa e la stipulazione del patto...
San Tommaso insegna che per l’apostasia non v’è necessità di parole, e che per far l’evocazione basta un atto, anche senza un espresso omaggio.-

Libro lento, noioso che non posso consigliare...

Lorenzo Pontiggia
il Poeta marylory


La poesia italiana dal 1960 a oggi
2009-07-25 19:31:27|di lorenzo pontiggia

LA FATTORIA DEGLI ANIMALI di GEORGE ORWELL

Noi che siamo? Che non usiamo neanche i cinque sensi d’esser peggio degli animali...
Agli animali manca la RIFLENTE, (Riflessione-Mente).
Noi che l’abbiamo dalla nascita, ma a causa dell’atto di Caino ci troviamo in anamnesi, da cui nasce l’incapacità dell’umano di creare un’alternativa da tradire se stesso e la sua progenie...

- Tra i maiali e gli uomini non vi era e non doveva esservi urto alcuno d’interessi.-
- Se voi avete i vostri animali inferiori contro cui lottare, noi abbiamo le nostre classi inferiori!-
- Signori, ecco il mio brindisi: alla prosperità della Fattoria Padronale!-

- Le creature di fuori guardavano dal maiale all’uomo, dall’uomo al maiale e ancora dal maiale all’uomo, ma già era loro impossibile distinguere fra i due.

Orwell, si rifà alla mancata Rivoluzione Russa: Lenin (Palla di neve) tende a realizzarla..., ma Stalin (Napoleon), gira e rigira crea la democratica dittatura basata sulla imperante speculazione verso gli animali schiavi a due zampe, il prossimo!

Novembre 1943-Febbraio 1944

Solo 130 pag. divertente, facile lettura, consigliabile...

Pontiggia Lorenzo


La poesia italiana dal 1960 a oggi
2009-04-27 14:51:46|

Succede, AMORE

Perdere...
Spemo che non tremi...

Non cerco
nel confronto la pagliuzza...

A malincuore
non c’è vincitore..

La purezza brilla
nel volto del vivere...

Assolviamo pensando
alle dolci ore...

Son Poeta, megalomane,
che colpa ho!

Se Amo girar la strada
lavorando d’Amor...

Centellinando il verbo
siam finiti a terra...

Pensandoci
ho il magone...

Per fortuna ho scritti
che parlan di te...

Così in libertà
vivi in me AMORE...

Lorenzo Pontiggia


La poesia italiana dal 1960 a oggi
2009-03-22 20:00:46|di lorenzo pontiggia

Internet

- Ciao a tutti,
essendone direttamente interessati abbiamo deciso di lanciare una discussione su uno dei temi caldi del momento: quali regole per Internet?-

Rispondo:
le regole in Internet nascono in coscienza di Riflente (Riflessione-mente), soprattutto nelle scuole, dove buone maestre possono insegnare non solo ad usare il computer...

- La Rete delle Reti oggi si configura come una zona franca ove, nel bene e nel male, si può fare e dire praticamente tutto e - se si è un minimo accorti e si dispone degli strumenti adatti - l’impunità è poco meno che garantita.-

Rispondo:
la Libertà d’espressione e l’educazione civica comportamentale è demandata alla scuola almeno dell’obbligo, ma purtroppo per mancanza di etica da parte dei governanti che sfruttano l’ignoranza non è insegnata, così si tira a campare...

- La natura intrinseca di Internet ne fa una struttura sovranazionale e la sua regolamentazione richiederebbe un approccio mondiale, forse addirittura un ripensamento del concetto di diritto applicabile agli Stati sovrani.-

Rispondo:
Fallita la globalizzazione per mancanza d’umanità, non vorrei vedere una globa-gattopardo sovranazionale al servizio ancor di più di chi comanda!

- Mentre si continua a pensare però la Rete ospita di tutto: meravigliose battaglie democratiche e civili, orizzontalizzazione dei saperi e delle conoscenze, amplificazione del ventaglio delle opportunità individuali, condivisione di valori ed esperienze; dati estremamente positivi ai quali purtroppo si somma un rovescio della medaglia composto da cybercrimes, truffe, adescamenti, diffamazioni, pedopornografia e traffici illeciti di vario genere e natura, il cui contrasto è sempre più difficile.-

Rispondo:
la scuola è un fallimento, la Rete può dare alle nuove generazione ciò che manca alla scuola!
Non si può pretendere che Caino l’assassino, il nostro antenato per non dire padre, iniziatore delle maleguerre s’arrenda!
Ripeto: è la testa di comando che deve dare l’esempio!

