Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

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Redatta da:

Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.

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NEW ITALIAN EPIC

O della trasgressione intrinseca

Articolo postato martedì 3 marzo 2009
da Nevio Gambula

Ogni sguardo letterario, per quanto «obliquo», è impossibile, per lo meno nel senso dell’impossibilità della letteratura di narrare altro dallo sguardo stesso. L’orizzonte dell’autore non è la “storia” o la “realtà”, ma «la lingua colta in una situazione storica» (G. Guglielmi). Per così dire, lo sguardo letterario punta là dove la lingua duole … Sulla base di questo assunto, per me irrinunciabile, ho provato a leggere il saggio New Italian Epic di Wu Ming 1 (Versione 2.0, pubblicato qui), come propedeutica alla lettura della Versione 3.0 cartacea. La lettura è stata stimolante, permettendomi anche di precisare il mio giudizio sulle opere collettive 54, Asce di guerra e Manituana. E proprio a seguito di queste letture, e ovviamente in relazione ad altre differenti, mantengo come valida la distinzione tra opere d’intrattenimento e opere d’arte. Come ho già detto in un mio precedente commento, ogni opera ha una sua legittimità; però è altrettanto vero che non possiamo catalogare allo stesso modo Vasco Rossi e John Zorn (o L’ottava vibrazione di Carlo Lucarelli e Le mosche del capitale di Paolo Volponi, tanto per stare sul letterario). Quello che segue è un primo appunto – sistematico come può essere un appunto preso velocemente – che riguarda un aspetto, per me importante, del saggio di WM 1. Non sono riuscito a leggere tutte le discussioni che in rete si sono svolte attorno al saggio sul NIE; non ho tutto questo tempo a disposizione. Spero di essere riuscito ad affrontare una questione non ancora presa di mira.

***

«Stendono prose piane i professori, narrano storie tonde, scrivono aulici elzeviri, decorano le accademiche palandre di placche luccicanti (...). I tristi imbonitori, trame, panie catturanti, gerghi scaduti o lingue invase, smemorate (...). Questo accanimento nel trovare il senso
Vincenzo Consolo

