Absolute Poetry 2.0
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Margaret Atwood: SCRIVERE CAMBIA QUALCOSA?

traduzione di Renata Morresi

Articolo postato mercoledì 9 giugno 2010

“Scrivere cambia qualcosa?”


di Margaret Atwood


Scrivere cambia qualcosa? Ho preso la domanda alla lettera, ne sono venuti fuori i due pezzi che sto per leggervi. Uno è su come ci sentiamo come scrittori: capita a tutti, o forse no, capita a volte di pensarci. Il secondo è la risposta opposta. Il primo brano si intitola “La tenda”.



Sei in una tenda. È grande e freddo fuori, molto grande, molto freddo. È una terra selvaggia e urlante. Ci sono rocce e ghiaccio e sabbia e profonde fosse melmose in cui potresti affondare senza lasciare traccia. Ci sono anche rovine, molte rovine, e in mezzo alle rovine e intorno a esse strumenti musicali rotti, vecchie vasche da bagno, ossa di estinti mammiferi terrestri, scarpe meno piedi, parti di auto. Ci sono rovi di spine, tronchi nodosi, venti forti. Ma tu hai la tua piccola candela nella tenda. Puoi startene al calduccio.
Molte cose urlano là fuori, nella terra selvaggia e urlante. Molte persone urlano. Alcuni urlano di dolore perché quelli che amavano sono morti o sono stati uccisi; altri urlano di gioia perché sono morti o sono stati uccisi quelli amati dai loro nemici. Certi urlano per chiedere aiuto, certi urlano di vendetta, certi urlano per sete di sangue. Il rumore è assordante.
E poi fa paura. Ci sono urla che vengono verso di te, verso la tenda, dove ti rannicchi in silenzio, sperando che nessuno ti veda. Hai paura per te ma soprattutto per quelli che ami. Vuoi proteggerli. Vuoi tenerli con te nella tenda, al riparo.
Il punto è che la tua tenda è fatta di carta. La carta non basterà mica a tenerli fuori. Tu sai solo che devi scrivere sulle pareti di carta, all’interno della tenda. Devi scrivere dal basso verso l’alto e da destra a sinistra, devi coprire ogni minimo spazio di carta di parole. Di queste parole alcune devono raccontare delle urla che ci sono là fuori, notte e giorno, tra le dune di sabbia e i blocchi di ghiaccio e le rovine e le ossa e così via; devono raccontare la verità sulle urla. Ma è difficile perché non ci riesci a vedere attraverso le pareti di carta e non puoi dire le cose con esattezza e non vuoi andarci laggiù, nella terra selvaggia, a guardare proprio coi tuoi occhi. Altre cose che scrivi devono riguardare i tuoi cari e il bisogno che senti di proteggerli, e questo pure è difficile perché non tutti tra loro sentono le urla come le senti tu. Alcuni pensano che stiano facendo un picnic là fuori, nella terra selvaggia, o un concerto, o un gran festone sulla spiaggia, e si irritano a starsene chiusi in un posto così angusto insieme a te, con la tua candeluccia e la tua paura e la tua insopportabile ossessione calligrafica, una ossessione che non ha senso per loro, che cercano continuamente di strisciare fuori da sotto le pareti della tenda.
Questo non ti impedisce di continuare a scrivere. Scrivi come se la tua vita dipendesse da questo, la tua e quella degli altri. Li trascrivi come se li stessi stenografando, i loro modi, i loro volti, le abitudini, le storie; cambi i nomi, naturalmente, perché non vuoi lasciare tracce, non vuoi attirare l’attenzione delle persone sbagliate proprio sui tuoi cari, alcuni dei quali, lo stai scoprendo adesso, non sono affatto persone, ma città e paesaggi, paesi e laghi e vestiti che indossavi una volta e caffè di quartiere e cani perduti da lungo tempo. Non vuoi attirare quelli che urlano, ma essi sono attratti lo stesso, come da un odore: le pareti di carta sono così sottili che possono vedere la luce della candela, possono vedere il tuo profilo, e, naturale, sono curiosi. Tu potresti essere una preda, potresti essere qualcosa da uccidere e da mangiare e per cui andarsene a urlare in trionfo, in un modo o nell’altro. Sei troppo in vista, è tutta colpa tua, farsi scoprire così. Stanno arrivando, sono sempre più vicini; hanno smesso di urlare per avere più tempo per stare ad origliare, ad annusare.
Perché mai pensi che questo tuo scrivere, questa tua grafomania in una fragile cava, questo scribacchiare avanti e indietro e sopra e sotto sulle pareti di quella che è, è evidente ormai, una prigione, possa proteggere te e gli altri? Tutti quanti? É una illusione credere che i tuoi scarabocchi siano una specie di armatura, una sorta di incantesimo. Nessuno sa meglio di te quant’è fragile veramente la tenda. Ecco, c’è già un incedere sordo di passi coperti di cuoio, c’è un graffiare, un raspare, un annaspare di sospiri. Il vento entra dentro, la candela si rovescia e appicca il fuoco, un lembo libero di tenda s’infiamma, e attraverso lo squarcio nero che si allarga puoi vedere gli occhi di quelli che urlano, rossi e scintillanti alla luce delle fiamme del tuo rifugio di carta. Ma tu continui a scrivere comunque, perché che altro puoi fare?



Quando diciamo “Scrivere cambia qualcosa?” di solito parliamo dal punto di vista di chi scrive. Ma se riporti la domanda un paio di livelli più indietro e pensi che un sacco di gente al mondo non sa né leggere né scrivere, il semplice fatto di avere la possibilità, per uno che non sa scrivere, di passare a essere uno che sa farlo, fa decisamente la differenza nella vita di quell’uno e nella vita della sua famiglia e nella vita di quella comunità. Questa poesia si intitola “Una donna povera impara a scrivere”.



Rannicchiata, a piedi nudi
sbracata, senza
grazia; la gonna

rincalzata alle caviglie.
La faccia di rughe, screpolata,
si direbbe una vecchia,

più vecchia di qualsiasi cosa.
Avrà forse trent’anni.
Anche le mani sono rotte, screpolate

e goffe. I capelli coperti.
Fa segni col bastone, con fatica
nella fanghiglia grigia,

accigliata e in ansia.
Grandi lettere grosse.
Ecco. Ha finito.

La sua prima parola, finora.
Non avrebbe mai immaginato
di potercela fare.

Non lei.
Gli altri, magari.
Alza lo sguardo, sorride

come per scusarsi
ma non si scusa. Non stavolta. L’ha fatta bene.
Che dice il fango?

Il suo nome. Non possiamo leggerlo.
Ma possiamo indovinarlo. Guardala in faccia:
Fiore felice? Fiore raggiante? Sole sull’acqua?


(trad. R.M.)


**

Margaret Atwood legge “The Tent” e “A Poor Woman Learns To Write”, al PEN World Voices Festival of International Literature del 2005, in una tavola rotonda dal titolo “Does Writing Change Anything?” con Salman Rushdie, Nuruddin Farah, Jonathan Franzen, and Antonio Muñoz Molina: QUI.
Il testo originale: QUI.
“The Tent” fa parte di The Tent, apparso in italiano come Microfiction, Ponte alle Grazie, 2006.


***

La foto, scattata in Texas durante la Grande Depressione, si intitola “Migrant Tent” ed è di Russell Lee.

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