- Vorremmo raccogliere le vostre opinioni su quelli che ritenete i metodi più corretti per favorire
uno sviluppo armonico della Rete che massimizzi i valori positivi, arginando nel contempo
le distorsioni provocate dalle attività illecite.
Grazie per la partecipazione,
Team Community Rai-

Rispondo:
è da nove anni che navigo in un paradiso d’intrighi, ma d’AMORE e sono solo all’inizio del più bell’amplesso dopo quello della Vita e in futuro del Trapasso, d’essere meravigliosamente felice del Dono d’Internet, datoci dall’Immanenza del MISTERO, tramite la Riflente, il mezzo per creare, cambiare in meglio la società a dimensione Umana, principio della Rivoluzione d’AMORE!
Internet è già controllata da Finanza, Polizia, Carabinieri...
Quindi lasciatela vivere affinché diventi la scuola del domani...

Lorenzo Pontiggia
il Poeta marylory


La poesia italiana dal 1960 a oggi
2009-02-13 09:19:11|di lorenzo pontiggia

- Leggere e scrivere
di Paolo Di Stefano

Tutto ciò che riguarda il leggere e lo scrivere: libri di cui si parla e libri di cui non si parla ma si dovrebbe parlare, temi, spunti, autori, tendenze, casi, provocazioni, su cui vale la pena di discutere.

Vai alla rubrica Leggere e scrivere


lorenzo Pontiggia -Giovedì, 12 Febbraio 2009 (Corsera)

Quando i Poeti parlavano a tutti

La Poesia è sintesi
dello scibile umano...
Non ha colori
è se stessa,
illumina il cielo
all’innamorato
di versi d’AMORE...

Scrivere amore
senza AMORE
è di tutti,
l’eccezione non fa testo...
Al Vate
nel dir la Verità
troncan la parola...

Ben accetti i servi
al servizio del potere...

marylory
Lorenzo Pontiggia-

Con AMORE
grazie Amici...


La poesia italiana dal 1960 a oggi
2009-01-30 15:59:06|

Gesù Cristo

Nasce a Nazareth da famiglia laboriosa armonicamente unita nella fede dei Padri, precocemente sviluppa l’intelletto aprendosi al dialogo nel dare un significato alla vita…
A dodici anni in visita alla città di Gerusalemme, lasciò momentaneamente la compagnia dei genitori per dialogare con i saggi del tempio...
Dopo tre giorni fu ritrovato da Giuseppe e Maria nel tempio, in mezzo ai profeti d’allora…
I Dottori consigliarono ai genitori di far studiare il prodigioso giovane, spiegando che sarebbe stato un peccato non far apprendere quelle cognizioni di conoscenza Universale ad una mente così precoce…
Giuseppe, giustamente non era d’accordo, il figlio già abile aiutante nel realizzare i lavori di falegname, sarebbe stato d’aiuto anche per la vecchiaia; la mamma, senza scontrarsi col marito, per il bene del figlio era propensa; il papà, oltre a perdere l’aiuto doveva sostenere il costo dell’apprendimento.
I Saggi dissero di non preoccuparsi per questo, che l’avrebbero mandato ad Alessandria d’Egitto, presso la grande Biblioteca e che mentre studiava lo scibile umano avrebbe dato una mano alla ricostruzione di un’ala bruciata della grande Biblioteca...
Maria, felice, Giuseppe a malincuore accettarono…
Gesù fino a trent’anni, tra studio e lavoro apprese le varie scienze allora conosciute tra cui la filosofia greca, che splendeva per il dialogo democratico dalla scia lasciata da Socrate, che irradiava luce anche tramite la Colonia greca
degli Esseni (vedi le lettere ritrovate) sulla costa del mar Morto.

In piena maturità lasciò Alessandria per ritornare sui passi dell’adolescenza, camminando in carovana ammaliava per le sue avvedutezze i compagni di viaggio, i quali cominciarono a chiamarlo Maestro...
Il vento di voce in voce anticipava i suoi passi e la gente accorreva chiedendogli non solo consigli…
La sua calma, le metafore illuminavano il cammino, la scienza d’Ippocrate creava i miracoli…
Il Popolo d’Israele che aspettava il Messia, pensò che fosse arrivato e cominciò a crederci…
Gesù era a conoscenza di quest’attesa, adoprando la Riflente arrivò a concepire che per il bene del Popolo valeva la pena d’immolarsi!
Si ritirò nel deserto per prepararsi a non deludere se stesso e non deludere le aspettative...
Gesù nella continuità della conoscenza democratica diede l’Identità d’Essere tutti figli di DIO, uguali davanti al Padre (MISTERO).