Non dissimile da un ritornello di una canzone alla moda, il NIE di Wu Ming è un quasi-nulla teorico che acquista il proprio senso solo attraverso la sua ripetizione. Possiede, insomma, le qualità essenziali di un logo ben riuscito; riassume su di sé una tale moltitudine di riferimenti che desta attenzione e suscita animate discussioni. Così, se è facile per un critico avveduto smontarne l’apparato teorico, è nel suo incedere nell’universo frastagliato del post-teorico – e in particolare in quel “plesso opaco” che sono le conversazioni su Internet – che trova la sua consacrazione. Non c’è da stupirsi se un “popolo” poco avvezzo alle noiose dispute accademiche, e per altro generalmente non interessato all’avventura ermeneutica, quand’anche “altra” dall’ufficialità, lo abbia difeso e acclamato ben oltre i suoi meriti. Forse per il “fascino discreto” della ribellione che sottende. E infatti, il logo si giustifica per una certa qualità ideologica: la sua stessa presenza fa trasparire la possibilità di una funzione resistenziale, e quindi di articolare la scrittura come meccanismo di conflitto. È difatti chiaro che alla base del saggio c’è l’idea della non neutralità dell’opera letteraria: la letteratura «non deve mai credersi in pace». Ancora una volta si tratta di "sollecitare il tumulto del nuovo" per intervenire, con altre «storie», nella situazione attuale. Ancora una volta si suppone che esistano opere-trucco, le quali, anziché svelare i caratteri auto-distruttivi dell’attuale sviluppo, offuscano "il vero orrore". Ne sortisce un appello teso allo «sforzo supremo di produrre un pensiero ecocentrico» e l’idea di un’arte e di una letteratura capaci di «immaginare vie d’uscita» dalla situazione di decadenza generalizzata. Nella storia-che-non-finisce si tratta di recuperare la strada e, al di là di ogni smarrimento, ritrovare «fiducia nella parola»: la letteratura può salvarci, curando «il nostro sguardo» e rimandando la nostra «sparizione». Ma questa qualità ideologica del logo NIE non consiste, paradossalmente, nel proporre forme capaci di attivare la fantasia ad un alto grado di consapevolezza intellettuale, o di sollecitare creativamente la percezione del lettore, invogliandolo a sacrificare le sue certezze. Consiste, piuttosto, nell’orientare religiosamente l’attenzione, disponendo l’opera all’attivazione di uno scambio di tipo empatico. E, in particolare, nell’ammaliante copertura con cui l’autore offre le sue immagini letterarie. Anche in questo senso, il logo è efficace, poiché, esattamente come ogni altro “logo”, determina i suoi temi portanti sulla base del gusto pubblico e si impone proprio in quanto risponde alle attese dell’acquirente-lettore; attrae a sé il lettore e, anziché stritolarlo, lo trattiene amichevolmente: lo in-trattiene, appunto. Che cos’è «l’efficacia di primo acchito» se non la facile piacevolezza? Un godimento di questo tipo, però, riduce il lettore a un fantoccio, proprio perché non gli permette l’esperienza spiazzante dell’enigma. L’opera, in questo modo, evitando accuratamente ogni eccedenza (è nell’eccedenza che accade il senso, scrive Nancy), non si dispone come trappola tesa a porre in scacco il lettore, proponendosi quindi come fonte di conoscenza mediante crudeltà (Artaud), ma soggiace alla necessità di affermarsi come godimento immediato. Il lettore può solo riconoscersi in essa. In questo quadro, non stupisce la diffidenza nei confronti della «comunicazione gnostica» e, per contro, la simpatia per la «liturgia» di stampo cattolico. Mentre la prima si basa su un procedimento che verte sulla creazione non di «un libro aperto», ma di «un cifrario che esige di essere violato», e che trova il suo codice stilistico nella non linearità e nell’opacità del tessuto verbale destinato a impedire ogni armonia, la seconda fa palpitare passivamente l’attenzione, eccitando il fruitore con un andamento ripetitivo e facilmente assimilabile e finalizzato alla conversione per atto di fede più che per atto di scelta intellettuale. Non a caso, il finale del saggio, dopo avere evocato situazioni catastrofiche e speranze salvifiche riposte nell’arte e nella letteratura, riporta il mantra «Dono. Compassione. Autocontrollo. / Shantih shantih shantih», che è, per quanto non dichiarata come tale, una citazione del finale de La terra desolata di Eliot. È qui importante evidenziale la traduzione che lo stesso Eliot fa della parola Shantih: «pace che sorpassa l’intelligenza» (resa in nota da Alessandro Serpieri in La terra desolata, Rizzoli 1982). E ciò in linea con le stesse Upanishad da cui Eliot riprende l’invocazione, dove la “pace” è il risultato di un processo che parte dal donarsi all’altro per trovare con questo un accordo condiviso e quindi tornare in se stessi ritemprati. È la pacificazione del lettore con se stesso e con l’opera; ma è soprattutto un modo di far venire meno l’efficacia “antagonista” delle premesse, e non solo perché la litania addormenta i sensi, ma anche perché, come Lacan ha dimostrato, quando una parola nomina un “oggetto” con l’intento di spiegarlo (la “storia” nel caso del NIE), anziché rivelarlo nel profondo, in realtà lo neutralizza. Ecco che allora la conflittualità abbozzata in questo saggio non è affatto radicale, ma anzi perfettamente in linea – oserei dire congeniale – alle banalità proposte dal mercato editoriale. È la trasgressione intrinseca di cui parla Slavoj Žižek: nel mentre si costruisce in apparente sovversione, in realtà l’opera conferma l’oggetto stesso che vorrebbe rovesciare: «perde il suo valore scioccante ed è completamente integrata nel mercato artistico ufficiale» (in Il godimento come fattore politico, Raffaello Cortina Editore).

Il Bello è tale quando è traumatico; altrimenti è Spettacolo.

92 commenti a questo articolo

NEW ITALIAN EPIC
2009-03-30 11:32:24|di ng

Cut-up da Guido Guglielmi (Euridice è morta per sempre):

Il “rumore di fondo” è il capitale che scrive le sue storie.

È inutile tentare di scrivere «storie alternative», poiché chi ha l’ultima parola, che è poi la sola che conta (che “canta”, nel caso di specie), avrà sempre il modo di affermare se stesso anche in quelle storie. Come? Lasciando parlare in vece sua la merce.

Una storia alternativa si consustanzia in prodotto: il libro che la contiene esiste come oggetto che deve essere scambiato e risolto in profitto. Il lettore è prima di tutto un consumatore. Possiamo inventare mille formule per salvarci la coscienza, ma quel libro, con le sue storie alternative, andrà a finire nel ciclo infernale produttore (editore) – prodotto (libro) – rapporto sociale (capitale). E a questo ciclo non c’è scampo.

