Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
21 commenti a questo articolo
Nacci: zwischenraum
2008-12-19 08:30:40|di ng
«Essere avanti», «avanguardia», «genio» … Sei fuori strada, Luigi.
Per cosa lo faccio? Per niente e per nessuno.
Che poi ciò che faccio possa anche comunicare, è un incidente del linguaggio, non il prodotto della mia volontà; i segni comunicano sempre qualcosa. La mia necessità si sostanzia nella scelta della disposizione dei segni (la responsabilità è nella forma).
Non la faccio lunga. Chiudo con uno dei poeti che amo di più in assoluto, Giorgio Caproni.
Dedicato al poeta “impegnato”:
«Tu miri contro uno specchio. | Sparerai a te stesso, amico.»
«Dite pure di noi | – se questo vi farà piacere – | che siamo dei rinunciatari. (…) Essere in disarmonia | con l’epoca (andare | contro i tempi a favore | del tempo) è una nostra mania. »
ng
Nacci: zwischenraum
2008-12-19 01:55:11|di molesini
Un’osservazione fuori dal contrappunto: sulla collocazione degli dei laddove li vorremmo trovare, che assomiglino al nous.
Ma gli dei sono beffardi e stanno proprio dove non li cerchiamo. Beni e Villi, amatissimi santi, a cuccia! Facciamo noi, e costruiamo tessuti che tengano.
Nacci: zwischenraum
2008-12-18 23:35:47|di lnacci
Caro Nevio,
credi davvero che Emilio Villa abbia influenzato “generazioni di artisti e di coscienze”? Ma stai parlando del Villa eccelso traduttore dal greco e dal latino o del Villa che cantava Un amore così grande? Del Villa – cito Voce - maximus ghost del Novecento, ignorato, «annullato in una cartografia storico-critica in cui tertium non datur, rigidamente divisa com’è tra ‘avanguardisti’ e ‘tradizionalisti’»? O Del reuccio che – cito wikipedia – vanta ben, dico ben, 26 partecipazioni al Festival di Sanremo? Al limite posso concederti che Emilio V. abbia influenzato un certo numero di letterati e artisti (quanti?), ma se parli di generazioni di coscienze, includendo quelle dei non addetti ai lavori, mi sembra tu stia prendendo un colossale abbaglio. Facciamo un’indagine, vediamo quanta gente ha letto Villa, poi discutiamone, semmai.
Andiamo al nocciolo della questione che poni. C’è una cosa che non ho mai sopportato nell’artista avanguardista (sono costretto a generalizzare): il pensare di essere avanti (dove, per bacco?), staccato dalle masse, convinto di parlare ad un pubblico che ancora non c’è, o per pochi eletti che possono (ah, sommi beati) comprendere il suo genio, il suo rompere le regole e i codici. Sai, io ho studiato all’Università di Trieste. C’era Petronio. Hai presente? Letteratura di massa e di consumo. Dalla letteratura di viaggio ai romanzi gialli, a quelli rosa. Petronio propugnava l’apertura indiscriminata all’opera (tutte le opere, pure quelle dei perfetti sconosciuti e degli imperfetti anonimi); lo studio delle poetiche (la storia dell’attività letteraria, diceva, è una storia delle poetiche); era consapevole che disattendere i gusti e le attese del proprio tempo significa anche sottostare alle leggi della produzione. Non voglio scoprire l’acqua calda, ma ricordare a volte male non fa, no?
Dici che il poeta non può parlare a qualcuno, che se così fosse, non avremmo mai avuto gente tipo Beckett, Villa, Cage, Bacon. Ma a te interessa solo questa gente? Quelli che hanno rotto le regole? Da come ne parli, pare di sentire Marinetti: “Arte e artisti rivoluzionari al potere!”. Dobbiamo glorificare il genio? Non penso tu voglia dire questo. Almeno lo spero.