Gesù alla domanda di Pilato (messa in bocca dai sacerdoti): <…sei accusato d’affermare che sei figlio di DIO?> diede la risposta che gli costò il calvario:
- Sì sono figlio di DIO, perché TUTTI son figli del MISTERO!-.

Dal Libro: Quaderno di filosofia politica La Riflessione... Villa Calliope Editore 2007


La poesia italiana dal 1960 a oggi
2009-01-22 09:32:42|

La Santa Madre

Dal grembo di Santa Terra

nasce la Madonna

Madre di tutto

benedetta dal MISTERO!

Noi poveracci

in nome di conquiste

speculative,

ogni giorno la sfregiamo!

il Poeta marylory


La poesia italiana dal 1960 a oggi
2009-01-20 18:47:29|

Grazie Kea che rappresenti tutti e chi ci legge...
Dono con AMORE la mia ultima Riflessione in Riflente:

La verità si fa strada come risultato della conoscenza dell’habitat,
raggiunto tramite la corteccia cerebrale
della psiche, composta da cellule sensoriali intuitive, atte a
determinare ragionamenti istantanei, stimoli
di energia cosmica che nel cervello producono pensieri variamente
intelligenti finalizzati a cogliere il senso della
vita.
Lo scibile umano esige il contatto diretto dei sensi, usando, ad
esempio, la funzione visiva si proietta lo stimolo
nell’area psico-motoria, da cui nasce l’azione della volontà di
conoscere e memorizzare, a cui si aggiunge
l’intelligenza intuitiva o ragionamento istantaneo analitico
correlato all’immaginazione, facoltà intellettiva
superiore del genere umano, senza la quale non potrebbero nascere le
grandi idee, le scoperte scientifiche,
le produzioni artistiche nei vari campi.
Metaforicamente Caino, per suo interesse personale, allontanando
l’AMORE, la Libertà, la tensione al Vero,
rifiuta l’uso della facoltà intellettiva superiore, in sintesi la
Riflente e pone limiti all’umanità.
Così, finché non si recupererà la Riflente, non si vivrà come esseri
umani non sfruttando appieno tutte le
potenzialità intellettive!

Parte del Libro: La RIFLENTE a breve l’uscita...
Lorenzo Pontiggia
il Poeta marylory


La poesia italiana dal 1960 a oggi
2008-12-01 12:29:27|di il Poeta

- Marylory, leggo affascinato le rime che scegli..e cerco di comprendere.
Il modo "poetico" aiuta a sintetizzare concetti che altrimenti dovrei (parlo per me) sviscerare con lunghi monologhi senza sapere se sono comprensibile, se ho scritto bene...e se ho detto tutto..e poi mi confronto anche con la tua visione dell’Amore che traspare anche dalle tue scelte, che vanno cosi in alto e libere che mi riesce a stento di seguirti.-

Rispondo:
La Virtù dell’AMORE nasce dalla TRASCENDENZA del MISTERO (DIO) concretandosi nell’IMMANENZA dell’AMORE della RIFLENTE (Riflessione-Mente), Dono insito nell’Uomo!
Ogni goccia è cellula che si rinnova nell’inno dell’AMORE al Vivere, accettandosi, sublimandosi, migliorandosi per crescere in Armonia nel darsi un senso Universale…

- Il mio " Io " non è indirizzato amorevolmente verso un "Prossimo" del quale dentro di me non ne vedo bene i contorni, per il quale comunque non manco di altri valori di civile convivenza nella società.
Mi sento spiazzato dall’idea di "Amare" più di una persona per volta e che non conosco.
Un’idea caratterizzata da una più miope prudenza. Paura? Diffidenza?
In essa cerco di ritrovarmi e mi fa anche immaginare di aver raggiunto quella dimensione unica di quel "Mistero della Vita" amando chi con me e come me interscambio quell’ Amore spontaneamente.-

Rispondo:
la Riflente distingue l’Uomo e lo responsabilizza, l’uomo che Vive usa la Riflente, l’AMORE infinito che dà gusto al Vivere, significato alla Vita, Luce al Prossimo senza carità pelosa, ma altruismo al perdono nel segno di PACE di Progresso Umano…