Ma allora, si dirà in risposta, è inutile l’esistenza stessa dell’arte, giacché ogni suo atto sarà sempre una conferma del capitale. No, perché l’arte è sempre se stessa (strumentale, necessaria e utile al capitale in quanto tale) ed è sempre anche altro (inutile, infunzionale). Mostrare questa sua doppiezza è stata la grande intuizione delle avanguardie. Fare arte negando l’arte. L’arte diventa una forma in cerca di una sostanza diversa dal capitale. È forma mostruosa. Non più moda, trucco, idolo, feticcio, ma gesto radicale che sostanzia il suo valore nella dissonanza.

Questo programma, proprio di ogni avanguardia, non è tollerato. Come viene contenuto dal capitale? Costringendolo all’angolo. Il capitale, tramite il mercato, riduce tutto a sé; per i riottosi c’è il margine. Solo gli sciocchi non comprendono questo processo.

E l’insistere dell’arte ai margini dei sistemi comunicativi sarà un modo di rivendicare il negativo, l’ambiguo, l’assenza di finalità. Essa farà valere il possibile contro il necessario. Non annuncerà più nessuna totalità, ma il tramonto di ogni totalità. E anziché essere depositaria di valori ideali, al mercato porterà il paradosso di un valore antieconomico.


NEW ITALIAN EPIC
2009-03-28 23:42:49|di ng

Sì, Valerio, ci può stare …

Però proprio non capisco come tu possa conciliare le posizioni di un avanguardista spinto come Guido Guglielmi con quelle espresse in NIE. Sono due piani non solo diversi, ma del tutto in opposizione.

Per stare al testo di Guglielmi che hai proposto, direi che i WM rientrano in questa categoria:

«Lo scrittore che ha un destinatario preciso fa un’operazione diversa, cioè capisce quali sono gli orientamenti del pubblico, quale è la storia che più gli piace e la scrive pensando che venga letta dal numero più alto di clienti e dunque non urti certe attese. Proprio la critica riporta questo scrittore alla sua misura minore; e non se ne occupa se non per studiare il gusto dei lettori: per condurre uno studio sociologico di determinate tendenze sociali. Ma questo scrittore non dirà niente che il lettore già non si aspetti; e nella lunga durata non potrà entrare nel canone: si esaurirà nel tempo del consumo. Se ne occuperanno poi gli storici, i sociologi, per studiare l’editoria, la lettura, gli indici statistici di lettura ecc.»

ng


arte di consumo
2009-03-28 20:04:39|di Valerio Cuccaroni

Ma se si rifiuta l’adeguazione di arte di consumo e arte non di consumo - qui il discorso è molto complesso, ora non possiamo farlo - occorrerà ribadire che la letteratura, come la riflessione etica e la riflessione filosofica, informa in profondità la cultura in senso antropologico. Bisogna dunque lavorare come se la critica fosse possibile. E scegliere magari una soluzione un pò pascaliana. Alla crisi della critica rispondiamo con un di più di critica.


crisi della critica, crisi della letteratura

NEW ITALIAN EPIC
2009-03-25 08:24:52|di fabiandirosa

Vi notifico la seconda parte dell’articolo di WM1 apparso su ilprimoamore in replica a Tiziano Scarpa.

Tanto per non lasciar dire che il pallone si è bucato, non si può più giocare, fine dei discorsi..

Se c’è qualcuno/a volenteroso/a e preparato/a sugli audiovisivi nell’ambito dei reading, vorrei proporre di aprire un nuovo argomento di discussione sulla relazione video ed epica. Grazie sin da ora.

Qui l’articolo che indicavo all’inizio:


http://www.ilprimoamore.com/testo_1...

NEW ITALIAN EPIC
2009-03-21 20:47:03|di Valerio Cuccaroni

ecco, wm1 ha avuto il merito, secondo me, di aver sottolineato e cercato di mettere in pratica proprio ciò che a sua volta sottolinea luperini: “il trionfo del linguaggio e dell’intertestualità, della leggerezza e della metaletteratura non sono + possibili. il mondo è pervaso da logiche pesanti e contrastive, da contraddizioni materiali che non possono + essere ignorate“.

che non vi sia ancora riuscito appieno è forse indiscutibile, ma è già un grande merito averlo sottolineato.
ma preciso che è un merito non tanto in generale (se paragonati ai mostri sacri che evochi, nevio, certo sfigurano), quanto nella particolare situazione italiana: la maggior parte degli scrittori italiani, lo sappiamo, è ferma alla contemplazione dei propri ombelichi, alle storielle, ai piccoli grandi drammi familiari o esistenziali.