Ti chiedo: Saba l’hai letto? Sereni l’hai letto? Marin, Noventa, Giudici, Cardarelli, etc. etc.? Ce ne sono a bizzeffe, oltre a Sanguineti, Pagliarani, Balestrini etc. etc. etc.; oltre a Gadda, gente come Tomasi di Lampedusa? Bassani? Morante etc. etc.? Calvino diceva che la «summa del romanzesco popolare e della rapsodia dell’epos storico-sociale» è I miserabili di Hugo - dove c’è, diceva, commozione (brrrr che parolona, eh?). Ti terrorizza l’idea che possa esserci qualcuno che scrive a qualcun altro? (che addirittura ci com-muove, caspita, neanche fossimo tutti ebeti pecoroni!)
Io credo ad una strada mediana. La perseguo. Che riesca nel mio intento non è per niente detto. Ma so una cosa: quando immagino un’opera, non penso a come infrangere le regole, non è l’oltranzismo a spingermi. Se strada facendo, qualcosa si rompe, chi se ne frega. Non è quello il fine. Che te ne fai dei cocci, poi, li metti in bella vista sul caminetto majakovskijano?
Ho bisogno, un bisogno urgentissimo, di dire qualcosa. Quando non avrò più niente da dire smetterò. E’ un groppo di piume e piombo all’imboccatura dello stomaco.
Parli di “pretesa di comunicazione”. Ma se non pretendi di comunicare qualcosa attraverso l’acervo di significanti e significati che è la tua opera, mi spieghi cosa scrivi, performi a fare? Per cosa lo fai? Se credi che quello che crei non muoverà alcuna coscienza, mi spieghi perché lo fai? E non parlo di educare, sia mai. Né di indicare la via. Non credo di essere ancora così tonto o altisonante.
Dici che dovrei adattarmi (martirizzarmi al gusto del pubblico). Perché, cercare di parlare a qualcuno è martirizzarsi? Sono basito. Ti rendi conto di quanto sia elitaria e snobistica la tua posizione? Ripeto per l’ennesima volta: w l’apertura. La storia e cronistoria di Saba sta, nella mia libreria, a una quarantina di cm dal Mal dei fiori di Bene. Dimmi: sbaglio? Sono uno sprovveduto? Su un altro scaffale, tra Lettera a uno sconosciuto di Cage e La discordia teatrale di Gambula c’è un bel saggio di Kezich, si intitola I poeti contadini: è sull’ottava rima, i poeti citati sono tutti sconosciuti. Dimmi: è un male? Sono uno sconclusionato senza arte né parte? Leggo Servegnini senza vergognarmene (sono uno sciatto lettore da supermercato?), e accanto a lui (lo scopro ora, il disordine dei libri a volte inventa collocazioni mirabili) c’è la Storia di Cristo di Papini (sono un fascista?). Accanto la bellissima passeggiata di Walser (sì, sono mitteleuropeo). Poco più in là Vogliamo tutto di Balestrini. Non te la voglio fare lunga (comunque un giorno ti inviterò a casa mia). Volevi coinvolgimento? Eccolo qua.
Non credo al genio. Non so chi sia un genio. Non credo all’avanguardista, ma lo studio. Spesso mi annoia. Mi annoia anche Saba, ma lo studio. Credo in una via mediana. Costruire forme parlando a qualcuno. Non disdegnare alcuna forma, non disdegnare mai alcun pubblico (che è il contrario di privato, vivaddio!).
