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Lettera dalla Dacia - Matteo Veronesi

questa colpa incolpevole di non amare il mondo

Articolo postato venerdì 21 agosto 2009
da Lorenzo Carlucci

Lettera dalla Dacia

Mi insegue fino qui
come un’ombra malcerta il pensiero
di me stesso -
  fino a questo lembo
estremo di latinità dove ultima trema
la nostra dolce radice prima che si franga e disperda
fra aspri accenti d’oriente

Qui, dove il viso vetusto
scavato, quasi d’uomo, dei Carpazi
scherma l’afa d’Agosto e lascia vivo
sul corpo e nel pensiero un filo acuto d’inverno
che scende fino all’anima, e tortura
o fa più viva la ferita mai chiusa
di questa colpa incolpevole di non amare il mondo
che in se stessa ha la sua pena infinita -
anche qui torno a me stesso, mi vengo
incontro come il mio spettro più tetro -
in questa piega, in questo gorgo del tempo
ricurvo su se stesso come un orfano in lacrime

Come disteso sul limite, sull’esile
lama incosciente che divide lo spazio
incolore di una liquescente Europa -
e così me da me stesso, il mio antico
gelo d’amore da questo amore che muore
o forse non è nato -
  e dalla vanità del travaglio
il bianco della pagina, ciò che non fu e non sarà
da ciò che poteva essere
pur se chiamato al niente -
getto al deserto il mio grido senza voce
alla sorgente ghiacciata dei giorni
il mio pianto senza lacrime, il mio
tormento indifferente -
e i miei anni alla tomba del futuro
all’armoniosa morte senza morte

2 commenti a questo articolo

Lettera dalla Dacia - Matteo Veronesi
2009-08-28 08:17:51|di Patrizia Garofalo

La fine della menzogna in "Lettera dalla Dacia" di Matteo Veronesi

La Dacia, come mare scomposto, ricomposto e poi deflagrato fa da sintesi ad un corpo che diventato “ombra malcerta” dilava e disperde fisicità e percezione d’essere.
All’antichità, scavata nelle montagne come nei visi vetusti, “abbaglia” l’afa che a disfacimento ripropone il non tempo conservando nel caldo torrido il sottile filo di inverni dolorosi e verità appannate e desiderose di pace almeno, se non di ristoro. È questa lamina acciaiata e fredda a rendere continua la stasi anche nel movimento, nello spostamento del luogo, nel disagio di un impossibile differimento.
“Orfano in lacrime” il poeta si riconosce spettro della “pena infinita” di non amare il mondo. Proprio questo però l’assolve, questa consapevolezza che si fa pugnale contro se stesso, che incide viso e corpo, che purifica nella coscienza la grandezza poetica di Matteo Veronesi nel cogliere senza paratie, aspetti di sé che scolpisce come la storia della terra che visita. La storia è veglia coscienza del tempo ed il tempo poetico la rende universale e “limite” è parola impegnativa e polisemica.
Confine forse, territorio franco nel quale liberare il pensiero, fine della pur consapevole menzogna, circoscrizione di sé, atto catartico comunque come ogni gnosi, nella potenza dei versi ritmati da due stupefacenti enjambement.
“il mio antico gelo d’amore da quest’amore che muore/ o forse non è nato/ e dalla vanità del travaglio/ bianco della pagina,/ ciò che non fu e non sarà/ da ciò che poteva essere / pur se chiamato al niente”. Nell’estremamente significativo ossimoro tormento-indifferente, il pianto senza lacrime si fa vitale urlo-muto, graffia, taglia l’afa “d’Agosto” proprio perché ricavato dal grande silenzio del dentro di sé ed il poeta offre la sua dimensione di grandezza proprio nella sua denudazione .
Accolgo stupefatta la grandezza di un’anima.

Patrizia Garofalo (Agosto 2009)


Lettera dalla Dacia - Matteo Veronesi
2009-08-21 12:44:34|di viola

Molto neo-foscoliana ma ottimamente lavorata, V.


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