Absolute Poetry 2.0
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La salvezza - Testimonianza di lettura de ’Il ritorno all’isola’

di Francesca Matteoni

Articolo postato mercoledì 4 maggio 2011

di Fabio Ciriachi

Ho letto Il ritorno all’isola (Aragno, 2010) di Daniela Attanasio, tutto di seguito (come con la poesia non mi era mai successo) in non più di due ore; consapevole di perdere livelli di senso -che però davo per recuperabili a una rilettura- ma trascinato dal fascino del racconto e desideroso di arrivare dove l’opera, pagina dopo pagina, mi stava portando, perché davvero non c’era niente di meglio, per me, al momento, che seguire quella irresistibile storia d’altri sorprendentemente capace di mostrarmi in modo così intimo e necessario a me stesso.
Non so se questa esperienza di lettura possa venire ascritta alla categoria del “disturbante”, così spesso invocata come doverosa per chi lavora in ambito letterario e artistico. Se non lo fosse, bisognerebbe qualificarla con un aggettivo altrettanto preciso che battezzi una nuova basilare categoria di riferimento, perché le qualità di quest’opera segnano con precisione il confine tra ciò che serve, in letteratura, e ciò che invece confonde di superfluo.
Il ritorno all’isola è una raccolta di poesie che possiede una particolare vena narrativa per cui – senza che nessun singolo testo perda un solo grammo della sua autonoma pienezza poetica – la si legge, ben più che in filigrana, come una sorta di romanzo in versi che tocca i fondamentali della vita: amore, morte, senso dell’esistenza, rapporto con l’altro, confronto con Cronos, coscienza etica, dignità dello stare al mondo, compassione.
La lingua è di una ricchezza emozionante (per questo non le farò il torto di estrarre versi ad esempio). Ci sono clausole memorabili, scarti improvvisi di senso che spiazzano e stupiscono; c’è un rapporto con la natura così profondo da non meravigliare che l’autrice, poi, ne abbia ricevuto in cambio le parole giuste per raccontarlo. C’è il pudore che rende sublime l’amare, la nobiltà dello stoicismo che aiuta a non ridursi in frantumi di fronte alla morte, al fallimento e alla perdita, c’è la consapevolezza che alla fine conta soprattutto quel particolare essere stati attraverso cui, magari, neanche immaginavamo di dispiegare tutte le nostre sconosciute potenzialità per costruire qualcosa la cui forma è riconoscibile solo a cose fatte.
Mi sia consentito, in proposito, citare l’inizio di “Una cicogna come introduzione” con cui si apre Tu che mi guardi, tu che mi racconti di Adriana Cavarero (Feltrinelli, 1997) perché davvero è illuminante: “Karen Blixen racconta una storia che le raccontavano da bambina. Un uomo che viveva presso uno stagno, una notte fu svegliato da un gran rumore. Uscì allora nel buio e si diresse verso lo stagno ma, nell’oscurità, correndo in su e in giù, a destra e a manca, guidato solo dal rumore, cadde e inciampò più volte. Finché trovò una falla sull’argine da cui uscivano acqua e pesci: si mise subito al lavoro per tapparla e, solo quando ebbe finito, se ne tornò a letto. La mattina dopo, affacciandosi alla finestra, vide con sorpresa che le orme dei suoi passi avevano disegnato sul terreno la figura di una cicogna. «Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna?», si chiede a questo punto Karen Blixen. Noi potremmo aggiungere: il percorso di ogni vita si lascia infine guardare come un disegno che ha senso?”.
Ecco, io credo che Il ritorno all’isola racconti esattamente il disegno inconsapevole che Daniela Attanasio (“un nome ebraico e un cognome greco” come scrive in “Enea era un emigrante compassionevole e onesto”) ha fin qui composto, disegno incompleto perché la vita continua, e il libro – che pure adesso così bene racconta le parti fin qui tracciate – diverrà a sua volta parte del racconto futuro. L’isola del titolo, a cui si fa ritorno, è sì Stromboli, su una cui pendice è accovacciata Ginostra, luogo reale di vicende segnanti, ma è anche il sé da cui ci si è allontanati in nome di un’esistenza da esperire. L’amore – un suo modo grande, arricchente e dispendioso – è stato il motivo dell’allontanamento; sempre l’amore – ma un altro suo modo maturo, che ricongiunge al sé disperso nella ricerca dell’altro – è il ritorno, l’autonomia, la quiete che consente di mettersi all’opera e di nominare ciò che è stato, con la rispettosa autorevolezza di chi sa risponderne.
Se mi è concessa una divagazione dietro il Genette di Soglie (quello che si concentra su titolo, epigrafi, introduzioni e tutto ciò che avvolge, precede e conforta il testo) allora noto che un titolo come Il ritorno all’isola, oltre al suo significato primo, ospita al proprio interno il sostantivo “rito”, il verbo “orno”, l’aggettivo “sola”, tutti attori di senso che, come il fuoco di una lente, mirano a concentrare in modo subliminale l’attenzione di chi legge nel punto di massima chiarezza (e anche di massima temperatura) del vedere, del rendere nitido al limite della combustione; punto che sta, sempre, oltre quello del significato primo.
Credo che il “sola” presente in “isola” attenga contemporaneamente sia all’atto dello scrivere – di per sé solitario, che esclude l’altro nel presente del suo farsi per convocarlo in futuro come lettore – sia all’essere riusciti a fare della propria solitudine non la mancanza da riempire, il difetto da aggiustare attraverso la convocazione taumaturgica dell’altro, ma la condizione che permette alla solitudine di mostrarsi, e di essere considerata come una conquista, e quindi di porsi come prima qualità di ogni possibile rapporto, anzi, come suo requisito necessario.
È soprattutto per questa qualità, presente come altre con un meccanismo di perfetta mimesi in ogni risvolto del tessuto testuale, che Il ritorno all’isola si pone, nell’odierno panorama poetico, in una prospettiva originalmente classica. Apparecchiando, come fa, una complessa e riconoscibile epica del quotidiano, sollecita la protagonista – che è luogo esistenziale dove coesistono la poeta e tutti i suoi alter ego (che dicano di volta in volta io o tu o noi, poco importa, a dimostrazione che quella contro l’io è una battaglia di retroguardia) – a passare dalla genericità annichilente della moltitudine anonima che anima il teatro dei giorni e della storia, alla specifica distinzione del compito “eroico” che si è data, che non è quello già visto (e per cui, come cultura, abbiamo già pagato) di elevarsi sugli altri decretandone la piccolezza, o l’inferiorità, ma di testimoniare che proprio quegli altri sono, come lei che ne fa parte, gli attori (magari potenziali) di una coscienza in corso, di una non esaurita possibilità di salvezza.
Un cenno, per finire, ai vari patrimoni stilistici che presiedono al frastagliato linearismo della scrittura poetica di Daniela Attanasio. Data per indiscutibile l’influenza direi più “morale” che formale di Amelia Rosselli (qui presente nelle tre epigrafi che aprono ai tre tempi dell’ultima sezione “Lei, la voce”), vicinanze di orme altrui possono essere individuate nella tenuta narrativa di molta poesia anglo-americana: dalla Plath alla Sexton, dalla Moore all’amato Auden, da William Carlos Wialliams, che firma l’epigrafe di apertura, a John Donne, da William Butler Yeats a Wallace Stevens, ma anche alla fulminante perentorietà dell’ Achmatova (sua l’epigrafe della sezione “Dopo”), oltre alle ripide sospensioni di Celan, e alle piane acquisizioni di Bonnefoy, già protagonisti delle “variazioni” di Sotto il sole (Empiria, 1998), seconda prova dopo l’esordio de La cura delle cose (Empiria, 1993) e prima di Del mio e dell’altrui amore (Empiria, 2005), vera e propria messa in gioco, rischiosa, dell’esistenza come posta totale nella scommessa dell’amore. Poteva soccomberne, ci ha regalato la sua salvezza.