*
Caro Lorenzo,
ma di quale "mistica del genio" vai parlando? Ho detto che mi interessa l’opera performativa che riesca a combinare assieme l’assetto della parola con quello della vocalità. E, ho aggiunto, è riuscita, al cospetto dei miei sensi, se questi aspetti si combinano assieme intaccando me, me come cervellomemoriabudello, anche se ci sono delle sbavature tecniche. Una piccola rispolverata di narratologia: c’è una lettura ingenua, una disponibile ed una critica; la prima è quella del lettore che si immedesima totalmente nella storia; la seconda è quella operata da un lettore che, pur consapevole del carattere fittizio della storia narrata, è disposto ad una momentanea e parziale sospensione delle facoltà critiche; la terza è quella di chi evita ogni processo di immedesimazione, in sostanza una lettura specialistica (generalmente una lettura “seconda”, successiva a una lettura disponibile). Ecco, vedi, io sono sempre disponibile. Voglio calarmi nel mondo prefigurato dall’autore. Vale anche per la poesia, lineare o no. E se parlo, come ho fatto, di SENSI, parlo proprio di prima visione, primissimo impatto. L’analisi viene dopo. Fermo restando che, se nel primo impatto non si crea un cortocircuito tra cervello, memoria e viscere, non ci sarà, per quanto mi riguarda, una lettura “seconda”, a meno che non vi sia costretto (cfr: rari saggi per l’Università). Quindi la tua domanda (quali mezzi e perché favoriscono il raggiungimento di questa efficacia totale?) era legittima, ma fuori luogo. In ogni caso la risposta non potrebbe essere univoca. Potrei dirti, intanto, che per la mia esperienza, non ho ancora trovato un poeta performativo privo di sbavature tecniche. L’uno o l’altra – e qui scendiamo nello squisitamente soggettivo - difetta sempre in qualcosa: c’è chi sulla carta ha una poesia che regge a urti impressionanti, per compattezza di poetica e di versificazione (può però peccare in manierismo, o in trobarclouismo) e nella voce invece no (cioè si percepisce uno iato insanabile tra la professionalità della penna e l’amatorialità dell’esecuzione, che si manifesta attraverso uno spettro di modalità vocali esiguo, oppure da una aleatoria, rispetto allo scritto, ipervariazione dei registri, tanto per fare un esempio); oppure il contrario: chi ha una marcata inconsapevolezza della scrittura e una poetica immatura, compensate da uno studio maggiore (o anche solo un talento più spiccato) in ambito orale. I mezzi che favoriscono il raggiungimento di un’efficacia in entrambe le sfere sono molti. Ma variano da caso a caso. Vanno analizzati in una seconda lettura. Ciò che conta, per me, è l’aderenza ad un progetto di poetica. Ovviamente, per colpirmi, in tale poetica mi devo poter calare e mi devo sentire preso parte in causa. Se ciò avviene, se mi sento catturato, le sbavature tecniche (nella versificazione, nella costruzione della raccolta - epigrafi, note, titolo inclusi; o, in voce, nella scelta e nella resa dei registri, dei timbri, delle intensità, della respirazione etc.) non mi impediscono di giudicare quell’opera positivamente.
Ed ora ho qualche domanda per te. Anche se fai poesia lineare, segui, studi anche la poesia non lineare? Se sì, con quale o quali approcci critici ti avvicini ad essa? Se sì, quali autori e performer apprezzi, e non apprezzi, e perché?
Un saluto ad entrambi,
Luigi
Nacci: zwischenraum
2008-12-17 12:20:30|di lorenzo carlucci
dell’intervento di nacci qui sotto mi sorprende molto questo passo:
"Poi può esserci il video, e il discorso non cambia. Le fotografie, etc., e il discorso non cambia. Mi interessa l’opera nella sua sfera “totale”.E’ riuscita, al cospetto dei miei sensi, se questi aspetti si combinano assieme intaccando me, me come cervellomemoriabudello, anche se ci sono delle sbavature tecniche nello scritto o nella vocalizzazione o nel video o... anche se, anche se, anche se...(se intacca energicamente mecervellomemoriacuoreculobudello, gli anche se svaniscono)".
mi sembra una proposta di un criterio di efficacia estetica (e dunque la proposta di una estetica) forse vero ma assai poco utile (da un punto di vista critico e intellettuale per non dire filosofico). un criterio vacuo e di difficile applicazione, per riassumere: è efficace l’opera che colpisce l’uomo nella sua interezza di mente e corpo. bene. ciò detto, se non vogliamo rimanere a un’estetica del genio e della mistica del genio (il genio è inspiegabile, il suo agire non ha leggi, etc. etc.), dobbiamo andare avanti: quali mezzi e perché favoriscono il raggiungimento di questa efficacia totale? altrimenti "le sbavature tecniche nello scritto nella vocalizzazione o nel video", o il dilettantismo (in teatro o in video) restano semplicemente ciò che sono. almeno finché il genio non si manifesta nella sua schiacciante e oggettiva grandezza... se mai.