esempi: dai premi strega sandro veronesi e paolo giordano, per citare 2 casi di letteratura popolare, ad altri ben + scaltriti e raffinati, come aldo nove e tiziano scarpa. ora, questi ultimi, a mio avviso tra i + consapevoli scrittori italiani, dopo essersi aperti al mondo e aver affrontato, come dovevano, le logiche pesanti e contrastive, rispettivamente con “mi chiamo roberta” e “groppi d’amore nella scuraglia” - una delle migliori opere della letteratura precaria e una delle maggiori opere tout court di quest’ultimo decennio, forse trentennio -, sono tornati all’esposizione dei propri vezzi con ”maria“, il primo, e con “stabat mater“, il secondo.

mi sembra invece che wm porti avanti da anni uno stesso discorso, + impegnativo, perché obbligato a contrastare le forze centripete dell’extra-letterario. con risultati formalmente ancora insoddisfacenti, rispetto almeno alle opere di scarpa e nove, ma programmaticamente + interessanti. dietro c’è appunto un progetto: e tutti dovremmo recuperare la capacità di progettare, così come di studiare la storia.

un discorso a parte meriterebbe frasca. ma non lo conosco abbastanza. per cui mi taccio.


luperini
2009-03-21 20:06:52|di Valerio Cuccaroni

dimenticavo: grazie nevio per aver allegato il saggio di luperini.


perturbante
2009-03-21 19:44:45|di Valerio Cuccaroni

@ K.

possiamo stare a discutere ore sui punti deboli del futurismo: a me interessava rientrare nel campo, da cui mi sembrava si fosse usciti per una volontà di criticare, per altro comprensibile e condivisibile, ma foriera di incomprensioni.

a questo punto, trovo giusto, una volta delimitato il campo, dire “a me quel campo non convince, credo che i frutti più succosi crescano altrove”.

non ho letto nessun libro di lucarelli né di molti autori del nie: in genere i romanzi di trama mi annoiano. invece seguo l’attività di wu ming da quando era luther blissett e pubblicava *i quaderni rossi di luther blissett*, distribuendoli alla grafton 9, mitica libreria di piazza aldrovandi a bologna, quindi da + di un decennio. mi interessano le loro teorie sul sistema della comunicazione, mi interessa il loro modo di lavorare, per cui li ascolto, li leggo e leggendoli mi sono imbattuto nel loro saggio. e mi è subito sembrato che abbiano colto una tendenza in atto: i romanzi di cui parlano né quelli presenti né quelli passati mi interessano un granché, tranne alcuni che leggerò sicuramente, grazie alle loro segnalazioni, mi interessa ciò a cui quei romanzi rinviano, cioè a un nuovo interesse per la storia e in particolare per la storia italiana, al fatto che si mettano in circolo, che certe informazioni note alle élite culturali circolino in un circuito + vasto, che si diffonda il gusto per il conflitto, per l’indagine e per la ricerca.

certo, privilegio nettamente la poetica modernista e rizomatica promossa dalla benedetti, rispetto ai romanzi gialli, ma non si può escludere a priori che anche nella selva gialla si nascondano fiori carnosi e inebrianti.

ecco, trovo che molti abbiano reagito aprioristicamente, infastiditi dal marchio einaudi (ma allora sputiamo anche su saramago), dall’anglicismo dell’etichetta (ma allora sputiamo anche sul new criticism), senza entrare nel merito, anzi nel campo, piuttosto lanciandoci bombe.

@ nevio

in parte ho già risposto: mi sembra che sgombrato il campo dagli equivoci, si possa parlare meglio e concordo con te, ma non si rischia, così, promuovendo l’antagonismo per l’antagonismo, di creare idioletti compresibili solo a se stessi e alla cerchia ristretta degli adepti? a che pro? allora, davvero pisciamo via le parole, lasciando che gli schizzi colpiscano chi capita! mi diverte, lo farei e rifarei, ma a un certo punto mi annoia + delle trame: lo trovo un esercizio fine a se stesso. e apprezzo di + chi lavora da ambizioso artigiano, attento alle cuciture.

un esempio. per restare al padre non riconosciuto del nie, uno dei + grandi scrittori del secondo novecento (poeta e narratore), volponi: di sicuro amerai * corporale * ché rientra nella tua griglia, ma dove collocheresti * sipario ducale *? secondo me, per certi versi, il sipario è ancora più interessante del primo, perché perturbante, apparentemente familiare, eppure straniero.