***

Risveglio

Questa mattina uscendo dal sonno
ho visto entrare dai vetri della finestra una luce fredda
simile all’incedere di una compagna risentita e severa.

Qualcuno allora mi spieghi perché la mia finestra,
nei risvegli di luce calda, è Gerusalemme e la sua Moschea
Gerusalemme e la sua Porta, Gerusalemme e il Getsemani.

Sembra non ci sia spazio né aria per i miei risvegli:
o nel freddo fondente dell’alba, così vicino al dolore,
o nel calore del sacro che non tocca la verità dei miei pensieri.

Luce e voce della vita passano senza mai collidere.

*

Enea era un emigrante compassionevole e onesto

Un tempo solo ulivi e capre, paglia e capanne,
al nord legno, fuoco, calzari di pelle e pelo
una terra di metamorfosi e naufragi, lunghi percorsi di luce
di croci, di cristiana pudicizia affogata nell’acquasantiera
un alfabeto verticale capace di far crescere
vegetazioni di leggende e grattacieli

dai monasteri alle logge ducali, distese d’acqua o di nebbia
dal pagano al cristiano come in un vento solo che ha modellato
marmi che trasudano oro, odore di legno, scanalature millenarie -
stanze, stili e tetti.

Sono nata dentro questi confini
ho ereditato una leggenda come si eredita una razza
un nome ebraico e un cognome greco
come un cumulo di ossa

anche se non mi aspetto niente dalla mia patria
anche se alzo gli occhi a un orizzonte lontano
per andarmene via oltre il vanto della Storia
una mano mi tira giù dalle gambe e mi trattiene
a galleggiare nel vento finché la stretta tiene.

***

Daniela Attanasio, romana, ha pubblicato i libri di poesia: La cura delle cose (1993), Sotto il sole (1998, Premio Dario Bellezza e Unione Scrittori Italiani), Del mio e dell’altrui amore (2005, Premio Camaiore) con l’editrice Empirla e Il ritorno all’isola (2010) con Nino Aragno Editore. Sue poesie sono presenti nell’Almanacco dello Specchio Mondadori 2009. Dal 2007 cura la rassegna di poesia e teatro Teramopoesia. Collabora con quotidiani e riviste letterarie.

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