lorenzo
Nacci: zwischenraum
2008-12-17 10:45:00|di ng
Bene, Luigi, bene così …
Il problema non è la “superiorità” del teatro. Insisto nel sottolinearne l’importanza per rendere giustizia a una dimenticanza, che riguarda quanti si occupano, da poeti, della performatività della parola; i quali non citano mai il teatro e quando lo fanno si riferiscono a un teatro che non esiste più da almeno 100 anni. Il caso emblematico è La voce in movimento di Giovanni Fontana. Ottimo libro, importantissimo, eppure monco, proprio perché non dice nulla su ciò che in ambito teatrale si è mosso nella direzione di quella che lui chiama intermedialità.
Prove di questa dimenticanza ce ne sono a centinaia, disseminate nei tuoi e in altri interventi. Non ultimo citare di Carmelo Bene i Canti orfici, opera sicuramente “minore” del suo vasto repertorio (inizia nel 1959 con Caligola ed è del 1961 il suo primo Majakovskij, che è, dal punto di vista performativo, lo spettacolo più radicale mai realizzato al mondo). Anche a me il suo Campana annoia, come annoia il suo Leopardi e il suo D’Annunzio e la sua Pentesilea … Ma CB resta la punta più alta dell’intermedialità. Ti dice niente che di lui abbiano scritto saggi o si siano interessati pensatori come Deleuze, Foucault, Klossowskj,Lacan? Perché le sue performance sono – e lo sono oggettivamente, al di là dei gusti personali – operazioni estetiche e culturali di portata immensa, pari, e forse superiori, a quelle di Artaud e di Brecht, che non a caso sono la sua cifra segreta … Perché dico «forse superiori»? Perché CB mette in atto – in performance – ciò che gli altri due riescono solo a intravedere negli scritti ... Adesso, non vorrei dire, col tutto rispetto possibile, ma che c’entrano Frasca e Bassanese con CB?
Qui entro nel punto più importante – e dolente – di ciò che scrivi. «Andare incontro alle persone» … Ma che c’entra con l’arte? Quale grande artista – fai un nome a caso – si è mai concesso al gusto pubblico? Tu vuoi comunicare; ma che c’entra con la poesia? Il poeta intenzionalmente «parla a qualcuno», dici. Se questo fosse il criterio, non avremmo avuto Beckett o Emilio Villa o Bacon o Cage, che sono la negazione di ogni comunicazione. Eppure costoro, pur fregandosene dell’interlocutore (del “referente”, in tutti i sensi), hanno influenzato generazioni di artisti e di coscienze. O no?
L’artista costruisce forme. Le quali non hanno storia, tema o contenuto. Sono forme. Di cosa? Del mondo, certo. Ma lo sono perché sono NEL mondo, non perché lo descrivono. Nulla di più estraneo all’arte della pretesa comunicativa o, peggio, della pretesa di voler rivoluzionare il mondo o le coscienze.
Ma ti chiedo, anche un po’ provocatoriamente, se davvero ti interessa «arrivare all’altro», allora non dovresti fare quello che fai, che ben pochi raggiunge, ma andare nella direzione di un Celestini, poniamo, o di un Ovadia, capaci di mobilitare ampie platee attorno a contenuti chiari e trasmissibili e addirittura “poetici”… Dovresti cioè portare alle estreme conseguenze la tua posizione e adattare ciò che fai all’odierno gusto pubblico: martirizzarti, dovresti, insomma.
