di Rosaria Lo Russo

Rosaria Lo Russo (Firenze, 1964, www.rosarialorusso.it ), poetrice, da quasi trent’anni interprete della poesia contemporanea, ma anche medioevale e moderna, è poeta, performer, traduttrice, saggista.
Ha pubblicato Comedia (Bompiani, 1998, libro cd), Penelope (d’if, 2003), Lo Dittatore Amore. Melologhi (Effigie, 2004, libro cd) e Io e Anne. Confessional poems (d’if, 2010, libro cd).
Con la voce e la scrittura ha lavorato, collaborando con varii musicisti e compositori, per la poesia di Anne Sexton, Sylvia Plath, Piero Bigongiari, Mario Luzi, Giorgio Caproni, Andrea Zanzotto, Amelia Rosselli, Giovanni Giudici, Iosif Brodskij, Friederike Mayröcker, Erica Jong, Wislawa Szymborska, e molti altri.

pubblicato sabato 14 maggio 2011
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pubblicato sabato 15 gennaio 2011
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pubblicato martedì 19 ottobre 2010
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a cura di Massimo Rizzante e Lello Voce

aggiornato domenica 27 novembre 2011
 

MANGIARSI LE PAROLE

Articolo postato domenica 11 luglio 2010

Dove andare a cercare, se non nel teatro, che non ci basta, che non può bastare, la vocazione poetica?
Chi pratica la poesia – ovvero chi la scrive e la legge; quindi non solo chi la scrive (i moltissimi poeti dilettanti, ovvero i poetastri) e non solo chi la legge (gli attori non poeti) – chi pratica la poesia da Poeta Performer è coinvolto in un’operazione orale e orante e oratoria.

Come potrete facilmente intendere, dall’uso di questi tre termini, è la bocca l’organo principale in questione. Dico organo, perché la bocca è collegata agli apparati digerente e respiratorio: dalla bocca entrano ed escono il cibo e l’aria. La bocca è l’organo produttore e riproduttore (non dimentichiamo che la laringe è considerata un organo sessuale secondario: nelle donne più piccola, negli uomini più grande, il canale laringeo, dove risiedono le corde vocali, è responsabile con le sue dimensioni della nostra voce più acuta o più grave) della poesia in quanto, sì, letteratura-scrittura, ma in quanto “cosa” che fu “sempre della carne” come dice Maria Zambrano in quel testo fondamentale che s’intitola Poesia e filosofia.
La poesia ad alta voce ha la stessa funzione antropologica della preghiera: non per nulla le preghiere spesso sono in versi, e se si pensa ai Salmi biblici, spesso le preghiere sono poesie bellissime. La preghiera dei monaci deve essere detta ad alta voce o cantata. La lettura silenziosa è ammessa, e c’è moltissima letteratura al riguardo, ma Sant’Agostino si stupì molto quando vide che Sant’Ambrogio leggeva i testi sacri solo con gli occhi. I monaci antichi dicevano il pregare una manducatio. Pregare come mangiare, come masticare. Chi ha una vocazione poetica autentica – qui il doppio senso è volutissimo – si mangia la parole. Certo, anche perché spesso i poeti e le poetesse amano ubriacarsi: ma anche gli astemi lo fanno, di mangiarsi le parole.

Masticare le parole: è quello che deve fare il lettore-scrittore di poesia. Scomporre ogni parola in sillabe e ogni sillaba in fonema e assaporare tutto il boccone, nelle sue parti e nel suo insieme, ed a ritmo, ritmo incessante. Questo tipo di godimento, intensissimo, primario e primitivo, inebria: come e più del vino. Ecco cosa è, dal punto di vista antropologico, l’oralità della e nella poesia. E che dire del carisma secolare del poeta, del Performer, dall’aedo in poi? E’ molto ovviamente parente stretto del monaco, che mentre manduca prega: ed eccoci alla natura orante del fare poetico, che per molti secoli è stato intrecciato al sacro, e ancora lo è almeno nell’antropologia del nostro inconscio. Ed ecco però perché la Filosofia, l’arte del pensare, ha da sempre in antipatia la poesia – o comunque cerca di risolvere e conciliare un’avversione innata per la poesia. Il pensiero, il pensante, il pensato, risultano secondari nell’attività carnale del mangiarsi le parole. La meraviglia e l’orrore, questi sentimenti dionisiaci! Poesia è vomito e preghiera. Canto senza pensiero, se finalmente non entrasse in campo la benvenuta superegoica arte oratoria. La terza parte della fase orale in cui si sviluppa e cresce la vocazione poetica è la necessaria retorica. Solo con lei poesia diventa filosofia, assume la dignità intelligente del significare. Solo con la retorica, con l’arte del linguaggio (e qui l’organo principale è il cervello) la preghiera manducata diventa poesia e la poesia si può davvero definire, con Amelia Rosselli, una “mistica del cervello”.

