Absolute Poetry 2.0
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Luigi Ballerini: SE IL TEMPO E’ MATTO

di Vincenzo Frungillo

Articolo postato domenica 23 maggio 2010

Luigi Ballerini, Se il tempo è matto (Mondadori, 2010)

*I testi sono stati postati per gentile concessione dell’editore e dell’autore.

Il legame tra il poema di Luigi Ballerini Cefalonia e il libro in uscita sempre per Mondadori è molto stretto. Il titolo di quest’ultimo lavoro, Se il tempo è matto, era infatti anche il titolo della sezione finale del poema del 2005. Gli stessi testi presenti in quella sezione compaiono con lievi aggiunte e variazione ad inizio del nuovo testo. Queste indicazioni strutturali dell’opera servono per far capire come il discorso poetico di Ballerini abbia una coerenza interna molto forte. Le ragioni della Storia, i fini, le attese e suoi fallimenti sono al centro della sua mietitura poetica. Fin dallo scritto Cefalonia infatti le ragioni dei vinti venivano messe in primo piano senza retorica né nostalgia: la loro memoria veniva confusa con le tante altre voci provenienti dal passato e dal futuro, come se il tempo fosse appunto impazzito. Il risultato era quello di una sostanziale omissione. Come se una voce unica e salvifica fosse coperta dai rumori e dai brusii di fondo. Scriveva Ballerini in nota al suo poema: "nessuna delle razionalizzazioni erogate con puntuale sicumera da questi ipnotizzatori di coscienze riuscirà mai a cogliere il senso storico, testimoniale, rigenerativo che si annida nella materialità degli eventi cui sembrano guardare con tanta intensità. Perché ciò succeda è necessario che alle parole sia concesso di urtarsi, di ammaliarsi vicendevolmente, di attirarsi, di strofinarsi le une alle altre, stimolate da una forte emozioni e da una sete non spuria di verità". Ora, nel leggere le pagine di Se il tempo è matto, si ha la stessa sensazione. I vari componimenti, dal ritmo serratissimo, sono ricchi di rimandi e articolati su diversi registri linguistici: dal dialetto milanese al latino più colto, dall’inglese alle citazioni della nostra tradizione letteraria. Si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad una visione prismatica degli eventi. Una poliopìa immaginativa che mette in crisi il soggetto poetante. L’io poetico (anch’esso personaggio direbbe Elio Pagliarani), resta solo come contraccolpo, come cassa di risonanza delle voci della storia; c’è un’eccedenza ("heacceitas" è il termine di ascendenza scotiana che compare ne dell’arto fantasma nella sua prima versione e che qui viene sostituito con "una pietas in dissidio") che ci sovrasta, ma che allo stesso tempo ci chiama in causa. Possiamo infatti leggere in questo bellissimo e sapientissimo componimento: il ricordo (salace) non sarà una carota-liquerizia,/ ma una liquerizia, tout court, e anzi proprio/ quel ricordo-liquerizia da cui procede l’energia/ ferina e sensuosa che muove la lingua della cosa/ in sé (e il giudizio salvifico alla fine dei tempi):/ epifania propulsiva, e però efficace soltanto/ nell’episodio del tamburino che, sacrificando/ l’interezza della propria gamba per salvare chi/ gli ha imposto di correre (oltre che di suonare)/ rinuncia per sempre a incalzare, mutate in cosce/ volubili di gazzella, le fronde del lauro che fugge:/ oggetto di una pietas in dissidio con il privilegio/ della sua emigrazione da io rimosso e predicativo/ a condizione afasica di soggetto inquietante. La voce del poeta nasce da questa "pietas in dissidio", dall’impossibilità di far coincidere il soggetto della versificazione all’oggetto dato storico. Il risultato è quello che Bataille chiamava una "dialettica in fase di arresto". Il codice comune della nostra contemporaneità sembra essere ormai questo. E Ballerini lo canta con precisione appunto "inquietante". Se i tempo è matto è proprio perché rinuncia ad una finalità teleologica, accetta la salubre schizofrenia dei mondi.