Ridomando: che c’entra con la poesia?
ng
Nacci: zwischenraum
2008-12-17 00:10:56|di lnacci
Caro Nevio,
ti rispondo, per citare un verso di Sergio Penco, dalle streghe. Quindi scusami se taglierò con l’accetta piuttosto che col bisturi.
Rivendichi per il teatro una patente, passami il termine, di "superiorità morale" in ambito performativo. Non capisco perché ti prema tanto. Vuoi sentirti dire che i teatranti sono, generalmente, performer migliori dei poeti? Lo sanno anche i sassi. Ti sia concessa la patente. E poi, dimmi, che te ne fai, di ’sta patente?
Ripeto. La mia posizione è ‘aperta’. Ma, come hai scritto anche tu, ognuno si confronta con il proprio orizzonte. Il mio è quello della poesia. Ciò non mi impedisce di leggere le belle pagine di Grotowski sull’allenamento della voce attoriale e provare a mettere in pratica i suoi esercizi, dall’immaginazione vocale alle dizioni che producano una parodia e uno smascheramento del personaggio. Allo stesso modo leggo e provo alcuni esercizi (basici) di Coblenzer e Muhar. Allo stesso modo in passato ho partecipato a laboratori teatrali, nei quali ho imparato molte cose utili e interessanti. Allo stesso modo ascolto il Bene dei Canti orfici, lo ascolto non a lungo, però, perché dopo un po’ mi – uditudite – annoio. Nonostante mi seduca quando afferma che la lettura non deve noiosamente “riferire lo scritto del morto orale, è non più ricordo, è non-ricordo, oblio”. Mi seduce. Eppure mi annoio. Mentre non mi annoio quando ascolto Frasca con i ResiDante oppure Voce con Bassanese. Bene vuol infliggere più lesioni che lezioni. E le infligge. Ma di sole lesioni abbiamo bisogno? Per riuscire a fare ciò naturalmente bisogna studiare, acquisire più modalità possibili. Sullo studio possiamo concordare. Ma quale sarà il fine, dimmi. Destabilizzare, disgustare, trafiggere, dilaniare lo spectatore, sempre e comunque? Io non sono d’accordo. Questa è secondo me una possibilità, una delle possibilità. Quando ascolto le tue esecuzioni vocali, ad esempio, ho questa impressione (prodotta da una conoscenza solo parziale della tua produzione): l’insistenza sulla torsione grottesca della voce, la sua frequente metamorfosi in altre voci, non mi turba, non mi perturba. Mi angoscia per qualche istante, e probabilmente è ciò che vuoi, ma non di sola angoscia vive l’uomo (e non di solo Bene).
Prendiamo Stratos. Un grandissimo. Ma chi ascolto con più piacere? Lo Stratos degli Area o quello di O tzitziras o mitziras? Quello sciolingua eseguito da lui è una sinfonia cacofonica strepitosa. E chiunque voglia lavorare con la voce, chiunque voglia farsi lavorare dalla voce, dovrebbe ascoltarlo e riascoltarlo. Ma per studio. Dopo un po’, quello scioglilingua si esaurisce. Rimane uno stordimento. Mentre con gli Area Stratos combina il suo genio, la sua tecnica, con un grumo musica+testi che gli permette di arrivare e restare non solo nei cervelli del pubblico, ma anche nei petti, nelle budella, nella pelle d’oca. E’ la coralità di Jahier che Mengaldo definisce “volontà di far popolare”. Scusa se mischio capra e cavoli. Devo farlo. E’ l’ultimo Voce, quello in cui affiora, come dice Frasca, di contro a un originario trobar clus, un rappacificato trobar leu. Io voglio andare incontro alle persone. E voglio farlo in modi diversi, a seconda del contesto. Se mi trovo ad un poetry slam, farò una cosa. Ad un reading in biblioteca un’altra. Un’altra ancora in teatro, se ho a disposizione una buona apparecchiatura tecnica. Un’altra ancora in salotto, di fronte a un amico. E così via. Che è poi il discorso proprio della performance – mi riferisco cioè alla necessità di adattamento al luogo e allo spazio, etc.., sebbene, e qui mi riallaccio ad una tua sollecitazione, definire cosa sia una performance mi pare ardito e complicatissimo (cfr. Schechner: “a livello descrittivo non c’è alcun dettaglio delle performance che ricorra ovunque e in qualsiasi condizione, e non è neanche facile specificare i principi per stabilire cosa è o cosa possa essere trattato come performance”; difatti la sua mappa del tempo/spazio/contesto performativo include - come ben sai - tutto e il contrario di tutto, dai riti di iniziazione all’elezione del papa, passando per le crisi con sequestri di ostaggi…).