10 commenti a questo articolo

MANGIARSI LE PAROLE
2014-09-27 06:46:29|di alliya

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MANGIARSI LE PAROLE
2014-09-10 08:13:55|di hemant

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MANGIARSI LE PAROLE
2011-06-20 11:50:47|di Vale

molto interessante! avete una bibliografia da consigliarmi sull’argomento? e poi -curiosità- quante poetesse donne usavano mangiarsi le parole?


Ti mangio amore dalle labbra...
2011-05-17 11:06:10|di ness1

Nel mio dialetto, terra e mare mescolano il loro fango di campi e laguna: nella mia bocca, ogni volta che l’apro, sento i miei genitori che si baciano... Parlarsi le parole nella bocca, sciolte in saliva e fiato e sperdimento...


MANGIARSI LE PAROLE
2010-08-15 11:36:34|di enrico dignani

Promisquità di salive
per disinfettare il disordine

dispense di didattica elementare
i baci

nei percorsi del ridere
le guance infinite
del volersi bene

astrazioni abitabili
nei nuovi
sensi dei suoni

del ritmo del senso
gli snodi dei suoni del dire
le rime dello strafare
stradire
morire.


MANGIARSI LE PAROLE
2010-07-17 19:32:17|di Rosaria

il corpo abbandonato alla voce. l’abbandono dell’individualità nel corpo collettivo. l’attore di Dio. la pratica come poetica e la voce come pratica poetica. i grandi pedagoghi del teatro sanno come manipolare l’esperienza mistica: l’attore di Dio diventa la scimmia di Dio, l’imitatore aristotelico della Natura. Deus sive Natura. Continuiamo a dire le stesse cose, ne uscirebbe un libro denso di rimandi, utilissimo per gli aspiranti poeti e per gli aspiranti attori. Scusatemi, lettori, se non cito che poche fonti! Ho memoria scarsa, tanto caldo, tanta tristezza ora, che non potrei, nemmeno volessi, e poi qui non voglio, ho scelto d’esser leggera!


MANGIARSI LE PAROLE
2010-07-12 10:44:15|di Daniele Barbieri (http://guardareleggere.wordpress.com)

@Nevio
Intanto grazie per la segnalazione di Attisani.

Ti rispondo invece sul sacro e sul corpo.
Non è, intanto, che la religione non sia in gioco; il punto è che da un certo momento in poi (più o meno l’epoca di Ambrogio) la religione diventa l’articolazione pubblicamente condivisa con il sacro. Quindi anche se il punto è il sacro, la religione (che pure, io credo, per come la intendiamo noi, è un’invenzione del cristianesimo e dell’Islam) entra in gioco lo stesso.
Ma veniamo al punto centrale: il corpo. Posso essere (sono) d’accordo con te, a patto di non scambiare il corpo con la persona individuale. Il corpo entra in gioco in quanto è dimensione comune e condivisa di tutti i partecipanti al rito. In questo senso, l’espressione personale è importante perché è comune e condiviso anche il fatto che ciascuno sia dotato della propria specifica differenza. Ma se questa differenza viene esaltata troppo, si perde la sua dimensione comunque collettiva, che è ciò che rende efficace il rito (e la performance).
L’anonimia di cui parla Rosaria sta - io credo - proprio qui, in quella dimensione di stimmung (cioè accordo, armonia - ma anche vocalizzazione, da stimme cioè voce) collettiva, nella quale la differenza individuale rientra con facilità. In altre parole, tutti siamo facilmente capaci di esprimere la nostra individualità; ma esprimerla in maniera che gli altri vi si possano accordare richiede un superamento di quella dimensione.
Il corpo è corpo collettivo, per certi versi anche corpo naturale (nel senso che la stimmung comprende anche l’ambiente).
Questo è quello che io penso quando mi riferisco al sacro, e a quello che potremmo chiamare, con Michel Hulin (La mystique sauvage : aux antipodes de l’esprit), e magari anche con Romain Rolland, misticismo selvaggio. I misticismi delle varie religioni - io credo - provengono da qui, e qualche volta riescono anche a ritornarci, come nel caso di Francesco d’Assisi.