Siempre que te pregunto

que como, cuando y donde
tu siempre me respondes
quizas quizas quizas

Osvaldo Farrés

aggiungi che non si tratta di una madre Russia
e neppure di un parco Michelotti (“garrivano”
bandiere rosse), e che partito vuol dire diviso,
suddiviso, e divisato in paraviso. Se significa
regesto domestico delle varianti, e corpo, liceità
in attesa di sedizione, la sua lievitazione si converte
in prolessi strategica, in lunga conservazione

ma scappare, non scappa niente: anche Giuseppe
d’Arimatea scavalca con lo sguardo il Cristo
deposto e punta con impietosa libidine su di una
Maddalena seminuda. Il corpo è da tempo un bene
in sé che si assottiglia fino a diventare anima,
o a consumarsi nel brodo‑calunnia di un’epifania

non è a pentirsi di una astuzia ripetuta, delle sue
domabili proposte, che si finisce nella banda
degli eccessivi. È per la luce ingerita con il
frutto (pesca, agrume o mela, preferibilmente)
o per un volo acerbo di farfalle musicali che
si attenua la mesta baldoria delle formule,
dell’ascolto incredulo, restio a darsi da fare,
come a farsi sverginare da quelli che la sanno
lunga e però non la sanno raccontare. Corre

voce che un denaro venduto e ricomprato come
un taglio di lana o una fesa di vitello abbia il senso
di un cartello con la scritta “qui c’è da lavorare”.
Anche a fare gli immortali ci si smena, magari
non in salute, ma certo in materia di sapere: è
la pluralità della lusinga che decide il guadagno
insieme all’inquieta repulsione dei suoi valzer,
dei suoi lamenti untuosi come una cantina in tempo

di guerra. E come arbitrarlo, allora, il notturno
sussulto, come, dalla batosta dell’anno, scorporarlo?
Truccando l’onere lustrale di una fissazione dopo
l’altra? o riscuotendo profezie che sanno di coltellate,
di sfregio, di guarda se sbatte disordine d’amore
nella sua stagionale disdetta? E poi, come levarsi
tanto di cappello, quel tanto che basta, che tocca,
che dura (e non tura), quel tanto che disincanta?
di pirati così non ce n’è più che sanno dove, come
e quando termina il milagro e incomincia il business,

o nuova cura conduce all’impostura di una vita
incline all’ipoteca, all’isteria di una legge coltivata
come patrimonio e mai veramente sperperata


*


credo in un dio randagio

credo in un dio randagio, nauseato dalle cause,
che scompare a intervalli regolari, un dio assai
muscoloso, di statura media, che pesca e ripesca,
e a furia di pescare pesca un figlio che da grande
farà il pescatore di figli. Credo in un dio scavante,
silenzioso, che non dà il cane o altro sapido animale
da passeggio, o da grembo, un dio incerto, incerato,
sovraimposto, che apre alcune danze bicostali,
bilingui, bisessuali. Credo in un dio scaraventante
che cammina sulle uova, un dio a ritroso che sta
davanti, che beve, che è sul punto di affogare

credo del pari nella posta in gioco, nella metà e nei
tre quarti del tutto, nel quasi subito e nel quasi tutto,
credo in chi non vede il trucco e, nulla sapendo
della morte, sostiene che sia come fare la fronda
o segnalare la propria presenza nei dintorni e, anzi,
dentro il testo, fino in fondo, perché muoia, quel testo,
di stenti, e sia dunque la morte un uccidere l’altro
che ha scritto, che può tradurci in soggetto. Credo
nella comunione dei malefici, delle ipotesi stanziali

e nelle realtà di passo, credo nelle nudità incrociate
secondo l’aria che tira nella gestione dell’azzardo
e credo nella voce che fa parte dell’intrigo e dello
scatenarsi delle passioni più ignobili, e nel ritmo
dell’intarsio, nel musolungo degli eroi di stato
accecati da un’idea di ragione, credo nel sottovento,
ma con le onde contro, sotto e sopra, e di fianco,
col male in arnese che canta, che attacca i tacchi
a quelli che attaccano i tacchi, e alle tacchine, ai muli
frenetici, ai montoni di un mezzodì che cuoce cervello
e cuore. Credo nel jalous che ritorna e nel jongleur
che se la svigna, nella fatina (che frigna) e tiene pelo
largo e turchino, credo nel bambino che si nasconde
nella marionetta, e nella marionetta che si sgola
coram populo, o che recalcitra di buon mattino

perché qui non c’è Almagna (né Turchia né Spagna)
e la selva non è bianca e non è nera, e nemmeno
è di cera l’equazione di catenaccio e arma, di ghiaccio
che sgombra la metà campo e ombra da cui null’homo
può trarre dignità o sgomento, né può dargli lenimento
l’equanime rumore della perfezione, della cariatide umana
che s’accascia dopo avere creduto di riconoscere
perché non c’è tregua, in Almagna, dopo la vittoria
di chi aveva fatto (e fatto fare), su quelli che s’erano
messi in testa di farcela lo stesso, o magari di farsela
con uno, o con due, e insomma di non badare a spese