Non ho un manifesto della vocalità da proporre. Via via, la scelta vocale o sonora nascerà durante la creazione dell’opera. Importante: non dopo: durante. Non posso concepire la composizione di un’opera se non nella compenetrazione di parola scritta e parola detta. Non per forza sarà una voce straniante. E non per forza sarà la mia voce (nel poema disumano - scusa la misera autocitazione, ma è per parlare di qualcosa di concreto che ho avuto modo di sperimentare in prima persona - la mia voce non c’è; ci sono altre voci, e la scelta di fare dire a altri era già insita nella composizione; fare dire ad altri altro, dell’altro rispetto a ciò che compare nel blocco poematico, altro che lo faccia deflagrare, che lo sconfessi nella sua arrogante gabbia autoreferenziale). Sarà la voce, saranno le voci di cui l’opera ha bisogno e che a loro volta abbisognano dell’opera per esistere.
Torno ai nastri di partenza. I migliori performer sono teatranti. E sia. A me però interessa parlare del poeta performativo. La sua opera deve poter vivere di vita sua sulla carta. E allo stesso tempo deve farla vivere, ex novo, nella voce. Attraverso la voce la sua opera si mette in discussione. Tre coordinate: la parola che resiste alla lettura silenziosa; la parola che resiste a voce alta; la parola che nasce dalla fusione di parola scritta e detta. Per me un poeta performativo è tale se dotato di questi tre orizzonti. Non disprezza nulla. E’ onnivoro. Di parole, di voci e di tecniche. Di altre discipline, altre materie. E’ iperdotato d’immaginazione. E deve ricordarsi che parla a qualcuno. Che quel qualcuno non è lo stesso qualcuno in tutti i posti/momenti. Che a quel qualcuno deve consegnare un’opera. Che quell’opera deve mostrare a quel qualcuno un’ipotesi di mondo, o meglio ancora: di ri-voluzione del mondo/della coscienza. Non gli può consegnare solo un assolo. Magari un bellissimo assolo, ma pur sempre un assolo. Ascolto i poeti sonori, sì, ma solo per desiderio di conoscere e di confronto. Le ocarine di Spatola. Cena, Fontana, Totino, Binga, Frangione, etc. li ascolto per impuro e ingordo desiderio di conoscere. In alcuni di essi c’è stata la postura del pioniere. In qualcuno, come Fontana, anche una forte vocazione critica. Eppure: sperimentare (portandoli al limite, oltre il limite del già stato) i mezzi e le modalità espressive non è, non può essere il fine. E acquisire tecniche è necessario ma non è il fine. Il fine è arrivare all’altro.
Quando tu dici “la performance è un’arte” e, come tale, va analizzata, io ti dico: siamo d’accordo. Ma, e lo ripeto quasi sssfinito, a me interessa il poeta-performer, anzi: il poetaperformer. Analizzo la sua opera nel complesso: sulla pagina, nella voce, e nella fusione di scritto e vocalizzato. Poi può esserci il video, e il discorso non cambia. Le fotografie, etc., e il discorso non cambia. Mi interessa l’opera nella sua sfera “totale”. E’ riuscita, al cospetto dei miei sensi, se questi aspetti si combinano assieme intaccando me, me come cervellomemoriabudello, anche se ci sono delle sbavature tecniche nello scritto o nella vocalizzazione o nel video o... anche se, anche se, anche se...(se intacca energicamente mecervellomemoriacuoreculobudello, gli anche se svaniscono)
E’ un argomento che non può di certo concludersi qui. Sono auspicabili altri dialoghi, magari fuori dal blog. Voce versus voce.