- La fiamma che brucia senza condizionamenti o forzature. Leggere negli occhi di lei e sentirmi dentro cose che né io né lei abbiamo detto a voce, percepire, intuire,intravedere, quasi toccare la" Fonte" di quella felicità unica, quella sensazione strana di pensare all’altro come se l’avessimo da sempre conosciuto.
Da qui potrebbero diramarsi mille rivoli di discussioni o confronti di idee che approderebbero alla Religione, alla Filosofia..e tutte le discipline mentali più profonde.
C’è un racconto zen che dice:
"Oh, quanto soffro. Le altre onde sono così grandi e io sono così piccina. Alcune onde sono tanto ricche e io sono così misera."
L’onda più grande gli rispose "Pensi di soffrire perché non hai visto chiaramente il tuo "Volto originale". "Non sono un’onda? cosa sono?" disse l’onda piccina.
"L’onda è solo la tua forma temporanea. In realtà sei acqua".
"Acqua?" ribatté sorpresa l’onda piccina.
"Quando ti renderai conto che la tua essenza fondamentale è l’acqua, non penserai o crederai erroneamente di essere un’onda e la tua sofferenza sparirà".
"Oh, capisco! Io sono te e tu sei me, siamo entrambe parti di un sé più vasto."-

Rispondo:
l’AMORE di Terra si compenetra nella Spiritualità in un grido d’AMORE delle due cellule che all’unisono esplodono in Trasparenza Creativa del MISTERO!
Si rinnova la Verginità, il Dono dato all’Umanità, il premio all’AMORE infinito che ci fa AMARE il Prossimo nel partecipare in Comunione d’AMORE, principio di Comunità…

"Oh, capisco! Io sono te e tu sei me, siamo entrambe parti di un sé più vasto."

Grazie Kewin Koster, Aliante... e tutti coloro che AMANO la Vita!


La poesia italiana dal 1960 a oggi
2008-10-29 18:50:03|di il Poeta

ESIODO
(dal Libro la Riflente –Riflessione-mente).

Non nutro più alcuna speranza per il futuro del nostro popolo, se deve dipendere dalla gioventù superficiale d’oggi, perché questa gioventù è senza dubbio insopportabile,
irriguardosa e saputa. Quando ero ancora giovane mi sono state insegnate le buone maniere ed il rispetto per i genitori: la gioventù d’oggi invece vuole sempre dire la sua ed è sfacciata.”-
Esiodo

Parole attuali riecheggianti nei secoli, dura realtà che si perpetua da Caino, e che continuerà finché i genitori non adopereranno la Riflente insegnando l’AMORE con l’esempio, e la scuola non preparerà democraticamente i giovani ai valori sociali!
La Poesia deve possedere valori universali e originare emozioni, i poeti adoperando la Riflente sono il sale della Terra, esprimono il loro mondo a tutti gli uomini, insegnando tramite il filosofare a far Politica Democratica.
Esiodo, già nel VIII/VII a.C. si occupò per primo di una nuova poesia: la poesia "didascalica" tesa ad insegnare che la filosofia nella prassi è politica = sintesi di vita non solo pastorale…
Esiodo sa d’essere poeta, a differenza dei poeti tradizionali, egli è un puro, genuino che non si mescola, e per la sua avvedutezza socializzante è definito il poeta degli umili, da non essere apprezzato alle corti…
Esiodo si fa maestro di sapienza, poeta vate, ponendo le basi alla cultura occidentale, la quale fa orecchie da mercante, adoperando solo la pseudo riflente o riflessione speculativa, da non ammettere che la filosofia è la base della vera Politica Democratica…
Di questa realtà Esiodo è consapevole, ma la colpa non è del vate, bensì del Caino che è in noi: la furbizia o l’ignoranza delle virtù che il filosofo ci tramanda…
Esiodo è il poeta del vivere quotidiano, consapevole dell’innovazione, un vate che vuol dare il meglio istruendo gli uomini ai valori che conferiscono dignità al vivere.
Fu il primo poeta a specificare il numero delle Muse, e dar loro il nome.
Calliope, ad esempio, è la musa della parola, dell’etica, la più illustre a contatto con l’autorità politica, la voce del sapere, dell’autorità e nel contempo la voce del piacere…

Lorenzo Pontiggia
Il Poeta marylory


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