*


elogio dei grandi alberghi e perché

basterebbe chiamarsi paul newman e dire come
nella Lunga estate calda, “barba la sera e doccia
la mattina”, e dirlo in casa d’altri, per fingersi
all’altezza e aggiungere magari con arroganza,
“tanto per non intralciare il traffico” (nel bagno,
s’intende), e chiedersi come sarà stato in inglese,
in americano: se anche in quella lingua evitata
dai forrest gump di oggi, dai jay leno e meglio
dai george w. bush di sempre, si riesca a sentire,
soprattutto in quel tanto la voce per sempre
immatura di alberto sordi, nel conte max, che
dopo un “non abbiamo stanze né con bagno né
senza” chiede a un concierge di cortina che gli
procuri almeno... almeno “un bagno senza stanza,
tanto per non dormire all’addiaccio, vero”. Il tutto
magari con un anello solare infilato nel glande,
oppure un sussulto cardiaco alla vista di un morto
ancora composto, appoggiato dal becchino al muro
del colombaio. Beccati questa, tacchinaccio del
malaugurio che sputi sentenze sul vino pramnio
e umili un tuo figlio prim’ancora che sia nato.


*


se il tempo è matto

una pioggia di primi versi che a mandarli sarà
stato il demonio e che a venderli così grezzi si
direbbero strumenti di un’industria in ritardo:
un’officina del neolitico nell’età dei chips (delle
chips?): un tornado sollecito a risarcire tutti
del lugubre erotismo che ci sovrasta, della mezza
stagione che ci possiede: hai voglia a dire ma io,
se l’io non è dicibile neppure come scherzo, come
lena o altalena. Hai voglia a contare, a presumere
schiarimenti (morda, macini, maciulli, sciacqui...).
Nel mondo delle doppie soluzioni, prima di avere
la fortuna alle spalle (o di mettersi alle spalle le
mezze montagne, le mezze tinte, le mezze calzette),
c’è la str di strada che ti agguanta e vivifica per un
istante, e di struttura e di estrella, ma non forse di
estratto (abstract) di olio e canfora e midollo, di
primula veggente che sostiene il trionfo di chi ha
debiti e rovine da restaurare. Adesso sì, adesso no,
come i carabinieri delle barzellette che, obbedienti
e fedeli, si strattonano spingendosi fino a Salemi,
a Falconara, all’isola di Prospero, e oltre, senza
dimostrare affanno, e restando in bilico. Spari.
Sì gli spari fanno capire che non si può rinascere
sotto mentite spoglie; e chi non spara è perché ha
già sparato o si è tagliato il dito del grilletto.


*


tratar de alegrarse

basta che uno dica in città la macchina è diventata
obsoleta il giorno stesso che l’hanno inventata, perché
succedano due cose: primo, la poesia ama farsi ascoltare,
secondo la poesia ama nascondersi. L’oggi viene così:
senza un vero filo d’erba, senza una bava di vento, ma con
l’idea di un concerto di uccelli che dormono a occhi aperti



**

Luigi Ballerini è nato a Milano nel 1940 e vive a New York. Insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università della California a Los Angeles. E’ da sempre attivo sul doppio versante della produzione poetica, tra la più raffinata nell’ambito della sperimentazione italiana, e la traduzione, ma sarebbe più corretto parlare nel suo caso di vera e propria mediazione linguistico culturale. Quest’ultimo impegno lo ha visto artefice negli ultimi anni, insieme a Paul Vangelisti, della diffusione della poesia americana in Italia con una serie di pubblicazioni sui poeti delle principali città americane (Chicago, Los Angeles, New York le città finora prese in considerazione). Contemporaneamente Ballerini sta curando l’antologia in due volumi in traduzione americana con testo a fronte della poesia italiana negli Stati Uniti, Quelli che da lontano sembrano mosche- Poesia italiana contemporanea da Officina ai nostri giorni. L’antologia, che comprenderà i poeti italiani attivi dal secondo dopoguerra ad oggi, mette in risalto una linea finora meno battuta della nostra poesia: quella antilira. Ballerini ha pubblicato numerose raccolte di poesia tra cui eccetara. E (1972), Che figurato muore (1988), Il terzo gode (1994), Uno monta la luna (2001), Cefalonia (2005). Come critico si è occupato soprattutto di avanguardia storica.

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