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Mariapia Quintavalla: estratti da CHINA

di Francesca Matteoni

Articolo postato sabato 10 luglio 2010

China (Effigie, 2010)

di Mariapia Quintavalla


Dalla quarta di copertina:

Chi è China? Il nome della protagonista, o di un continente lontano? Un segno della caduta, o dell’essere piegati: e tutti questi sensi destinati a diventare inchiostro, scrittura.
Un romanzo breve, in versi, suonato come il fiato lo richiede, pronto alla fuga delle immagini e dei personaggi, pronto a intercettare quel volto, i suoi dialoghi, scavando indietro anche nella giovinezza di lei, narrata. Quel che è certo è che la protagonista e China sono diventate una cosa sola (come agli inizi), ma ora sono in due. Lei sa che ha amato China e China ha amato lei.
Anche se con linguaggi diversi, infatti, “le tue parole in musica contro/ la mia musica con le parole, sempre”: vi si narra la storia di un mistero. Le protagoniste si immortalano in un gioco di sguardi, come ne “Las meninhas”, quasi a strappare le regioni del silenzio a quelle dell’amore.
China è mille personaggi, non solo la madre, ma una donna che parla, “…per intonare una sua antica voce”, dopo che “all’inferno / era la storia per sempre risaputa, / di ragazze e gambe agili della pianura / pezzo della sua strada al paradiso”.


Ospedale

Era questa una zona del tempo
dove ruspe per l’aria, e macerie,
cadevano per terra come stelle fitte,
pezzi di realtà volavano cedevano
senza dolore: terre erano prelevate,
corridoi umani divelti disseppellite
voci; mia madre era morta
un anno prima la sua voce si era fatta fioca,
giovane, quasi irriverente la mattina,
quando l’infermiera, Come va?
mia madre, con un cenno tranquillo della mano,
Non c’è male, aveva detto;
più tardi si era messa a cantare Bella ciao,
queste nuove ascoltavo,
come da un’altra sponda.

*

Fiume riva strada, bruciano campanili
dietro la riva la infinita distanza, totem,
Piacenza campeggia serena.
Siamo passati e non siamo morti,
siamo morti, e non siamo passati,
riva buia strada
il profumo del sisso, cacca buona
diffonde una dolce stesura
di note nel verde, decise suonassi:
mia madre scelse il pianoforte,
si sedeva in cucina
alla vista dell’ombroso giardino
del San Paolo, aspettava le mie note:
dovevano uscire stentate, a trilli brevi
nelle sonate a quattro mani,
non calavo il mio cuore, altri suoni
assembravano mi tenevano
a notte attenta.

*

L’anima di mia madre senza braccia
chiara di etere, non ha volute,
narici soffiano nel cordone di voci infantili,
e grazia, lei stessa
con altre anime facete, acute parole
a Parma si sentono, o a Milano,
galleggiare per l’aria
ma leggere semprevive.

*

Padre di ricotta, gridavi un tempo:
Sei un uomo di pasta frolla,
perché non mi difendi?
nelle ore del bisogno e del pericolo
gridavi all’uno e all’altro, muti.
Io pensavo al friabile molle dei dolci
nella lingua contadina che addolciva
l’invettiva, Babbo, babbo!
erano le urla udite appena messo piede
in clinica. Fa così tutta notte,
spiegavano le infermiere, come rinfocolando;
di notte specialmente lo invocavi,
né mamma, o il nome proprio del marito,
ma Abba padre, invocazione e strazio.
Quel padre-madre che più non vedevi
dalla volta del cielo già scurito,
non amico non pronto alla tua notte,
monte calvo getzemani,
di sua natura reclinante, dura.

*

Sta venendo un tempo, te ne uscivi improvvisa,
spalancando vetri e silenzio
sullo stupefatto giardino di San Paolo.
Indicavi il nord, Viene da Milano, e porta pioggia.
Annuivo, seguendo il tuo profilo sporgersi
additare dove il fischio dei treni aumentava,
tu restavi calma,
ne eseguivi imperterrita l’ascolto
di vicende del tempo di stagioni, latrice
di messaggi, giudizi antichi.

*

I tuoi foulards,
che da lontano apparivano turbanti,
con gli occhiali fumé spessi di miopia
senza rimedio,
tu maestra di sottrazione di sé a se stessa,
così ti vedevamo icona,
negli antri dei portoni apparire nei borghi
degli inverni da intenso bianco,
quei foulards ti vestivano come una madonnina,
castigando la purezza della fronte e il naso,
ti infagottavano, mamma
che più buona facevano, ti proteggevano
la testa dai dolori cervicali o altri fulmini
che non celesti, potevano colpirti.

Cara madre, dai foulards in pervinca azzurro,
o rosa fucsia pallido, che in ampio nodo
incoronavano il tuo viso come un manto,
regale come una Bernadette antica,
ti destinavano al sacrificio, o alla visione.
Foulards custoditi in collezione
dai molteplici colori, a tinta unita come li definivi,
o in fantasia di bianco e blu chanel
alla moda degli anni sessanta,
o a disegno geometrico un poco futurista,
giovanile. Foulards che regalavi spesso,
alle tue figlie in visita, come tagli preziosi,
quasi monili di tessuto nel più privato, regalandoli,
aggiungevi assorta, mentre li deponevi
sul nostro capo, o al collo,
Tienilo, per questa volta, oppure separandoti,
beh te lo regalo.

*

Quando mi hai messa al mondo,
il parto è stato travagliato e lungo,
tre giorni senza un medico al tuo fianco,
salvo l’ostetrica, Ce la faremo noi due sole,
senza i fratelli; solo ausilio un bastone
appeso dietro al letto, dove ti attaccavi,
quando la forza del dolore
non la sostenevi più, ti davano del brandy;
avevi superato i nove mesi
i fratelli decisero, dovevi partorire a casa.

Da incitazioni dure traevi forza,
se la spinta veniva, poi sfinita
mi hai messa al mondo un pomeriggio,
tu credevi le due pomeridiane, l’ostetrica
segnò le quattro del due di settembre,
poiché il fiato non mi usciva,
uno schiaffotto sulla schiena
mise in moto il mondo, ti avvertì del primo pianto:
C’ero, ero nata, sana e viva,
mi adagiarono sul tuo cuscino, mi donasti
un dito da afferrare,
cosa che feci prontamente.

Eri buona bellissima, da allora eri il mio vanto,
non facevi che dormire e mangiare,
prime parole di commento su me,
presso i parenti che correvano la notte
a rimirarmi. Somiglia un po’ a Vittorio,
lo zio, oppure, Sei la mia ballerina, mi battezzavi;
io mi lasciavo rigirare in tondo fino
a stordirmi, tra le braccia seguivo te,
ruota languida sonora di braccia e seni,
la magnetica voce che guidava.
Di tali estasi doveva essere calco in me,
poi diventasti il volto di mia madre,
avvolgenza in canto, parole in ordine
dapprima muto, di colpo allineate.

2 commenti a questo articolo

Mariapia Quintavalla: estratti da CHINA
2010-07-11 17:02:16|di nadia agustoni

Ho già detto del bel libro di Maria Pia, ma rileggendola rimane intatta la prima impressione. Un saluto.


Mariapia Quintavalla: estratti da CHINA
2010-07-10 20:35:33|di giacomo conserva

bellissimo, davvero
(c’entra poco, ma mi evoca Kaddish di Ginsberg- la grande elegia/lamento su sua madre)


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