Ho provato a risponderti con quel trasporto che invocavi a ragione. Nel poco tempo, e nella insufficiente serenità a disposizione.
Ciao,
Luigi
Nacci: zwischenraum
2008-12-16 12:37:08|di Christian
Ciao Luigi, mi è piaciuto molto il video (di Orecchini?)... riguardo la recitazione del testo, non si fonde col video, non emergono particolari in più, o si evidenziano potenzialità, della parola, se la relaziono alla stessa interpretazione senza il video. La stessa faccenda vale per moltissime opere di poesia, poi eseguite. Non credo basti l’esecuzione per far accadere la performance, come non basta disporre di immagini in relazione ad un testo per fare video-poesia.
Possiamo anche divertirci a riutilizzare qualsiasi nozione utile a supporto dei nostri lavori, ma non possiamo fare a meno di una cosa, come artisti: il fatto che ciò che abbiamo formato sia percepito come vero, sia vero o iper-reale, proprio nel senso concepito dell’accadere della performance. Da questo punto di vista i lavori che osserviamo (e i nostri ad oggi, tranne qualche raro accadimento) sono distanti dalla performance - sono delle buone, o meno buone, esecuzioni, accompagnamenti, interpretazioni).
Sono tentativi, segnali di un interesse, ma il labor è ancora tantissimo. La questione è che non ne verremo fuori se non attraversando alcuni spazi, anzi forandoli, come il teatro, o il video. Forse più tratti dell’esecuzione del testo saranno performance per la particolare sensibilità di un attimo; oggi come oggi, mi sento di dirti, che non è per lo scopo che ci siamo voluti prefiggere, poiché quel tutto una volta soltanto, e chissà quando poi nuovamente, che è la performance, non credo che in Italia sia stata raggiunto da qualche contemporaneo.
Separo gli ambiti di esecuzione e performance, e credo tu capisca bene la criticità del prendere come normative le espressioni contemporanee all’interno del nostro ambiente poetico in riferimento all’accadere concreto della "poesia performativa".
Nacci: zwischenraum
2008-12-16 03:25:57|di molesini
Molto piaciuto lavoro.
Ho apprezzato soprattutto l’uso della voce, nel tono, nel timbro, nella scansione di lettura, nella punteggiatura del ritmo (ma forse qualche pausa era artefattuale)( e comunque mi è piaciuta), e, perché no, nell’ottima registrazione.
Nacci: zwischenraum
2008-12-15 20:21:28|
caro nevio,
cercherò di rispondere, ma sono ahimé giorni nefasti. porta pazienza.
ciao,
luigi
Commenta questo articolo
Nacci: zwischenraum
2008-12-19 13:54:18|di lorenzo carlucci
caro luigi,
mi chiedi quale sia la mia posizione rispetto alla poesia "non-lineare".
ti dico subito che la categoria "poesia lineare" non mi convince. quale ne è la definizione? il linguaggio scritto è lineare? in che senso? nel senso che il lettore acquisisce l’informazione pezzo dopo pezzo, scandendo le linee una dopo l’altra da sinistra a destra? allora anche la poesia orale è lineare, perché raggiunge l’orecchio dell’ascoltatore pezzo dopo pezzo. la differenza è tra discreto e continuo? o tra spaziale e temporale? se è tra spaziale e temporale
allora solo la "poesia visiva" sarebbe non-lineare? ma qualunque testo scritto sulla pagina occupa uno spazio. si fa allora la differenza tra un testo che sfrutta la natura dello spazio (o la natura grafica del testo) come strumento per ottenere un effetto artistico e un testo che non lo fa. ma si ottiene così uno spettro continuo di gradazioni, non una opposizione manichea lineare vs. non-lineare. e queste gradazioni occorre osservarle
tutte e non solo farsi colpire dalle differenze più macroscopiche, che possono rivelarsi spesso le più grossolane, se fondate su distinzioni concettuali dubbie.