NEW ITALIAN EPIC
2009-03-20 13:11:04|

Mannaggia alla fretta … L’ultima frase è evidentemente sbagliata. Il senso è: bisogna resistere a tutto quanto spinge, nell’opera, verso l’integrazione con pubblico-mercato-comunicazione, per puntare invece a una radicale alterità …

ng


NEW ITALIAN EPIC
2009-03-20 09:35:47|di ng

@ Valerio

Guarda che il problema è proprio il dove si situa quella che tu chiami «la peculiarità dell’operazione di wm», e cioè il situarsi, e aggiungerei perfettamente tollerati, «sul pubblico, il mercato, la comunicazione ». Questo è il punto dolente, ovvero il punto dove crolla tutta l’impalcatura che regge il saggio, e mi riferisco in particolare alla volontà di porre la letteratura in opposizione. Solo io ho l’impressione che le esperienze più grandi della letteratura dell’ultimo secolo abbiamo operato proprio negando, dall’interno della scrittura, il rapporto con pubblico-mercato-comunicazione? Beckett, Kafka, Celine, Gadda, tanto per fare dei nomi immagino conosciuti, hanno mostrato l’impossibilità di comunicare con le strutture solite, minando dall’interno quello che Foucault chiamava linguaggio disciplinare. Lavoravano «sul terreno del linguaggio» mancando la rappresentazione. Il che vuol dire: la forma è spettacolo di sé. Questo è uno snodo teorico fondamentale.

Vedi, Valerio, a leggere i romanzi di WM e il saggio sul NIE ho l’impressione che la vita sia altrove, e non nell’opera stessa. Il linguaggio è funzionale alla storia da raccontare; deve, cioè, fare entrare la storia nell’opera. Questo è secondo me un grande equivoco. Un equivoco che cristallizza il reale (ciò che è fuori dell’opera) in discorso, e che così facendo, come ho scritto nel post, lo neutralizza. Ho il sospetto che in questa tensione ci sia qualcosa di sbagliato, di profondamente sbagliato, sia operativamente che teoricamente. Se l’obiettivo è fare della letteratura un campo di resistenza, perché non portare la resistenza alle sue estreme conseguenze? Perché non resistere alla volontà di fare risaltare, più che l’integrazione con pubblico-mercato-comunicazione, una radicale alterità?

[Consiglio un articolo di Luperini su queste questioni]

NG


NEW ITALIAN EPIC
2009-03-19 14:23:38|di K.

@ Valerio
Qui non sei proprio entrato nel merito. O meglio, hai mostrato il fianco (e pure altro, direbbe quel ‘sozzone’ di milo marsia, non me ne voglia). Perché il fatto che anche i futuristi abbiano fatto uno sforzo teorico per rendere similpensante ed esteticamente attraente l’egemone esistente è semmai la falla che li fa disperdere, non la loro forza. Riconoscere proprio in questa fallacia fatale una corrispondenza con i NIET‘manifestanti’(sarebbe stato più vero e forse più teoricamente audace insieme: niet: no, nessuno, non uno), proprio in questa estetizzazione di ciò che c’è, soltanto per poter dare ai nuovi apparsi la benedizione del precedente storico … Non è questo fare i propri bisogni(ni) in pubblico?
Mentre credi di difendere, hai dato il colpo di grazia.

Sono costretta a dire che è quasi più “manifesto” la chiusa della benedetti: «È vero, la letteratura oggi si trova a fronteggiare "problemi di dimensioni epiche", compreso il rischio di un suicidio di specie, ma proprio per questo ha bisogno di tutta la forza della sua libertà, di aprire brecce negli schemi mentali e narrativi del tempo, non di restarvi dentro con una sperimentazione "frenata".
Perciò viva l’epica, abbasso il canone! Viva la letteratura no logo che va a germogliare dove meglio le piace, come i fiori a primavera, in territori aperti e nei posti più impensati. Viva la scrittura combattente che non «torna al reale» ma ne buca le convenzioni e va al fronte, sul fronte della parola e del pensiero, nelle zone di intensità e di radicalità, sempre poco amate in Italia ma oggi ancor più sotto attacco, scoraggiate e represse da più parti.»

@eva, milo

capisco la vostra esigenza di usare quella capacità che ha la lingua talvolta di tagliar corto. Non bastano tutte le argomentazioni della storia per creare un oggetto che non c’è. Bastano e abbondano invece per mistificare e cambiare il nome alle cose.
Senza contare che non vedo re attorno e, ahimé, non vedo nemmeno Bertoldi.
Vedo invece molte corti, vedo.
Ma, anche voi, suvvia, siate più intellettuali: più pronti alla discussione.
Imparate le maniere di corte, e lasciate fuori il punto della questione, o materia.


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