MANGIARSI LE PAROLE
2010-07-12 09:15:35|di NeGa

@ db
molto interessante il tuo saggio “Essere in gioco”. Su temi simili alla tua prima parte (Ambrogio etc.) ha lavorato recentemente Attisani (“Oltre la scena occidente” e “smisurato cantabile”), analizzando l’importanza del significante (il “canto” della parola) nell’attore di Dio Francesco D’Assisi, rilevando anche delle analogie con i procedimenti sciamanici.

L’ultimo capoverso del tuo saggio mi trova totalmente d’accordo: la voce ha una sua significazione che va ben al di là del significato delle parole che sta dicendo. Per questo insisto nell’affermare che, nella performance, ciò che ha valore è prima di tutto il performer ...

Starei però attento a non ridurre troppo al misticismo o al sacro. È risaputo che nell’articolazione sonora della parola (poesia e musica delle origini), oltre al rapporto col “divino” (un divino comunque privo di religione) hanno pari importanza l’imitazione della natura, il rito propiziatorio, la fecondità, il gioco, la relazione tra gli umani e tra questi e la terra, la narrazione di esperienze, l’esorcizzazione delle paure … L’intreccio principale dell’oralità è, in ogni caso, non col sacro, ma col proprio corpo: l’arte primitiva, in tutte le sue declinazioni (pittura rupestre, suono e rumore, etc.) è prima di tutto un itinerario mentale e corporeo che ha lo scopo di mettere l’uomo di fronte a se stesso (su ciò si veda lo splendido volume “L’arte dell’uomo primordiale” di Emilio Villa).

NeGa


MANGIARSI LE PAROLE
2010-07-11 12:11:30|

Mi trovo molto in sintonia con queste parole, e ho scritto anch’io qualcosa su un tema strettamente legato a questo. Mi permetto di segnalarlo qui per contribuire al discorso. È un articolo pubblicato dalla rivista online "E/C", dal titolo: "Essere in gioco. La parola collettiva da Sant’Ambrogio al rap", e si può scaricare a questo indirizzo: http://www.ec-aiss.it/includes/tng/pub/tNG_download4.php?KT_download1=e3f23ebeb6d9cf221d034c3f64a8a922. (Se non dovesse funzionare il link diretto, si può andare a questa pagina di indice e scaricarlo da lì)
db


MANGIARSI LE PAROLE
2010-07-11 11:58:24|di NeGa

“Bocca, ano. Sfinteri. Muscoli rotondi che ci chiudono il tubo. Apertura e chiusura della parola. Attaccare di colpo (coi denti, le labbra, il muscolo-bocca) e finire di colpo (via l’aria). Fermarsi di colpo. Masticare e mangiare il testo. Lo spettatore cieco deve sentir crocchiare e deglutire, chiedersi che cosa si mangia là, su quel palcoscenico. Cosa mangiano? Si mangiano? Masticare o inghiottire. Masticazione, suzione, deglutizione. Certe parti del testo vanno morse, attaccate brutalmente dai manducanti (labbra, denti); altri pezzi vanno trangugiati subito, deglutiti, inghiottiti, aspirati, buttati giù. Mangia, trangugia, mastica, mangia, polmona a fondo, mastica cannibale! Gran parte del testo va buttata fuori in un soffio, senza riprendere fiato, usandolo tutto. Sperperare tutto. Senza tenersi piccole riserve, senza timore di sfiatarsi. Sembra che così si trova il ritmo, le diverse respirazioni, lanciandosi, in caduta libera. Non tagliare e ritagliare tutto in pezzi intelligenti, in parti intellegibili
[…]”

Valère Novarina, Lettera agli attori, 1993.


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