è mia opinione per esempio che moltissima della poesia che tu considereresti "lineare" - nell’ultimo senso detto - ossia poesia che non sfrutta a fini estetici le "potenzialità" della disposizione spaziale del testo o le proprietà
visive e grafiche del testo)in verità lo fa (ed è dunque non-lineare), ma lo fa in modo non apparente (o non evidente, o non grossolano).
lo stesso vale - in misura ancora maggiore - per il ritmo e le proprietà fonetiche e musicali del testo. [celan che legge le sue poesie sta performando? è performativo? è lineare o non-lineare? sappiamo del suo rapporto
intimo con il teatro, con il teatro yiddish, sin dalla gioventù.]
in conseguenza di ciò, le categorie critiche da usare secondo me devono essere le stesse. e ciò si collega - in modo paradossale - a
quanto dici qui sotto: "un poeta performativo [...] deve ricordarsi che parla a qualcuno. Che quel qualcuno non è lo stesso qualcuno in tutti i posti/momenti." ma questo da una parte non può significare che i criteri di valutazione debbano essere diversi di caso in caso, e in un altro senso significa proprio questo! l’unità dell’opera ha due facce: l’opera deve essere una come organismo di tutte le sue parti, ma pure ogni sua parte deve essere una. i criteri non possono essere diversi di volta in volta - e tu sei d’accordo - perché la cosa più importante è quella che scrivi dopo: "Che a quel qualcuno deve consegnare un’opera. Che quell’opera deve mostrare a quel qualcuno un’ipotesi di mondo". questo è il livello essenziale di valutazione dell’opera, quello globale, complessivo, totale, e per ciò unitario. d’altra parte, la forza unitaria dell’opera ha due facce: significa anche che - qualora l’opera coinvolga diverse forme artistiche - ciascuna parte dell’opera deve avere valore in sé stessa rispetto alla produzione del settore artistico in cui si vuole collocare. ossia: se sei un poeta fai qualcosa "con" il video, il valore del tuo video deve essere valutato e valutabile anche in base al corrente mercato della video-arte, non solo in base a una presunta nicchia chiamata "videopoesia". lo stesso per le performance teatrali: la tua performance teatrale deve essere significativa anche nel panorama del
teatro contemporaneo, non solo nel sottomondo delle performance poetiche. un esempio per tutti: il cinema di pasolini è cinema-cinema, non cinema-di-poeta. (e però: è anche un cinema-di-poeta.)
per questo le categorie critiche sono le stesse, e devono essere anche categorie filosofiche (ancora, se è vero quel che dici: "quell’opera deve mostrare a quel qualcuno un’ipotesi di mondo"). mi chiedi anche un esempio di poeta performativo che mi piace. gozo yoshimasu è quello che mi ha convinto di più, finora. (il perché in un altro commento!)
ciao,
lorenzo
p.s. mi chiedi anche "Caro Lorenzo, ma di quale "mistica del genio" vai parlando?": vado parlando della mistica
del genio e dell’estetica (romantica) del genio che mi sembra implicita nel tuo intervento qui sotto. se non
ti piace il termine "genio", posso parlare di superomismo se vuoi. perché questo tipo di orizzonte è quello
che mi viene in mente quando leggo che il "poetaperformer" deve essere "iperdotato di immaginazione". ma quel
che più mi stupiva nel tuo intervento non era tanto la richiesta di iperdotazione quanto la non-applicabilità
del tuo criterio di riuscita estetica: se mi colpisce (mente e corpo o come dici tu cervello e bucodelculo),
allora è un’opera riuscita. mi limitavo a rilevare la vacuità di questo criterio, se non si aggiunge un’analisi
di come e perché qualcosa può colpire mente e corpo individuali. tutto qui, dato che so che sei - anche - un
critico accademico o comunque che fai critica professionalmente.